CAP. 17
Il
lunedì mattina telefonai molto presto ai cellulari del fratello di
Ricky e della sorella di Sara, ottenendo in entrambi i casi un
resoconto clinico immutato e per questo sconfortante. Nessun
miglioramento. Nessun cambiamento. Decisi di non marcare visita al
lavoro perché non avrei comunque combinato niente di buono, se
non
ciondolare per casa a rimuginarci su, o correre in ospedale impotente
ed angosciata. Qualche ora in biblioteca mi avrebbe, almeno in parte,
occupato la mente. Sgattaiolai nel mio piccolo ufficio evitando le
occhiate e le domande curiose dei colleghi più impiccioni,
accendendo il computer. Concentrarsi era una cosa molto difficoltosa, i
pensieri scivolavano via sempre verso le solite mete, il viso fasciato
di Ricky, le macchie infiammate sul collo di Sara. Più di qualche volta
mi sorpresi a fissare il vuoto, la mano posata sul mouse e la
lineetta del testo che lampeggiava ritmicamente sullo schermo.
- Mi
scusi - una voce flebile mi arrivò alle orecchie. Alzai gli occhi:
sulla soglia era ferma una donna dall’aspetto anonimo e sciatto.
Dimostrava una cinquantina d’anni, ma forse ne poteva avere qualcuno di
meno, ed era così magra da sembrare quasi evanescente. I vestiti le
stavano come buttati su un attaccapanni. Intorno agli occhi spenti e
alla bocca le fioriva una ragnatela di rughe. Era immobile sulla porta,
leggermente ingobbita, e mi guardava.
- Si? - dissi io con uno sguardo interrogativo. Lei fece un
passo nella stanza, poi si bloccò:
-
Ho bisogno di parlare con lei, se non la disturbo - la voce era fioca,
quasi si faceva fatica a capirne le parole - forse conosciamo la stessa
persona e, se questo corrispondesse a verità… beh, ci sono delle cose
che lei deve sapere -
Il suo modo di fare, e il suo aspetto, mi
stavano inquietando. Non la conoscevo, non sapevo cosa volesse da me,
ma sentivo che in qualche modo aveva qualcosa da dirmi, qualcosa di
importante. E non mi piaceva affatto. Feci un segno verso la sedia. La
donna si accomodò, rannicchiandosi e stringendo la borsetta tra le mani
ossute. Prese un lungo respiro silenzioso, chiuse per un attimo gli
occhi e li riaprì:
- Lei non mi conosce - iniziò - ma credo che sia
importante che mi ascolti con attenzione. Anche se quello che sto per
dirle potrà sembrare...come dire... un po’ difficile da accettare -
La
temperatura esterna, che già sembrava voler battere tutti i record
dell’anno, sembrò aumentare ancora di più. L’aria nella stanza era
immobile e irrespirabile.
- Il mio nome non ha molta importanza, e
non le dirà nulla. Comunque mi chiamo Anna, Anna Boschin. Sono arrivata
a lei dopo lunghe e difficili ricerche. Le poche cose che sapevo mi
hanno portata fino a qui, ed è stato un vero colpo di fortuna aver
incontrato la sua amica proprio mentre stava uscendo dalla
biblioteca... -
- Sara? - chiesi sempre più incuriosita e sempre
più a disagio. La donna si guardò furtivamente alle spalle, come se
temesse l’arrivo di qualcuno:
- Sì, Sara - mi confermò - non sapevo
naturalmente a chi rivolgermi, quella mattina. Di solito devo essere
molto cauta, la gente non sempre ha il tempo e la voglia di ascoltare
una storia che non è facile da digerire. Invece la sua amica... Sara,
si è dimostrata subito interessata, e mi ha dato a sua volta delle
informazioni preziosissime. Anche se non stava affatto bene, e neppure
questo non mi ha sorpreso, anzi...-
Io tornai con la memoria alla mattina in cui Sara cominciò, proprio qui
davanti a me, ad
accusare quello strano malessere che l’avrebbe condotta in una
squallida
e rovente stanza d’ospedale, chiedendomi sempre più allarmata dove
voleva arrivare quella strana donna.E come poteva affermare di aver
previsto la malattia della mia sventurata amica.
- Di cosa diavolo
sta parlando? - sussurrai io, non molto convinta di volerlo sapere.
Lei si protese verso di me, guardandomi con occhi spenti che
mi
davano i brividi:
- Lei sta uscendo con un ragazzo che si chiama Andrea, vero? - mi
chiese con filo di voce.
Con
la bocca secca mi sentii rispondere di sì. La donna sembrò
improvvisamente sollevata, poi chinò per un attimo il capo sul petto,
come spossata dopo un’estenuante corsa.
- Bene, bene, l’ho trovato, ci sono riuscita - la sentii mormorare,
mentre la pelle delle braccia mi si accapponava.
-
Insomma, non è che ci esco... non è una cosa fissa, voglio dire -
precisai assurdamente - lavora in questa stessa biblioteca, e qualche
volta abbiamo
pranzato assieme, ma io ho un ragazzo e non è che... -
- Mi dica una cosa. Lei come sta? -
Non
riuscivo assolutamente a capire dove volesse andare a parare quella
assurda donna con quelle domande così angosciose e insistenti. Mi
balenò
l’idea che fosse solo una squilibrata che si intrufolava dove le
capitava per raccontare storie assurde e inconcludenti
(ma ha parlato
con Sara...)
- Cosa significa come sto? - ribattei per prender tempo e capirci
qualcosa di più.
- La salute, voglio dire... come si sente? Non bene, vero? -
La
fissai con la bocca spalancata per lo stupore, accorgendomi con orrore
che la sua strana attaccatura dei capelli altro non era che il bordo di
una parrucca che copriva una testa priva di capelli. “Questa donna è
malata...”, pensai mentre deglutivo vistosamente. Lanciai
un’occhiata
furtiva verso il telefono valutando la possibilità di chiamare
qualcuno, ma lei se ne avvide:
- Mi scusi, mi scusi, ha ragione... -
mormorò scuotendo la testa - devo sembrarle ben bizzarra a parlarle
così a spizzichi e bocconi. Ma, vede, devo essere proprio sicura di
poter parlare chiaramente, per non farle chiamare il manicomio seduta
stante. Cercherò di spiegarmi... quel ragazzo, quell’Andrea, come si fa
chiamare di cognome, adesso? -
(come si fa chiamare ?!?)
- Zipoli, Andrea Zipoli - risposi sempre più allibita e spaventata - ho
visto anche i suoi dati nella lista delle assunzioni...-
- Zipoli...mmh - rimuginò l’altra, pensierosa - bene, forse è ora che
io le racconti la mia storia per filo e per segno
(non so se voglio
ascoltarla)
ho
conosciuto Andrea cinque anni fa, anche se non con quel cognome. Io
uscivo da una storia sentimentale con le ossa rotte, e non avevo la
minima intenzione di avere a che fare con i maschi per un po’. Lo
incontrai casualmente alla fermata del tram, una sera che rientravo
dall’ufficio. Mi chiese un’informazione sul tipo di biglietto da
usare, se non ricordo male. Facemmo parte del viaggio insieme, e fu una
piacevolissima
chiacchierata, lui era cordiale, simpatico, e sembrava proprio
avere
gli stessi miei gusti - si bloccò un attimo vedendomi sollevare
leggermente le sopracciglia, poi riprese - sempre casualmente sbucò
fuori una settimana più tardi, nel momento giusto in cui io avrei
desiderato rincontrarlo. Accettai il suo invito ad uscire a cena. In
quella occasione non gli confessai ovviamente che non ero riuscita, in
tutti quei giorni, a togliermelo dalla testa ma mi resi conto
immediatamente che era... era, come dire, l’uomo dei miei sogni. Era
dolcissimo...e premuroso... e aveva la straordinaria capacità di sapere
sempre in anticipo i miei desideri e le mie voglie. Era incredibile,
una sera arrivò persino con un secchiello di gelato alla vaniglia, il
mio gusto preferito. Ed era tutto il giorno che ne avevo una voglia
irresistibile. Sapeva starsene alla larga nei miei momenti di cattivo
umore e farmi tornare il sorriso dicendo la frase giusta quando magari
il mio nervosismo da ciclo mi rendeva una bomba ad orologeria. Insomma,
un principe azzurro, come si dice... - la bocca le si storse in un
ghigno che voleva essere un sorriso beffardo - M’innamorai,
naturalmente, e a quale donna non sarebbe successo? Avevo sempre e
solo voglia di vederlo, di stare con lui, non m’interessava più niente
né dei miei hobbies né della mia cerchia di amici. Subii naturalmente
un processo sommario da parte di chi fino ad allora mi era stato
vicino, le amiche storiche, il gruppo della palestra.
Tutti a dirmi, all’inizio, che non mi si vedeva più e tutti a
rimproverarmi (bonariamente) di questo. All’inizio, ripeto, perché poi
le persone si stancarono logicamente di pregarmi, e si allontanarono. A
me a quel tempo non m’importò più di tanto, non ne se sentivo più
l’esigenza, di vedere qualcuno, oltre naturalmente a lui, che comunque
dedicava tutto il suo tempo a noi due... -
Mentre ascoltavo quella
storia pazzesca ed inconcludente una parte di me si chiedeva se
veramente quella donna fosse a posto con le rotelle, come si dice. Come
diavolo poteva pensare che io credessi al fatto che Andrea e quella...
quella... vecchia potessero essere stati insieme!!! Avrei dovuto
interromperla lì e pregarla di andarsene, ma la mia curiosità, forse un
po’ morbosa, di sapere come andava a finire il suo racconto (e le
misteriose allusioni al mio stato di salute) mi fecero rimanere lì ad
ascoltare le sue parole.
-Non riuscivo comunque a farmene una
ragione - continuò la donna torcendosi le mani rugose - tanto io vedevo
in lui mille qualità positive tanto le persone che mi circondavano
cercavano di farmene allontanare. Oltre alle amiche anche i
miei
genitori si opposero alla nostra
storia fin da subito. Mio padre poi era intransigente, diceva che non
gli piaceva e
che secondo lui c’era qualcosa che non andava in tutta la faccenda.
Naturalmente io difesi a spada tratta la nostra relazione... solo
l’idea di non poterlo rivedere mi dava il panico più cieco... quindi le
posizioni si irrigidirono, le cose precipitarono, mio padre con
l'imposizione
di non vederlo più, io arrivando ad andarmene da casa loro. Lasciando
mia
madre in lacrime e mio padre scuro in volto, trovai un minuscolo
appartamento in cui potersi vedere. Nonostante molti tentativi futuri,
non riuscii più a risanare lo strappo con la mia famiglia, i rapporti
restarono sempre tesi e freddi fino a... fino all’incidente. Quando la
loro auto uscì di strada di ritorno da una visita ad alcuni parenti
incendiandosi...- la voce le mancò per un attimo, incrinata dal pianto
-
...dicono che non se ne siano neanche accorti...-
Chinò il capo sul
petto ancora una volta, in quello strano modo che la faceva sembrare
ancora più minuscola e vulnerabile, asciugandosi furtivamente una
lacrima.
- Andrea mi fu molto vicino, naturalmente, e fu
di grande aiuto e conforto. Senza il suo affetto non sarei uscita tanto
facilmente dal baratro scuro del dolore e della depressione. Mi
aggrappai a lui come ad un’ancora di salvezza, e tutto quello che
volevo era stargli vicino, e lasciarmi accudire in tutto e per tutto
così meravigliosamente. In quei momenti pensavo che non avrei mai
potuto fare a meno di lui. Quando stavamo insieme era tutto così...
così perfetto, ogni cosa, ogni stupidaggine. Quando mi sentivo meno
peggio, uscivamo spesso e i locali avevano sempre un posto per noi, era
così romantico, avevamo spazi e momenti tutti per noi due, il tempo
stesso sembrava rallentare, fermarsi, quando stavamo insieme, e anche
il sesso... beh, il sesso era una cosa devastante... -
Ancora una
volta il mio subconscio dubitava fortemente che Andrea, l’Andrea che
conoscevo io, avesse potuto avere qualcosa a che fare con quella che
poteva sembrare sua madre. E sentirlo dichiarare così apertamente mi
strappò una smorfia di disgusto. Lei non sembrò avvedersene e continuò
il racconto, pronunciando una frase che mi gelò il sangue
nelle
vene:
- Fu allora che cominciai a stare male - disse con voce
spenta, ed io sentii nitidamente tutti i peli del mio corpo rizzarsi
per il
panico - all’inizio erano solo piccoli disturbi fastidiosi ma
insignificanti, un’emicrania, un po’ di sangue dal naso, la vista che
soprattutto verso sera mi si annebbiava... ma col passare del tempo le
cose peggiorarono rapidamente. Ora, se ho visto giusto, credo di non
svelarle nulla di nuovo dicendo che iniziai ad avere una
preoccupante perdita di peso - il cuore mi balzò in gola rullando come
impazzito - un dimagrimento quasi inaccettabile visto il breve lasso di
tempo in cui si manifestò, e che mi causò una spossatezza spaventosa,
tanto da impedirmi a poco a poco di poter svolgere qualsiasi normale
occupazione. Mi rendo conto di spaventarla a morte dicendole queste
cose, ma il suo
panico è per me un sollievo, perché a guardarla capisco di essere
arrivata in tempo, e posso ancora fare qualcosa... -
Io ero
inchiodata sulla sedia, mentre un sudore copioso ed improvviso mi
imperlava la fronte e mi inzuppava i vestiti. Di che diavolo stava
parlando quella donna, che razza di malattia si era beccata? Ci siamo
beccate? Frequentando la stessa persona, a sentire lei.
Andrea era
malato, contagioso? Ma di cosa? Aids ? (oh, ma è ridicolo, mica ci
ho scopato, e non è proprio una cosa che si prende con un bacio per
quanto profondo...)
(...spero...)
Eppure i sintomi, e il modo...
-
Peggiorai al punto da dover lasciare il lavoro, ero impiegata in una
ditta di trasporti e c’erano orari un po’ impegnativi. Passavo le
giornate tra il divano e il letto, incapace di qualsiasi attività
normale che implicasse un po’ di energia fisica. Andrea si prendeva
cura di me e mi seguiva in tutto, con una dedizione totale, ma io non
miglioravo, anzi... Alla fine, nonostante qualche perplessità di lui,
mi decisi ad andare dal medico, che mi fece fare tutta una serie di
esaurienti esami dai quali, e questo è il bello della faccenda, non
risultò proprio nulla che non andasse. Ero sana come un
pesce, mi
stavo solo consumando.
Il dottore restò perplesso come se si fosse trovato
di fronte ad un caso di guarigione dal cancro, e l’unica cosa che seppe
consigliarmi fu un periodo di riposo (considerato il grave stato di
prostrazione fisica), possibilmente in un ambiente
salubre, la mezza montagna o il lago. Ci pensai un po’ su e poi, visto
che perlomeno non mi avrebbe fatto peggio, decisi di accettare l’invito
di una mia amica che si era trasferita da un paio d’anni in un
delizioso paesino affacciato sul lago di Garda. Al telefono mi disse
che era
entusiasta di ospitarmi, rinverdendo così i ricordi dei tempi delle
superiori. Quella fu l’unica volta in cui io e Andrea discutemmo un po’
energicamente... a parte quando poi l’ho lasciato... perché lui diceva
che non aveva la possibilità di accompagnarmi, e che gli sarebbe
dispiaciuto molto dover stare senza di me per così tanto
lontano.
Io ribattei
che avrebbe potuto raggiungermi in meno di un’ora quando avesse
voluto... qualche sera dopo cena, nei week-end... ma lui ventilò vari
tipi di
problemi, più che altro di lavoro, che glielo avrebbero impedito. Non
posso essere certa, ma io credo che lui non potesse, o non volesse,
allontanarsi da questa città, come se facendolo avesse perso in qualche
modo le sue capacità di... di... - cercò qualche parola che potesse
rendere l’idea, poi scrollò le spalle curve - in ogni caso ci andai,
senza di lui. E stetti meglio, decisamente meglio, fin dal mio arrivo.
Stetti straordinariamente
bene, e questo mi
spiazzò più di quando non sapevo che pesci pigliare all’insorgere dei
miei vari malesseri. Non poteva essere solo l’aria salubre del lago, ne
convenni assieme alla mia amica nelle lunghe ore del giorno e della
notte in cui ne discutemmo. Una parte della mia mente non voleva
assolutamente accettare l’assurdo pensiero che si stava facendo
strada dentro di me, ma qualcosa nella mia testa, o nell’anima, perché
no, mi ripeteva incessantemente che forse... Il disagio a quel punto
mutò da fisico a psicologico, scatenato dalla reazione esplosiva tra
la parte di me che soffriva per la lontananza da lui (desiderandone la
presenza come l’aria che respiravo) e l’altra seriamente propensa a
prendere in considerazione che la causa del mio star male
potesse essere... era così assurdo solo pensarlo, e anche
adesso
mentre
lo dico, dopo tutto quello che è successo, mi sembra così difficile da
credere... Il soggiorno presso la mia amica volgeva però al
termine, e così dovetti rientrare in città e, naturalmente, rivedere
Andrea che mi attendeva impaziente e felice come un bambino sotto casa
mia. Non appena lo scorsi, in piedi accanto al portone, con una lunga
rosa rossa tre le mani, il mio cuore impazzì di felicità, ma solo per
un attimo. Poi la parte di me che voleva vederci chiaro prese il
comando delle operazioni, imponendomi di non lasciare che
l'istinto
mi travolgesse (anche se le mani mi tremavano al punto da non riuscire
a
chiudere a chiave la macchina). Lui mi abbracciò e mi baciò, ed uno
strano brivido, diverso da quelli che provavo prima, mi attraversò la
schiena. Salimmo insieme a casa e parlammo a lungo, lui mi chiese come
stavo e se gli ero mancata, io gli rispondevo, molto sulla difensiva,
esaminando nello stesso tempo le reazioni del mio corpo in attesa di
qualche strano sintomo. Non successe niente, almeno fino a quando lui
restò con me. Ci fu anche un tentativo di approccio, diciamo fisico,
che stava per travolgermi in un mare di passione ma, con uno
sforzo di
volontà e adducendo un’emicrania da stanchezza dovuta al viaggio,
riuscii a convincerlo a tornarsene a casa e a rivederci più
tardi in serata. Quando se ne andò rimasi immobile sul divano, mentre
calde lacrime di tristezza e di paura mi rigavano il volto. Era stato
mostruosamente difficile mandarlo via, non pensavo che sarei mai
riuscita a farlo, e tutto il corpo era scosso da un tremito
incontrollabile. Con angoscia mi resi conto che avrei desiderato solo,
con tutta me stessa, corrergli dietro per gridargli di tornare. Poi
qualcosa di caldo e salato mi colò lungo il labbro superiore sino in
bocca, e mi alzai di scatto, allarmata. Corsi nel bagno a specchiarmi,
trovando definitiva conferma al più grande e assurdo dei miei timori:
il sangue che mi scendeva dal naso e occhiaie scure
e profonde sottolineavano i miei occhi spaventati. Occhiaie
delle
quali mezz’ora prima, da un controllo nello specchietto retrovisore
della macchina in attesa che scattasse il verde all’ultimo semaforo,
non ne esisteva traccia!
-
La donna seduta di fronte a me, che mi
stava raccontando quella storia incredibile, si passò un dito appena
sotto l’occhio, quasi a volersi sincerare che le cose che stava
narrando non fossero tornate a manifestarsi. Come spettri di un antico
passato. Il caldo nel minuscolo ufficio era asfissiante, e avvertivo
tenuamente come in un sogno il sudore colarmi in mezzo ai seni e lungo
lo stomaco. Al di là della porta non passava anima viva, e nessun
suono veniva a interrompere quello strano monologo. Eravamo solo io e
quella inquietante donna, impegnate in un assurdo colloquio che sarebbe
durato fino alla fine dei tempi. Non le credevo, naturalmente, ma
comunque non riuscivo, come incatenata da una curiosità morbosa e
malata, a farla smettere e a cacciarla via. Quello che mi stava
raccontando era assolutamente incredibile, nel significato letterale
del termine, vale a dire impossibile
da credere, come una storia di fantasmi o
una strana leggenda metropolitana. Quella dei coccodrilli
giganti nelle fogne o l’autostoppista notturno che si rivela poi una
persona morta parecchio tempo addietro. Gira e rigira, in fondo erano
sempre le solite vecchie fiabe che l’uomo da sempre ha avuto il bisogno
di raccontarsi per esorcizzare le sue vere paure. Ed ora il ragazzo
migliore del mondo che fa ammalare le donne che ama...
La donna mi ripiantò gli occhi spenti nei miei e riprese a parlare:
-
Presi il coraggio a due mani e decisi che quello era il momento giusto,
se mai ce ne fosse stato uno, per staccarmi da lui. Perlomeno ero forte
del periodo passato lontano, e della consapevolezza che ogni minuto che
avessi passato accanto a lui lo avrei pagato in salute. Feci un lungo
bagno caldo, mi presi cura di me cospargendomi di borotalco e di una
crema fresca e profumata, mi vestii con calma e mi sedetti sul divano a
guardare il sole che moriva all’orizzonte in un cielo color sangue.
Rimasi lì, mentre la casa annegava lentamente nel buio della sera,
a pensare e non pensare, e ad aspettare.
Lui arrivò verso le nove, e
il suo sorriso mi avvolse come un fluido benefico. Ma nella mia mente
si stagliava, lucida e sfolgorante, la consapevolezza di dover far di
tutto per resistergli. Mi resi conto che era inutile perdersi in
chiacchiere, e che ogni minuto che passava la mia forza si sarebbe
indebolita, così glielo dissi. Semplicemente.
- Non voglio più stare
con te - dissero le mie labbra. La sua faccia si raggrinzì in una
smorfia di dolore quasi fisico. Da quell’istante in poi lui fece ogni
cosa in suo potere per farmi cambiare idea e farmi capire quanto aveva
bisogno di me. Ancora adesso ho un ricordo assolutamente incompleto e
confuso della nostra discussione. L’unica cosa che so è che fu
drammatica. Che fu straziante vederlo cadere sotto i colpi della mia
risolutezza. Lui parlò, e pregò, e supplicò. Gridò il suo amore e la
sua disperazione. E innumerevoli volte mi sentii come un’aguzzina
crudele e mi montò imperioso il desiderio di prenderlo tra le braccia.
Per
curare le ferite d’amore che gli stavo arrecando promettendogli che non
ci saremmo lasciati mai più. Ma ogni volta che avvertivo la mia
capacità di resistere farsi più debole, tornavo col pensiero allo
scarlatto del sangue che mi macchiava le labbra, e all’alone scuro che
spegneva i miei occhi, e all’ago della bilancia e ai mal di testa
lancinanti. Lui tentò con ogni mezzo, blandendomi e commuovendomi e
minacciandomi e supplicandomi di tener vivo quel sentimento che stava
lentamente morendo per mano mia. Infine si lasciò cadere in
ginocchio, il capo chino e sconfitto e le lacrime a
punteggiare il
legno
del pavimento. Ancora una volta il cuore mi tremò di amore e di
strazio nel vederlo così. Ma non cambiai idea.
Quando si rese conto
che non c’era proprio niente da fare, si alzò lentamente e uscì dalla
mia casa. E dalla mia vita. Non si fece più vivo, non mi chiamò né lo
vidi mai nei luoghi che conosceva o che frequentavamo di solito. Se vi
ritornò, magari per vedermi da lontano, lo fece di nascosto a me. Io
pagai quella drammatica sera. E i giorni, i mesi successivi senza di
lui. Stetti così male che avrei pagato oro pur di vederlo anche
solo per un secondo, per sentire una sola parola dalla sua bocca, per
farmi scaldare per un attimo dal calore del suo sorriso. E se
all’inizio, quando cominciai ad accusare quegli strani malesseri
pensavo che quello volesse dire stare male, non avevo idea di cosa
avrei provato in seguito. Tutta quella faccenda mi devastò, nella mente
e nel corpo, e deperii, rapidamente, orrendamente. E iniziò il
calvario delle visite e degli esami, con i medici che esibivano le loro
facce stupite dall’entrare in contatto col caso clinico di un essere
umano che si stava consumando e che era sano come un pesce. Tutti quei
visi spiazzati e impotenti alla fine si fusero nei miei
ricordi in
un’unica,
angosciante faccia che mi ripeteva con tono monocorde che non c’era
niente in me che non andava. Ma che , comunue, non sapevano spiegarsi,
al momento,
il perché delle mie sofferenze. Lo sconfortante ritornello era che
sarebbero stati necessari altri
esami. Quando me ne tornavo a casa svuotata e sfinita e restavo
immobile nell’oscurità ad ascoltare un corpo che si ribellava e si
faceva sentire con qualche nuovo malore, coi dolori alle braccia, con i
formicolii fastidiosi sulla faccia, con giramenti di testa tali da
impedire ogni movimento, speravo che quella cosa, in un modo o
nell’altro, finisse. E a poco a poco, quando ormai non avevo neanche
più energia per sperarci, finì. Non stetti più male. E potei, con
tutti i limiti che ben conosco, riprendere una vita quasi normale -
Restò
in silenzio per alcuni attimi, rimirandosi le scarpe come se non le
avesse mai viste in vita sua, poi riprese a parlare in un sussurro
quasi inudibile:
- Ci ho pensato, ci ho pensato molto in tutto
questo tempo. Per distrarmi dalla sofferenza, all’inizio, tentando
di dare una spiegazione a tutto questo. So che la conclusione a cui
sono giunta, alle sue orecchie, alle orecchie di
chiunque, forse anche alle mie, potrà suonare assurda e
squilibrata. Ma è
l’unica conclusione plausibile... Io credo che lui sia una specie di...
di... di vampiro,
che però non succhia il sangue come al cinema. Un
vampiro psichico,
in qualche modo, che ha bisogno delle emozioni degli
altri, del loro affetto per nutrirsene. Forse addirittura ne ha bisogno
per vivere. Ha affinato per questo una tecnica indubbiamente perfetta,
per riuscire nel suo scopo, forse una capacità che va al di là delle
attuali possibilità umane. Non si spiegherebbero altrimenti tutti quei
momenti così perfetti, la parola giusta al punto giusto, il sapere
sempre quello di cui gli altri hanno bisogno. Sì, credo che ci sia
anche qualcosa di soprannaturale, in quello che sa fare, come ad
esempio allontanare la gente in determinate occasioni, o dilatare la
concezione del tempo, e molte altre cose ancora. Mi sono ritrovata
oggetti che ero certa non aver preso con me, e altri spariti quando ero
strasicura di dove fossero. Fa innamorare le persone, con tutto questo,
e poi ne beve la linfa del loro amore e con quella l’energia vitale. In
cambio di un amore perfetto e stupendo dà una lenta consunzione.
Continuando a scervellarmici su, cucendo indizi e ricordi e circostanze
mi sono anche convinta che tutto sommato non lo faccia neanche
volontariamente. Non è un’entità malvagia che gode nel distruggere le
persone, forse si tratta solo di istinto di conservazione. Di certo non
è crudeltà. E’ alla stessa stregua di una belva che caccia per
nutrirsi e quindi sopravvivere. Tutte le volte che abbiamo visto a
Quark i leoni rincorrere ed abbattere qualche gazzella non abbiamo mai
pensato che lo facessero gratuitamente, senza uno scopo preciso, o
peggio ancora per il solo gusto di uccidere. E lo stesso credo sia per
lui. Quando sono stata un po’ meglio mi sono resa conto che se
veramente le cose stavano così dovevo fare qualcosa, qualunque cosa
fosse in mio potere, per evitare che tutto ciò si ripetesse. Mi sono
messa a cercarlo, prima nei posti dove eravamo stati durante i mesi
passati assieme, poi parlando con chiunque potesse darmi almeno un
minuscolo indizio. Senza risultato. Sembrava sparito, al punto che
verso ultimamente, nei miei agitati dormiveglia notturni, a volte
credevo quasi che
fosse stato tutto uno spaventoso incubo. Ma poi c’era la luce del
giorno e lo specchio impietoso a riportarmi alla realtà. E come succede
quasi sempre in queste situazioni, una settimana fa alzo gli occhi da
una vetrina di abbigliamento e lo vedo. Così. Dopo mille ricerche e
parole sprecate e notti insonni alzo lo sguardo e lui è davanti a me
che sta ordinando un gelato. La prima, violenta reazione è stata quella
di
chiamarlo e corrergli incontro, per perdermi nel suo abbraccio. Poi
è subentrata la paura a mozzarmi il fiato in gola, per il timore di
soffrire ancora. Nascondendomi dietro l’angolo del palazzo, col cuore
che
sembrava volermi uscire dal petto, attesi che lui si
rimettesse in
cammino, decisa a seguirlo e a non farmelo scappare, stavolta. Col
terrore che lui potesse in qualche modo scoprirmi, girandosi di scatto
e vedendomi, o addirittura “sentendo” la mia presenza, scoprii dove
abitava. La mattina dopo, fin dalle sei, attesi chiusa nella mia
macchina che uscisse per vedere dove si recava durante il
giorno.
Dovetti aspettare ben due ore, con le gambe informicolate dalla
posizione, prima che la mia pazienza (e la mia testardaggine e la mia
follia) venissero premiate. Lui uscì di casa senza accorgersi di nulla
e io lo seguii, a piedi, fino a qui...-
Io, con la testa confusa e ovattata da quel racconto fuori da ogni
logica, mi riscossi un attimo:
- E’ venuto a piedi da casa sua sin qui in biblioteca?!? - domandai
stupita - dal Villaggio del Sole?!? -
Ora fu la volta di lei di fissarmi allibita, con la mascella che
ciondolava stolidamente:
-
V-Villaggio del Sole? - ribatté scuotendo la testa - e chi ha mai
parlato del Villaggio del Sole... lui abita qui vicino, nel quartiere
delle Barche... -
- Alle Barche?!? - risbottai io, come se non
credessi alle mie orecchie. Viste da fuori sembravamo due idiote
comparse di qualche buffo programma televisivo per bambini, che
inscenassero una ridicola scenetta consistente nel ripetere in maniera
interrogativa e marcata la parte finale delle reciproche frasi.
- Il quartiere delle Barche - precisò lei - è giù vicino a ponte San
Paolo, dove inizia... -
- Lo so dove sono le Barche! E' che io pensavo... ero stata...- la voce
mi morì in gola.
-
Sta lì, in vicolo Retrone - continuò la mia interlocutrice senza darmi
il tempo di spiegarle il mio stupore - almeno da lì è uscito la mattina
che l’ho aspettato, e le altre tre seguenti. Accanto alla porta c’è un
negozietto a metà tra il rigattiere e l’antiquario. E’ un palazzo un
po’ fatiscente, per la verità, ed anche un po’ sinistro... -
Frugò
nella borsetta alla ricerca di qualcosa, forse di un fazzoletto, poi si
bloccò con le mani affondate nella bocca spalancata della borsa,
riprendendo a parlare:
- La settimana scorsa mi sono decisa
finalmente a fare qualcosa. Cosa, di preciso, non ne avevo proprio
idea. Sono arrivata qui sotto, e stavo per entrare a fare un giro di
perlustrazione fingendomi una frequentatrice della biblioteca, quando
ho incrociato la sua amica che stava uscendo. Non so, forse un sesto
senso, un’illuminazione, mi ha spinto a chiederle di getto se conosceva
un certo Andrea. Lei mi ha fissato per un attimo e poi si è decisa a
dirmi quello che sapeva. E non solo, anche quello che pensava. E’ stata
uno scambio di opinioni molto costruttivo, come le ho già detto
all’inizio, che mi ha dato forza e mi ha convinto, nel caso stessi
vacillando, a continuare... a venirla a cercare... -
Sbirciai l’ora: era ormai fine mattinata. Il caldo era soffocante, e
non si muoveva un alito d’aria.
-
Bene - concluse la donna asciugandosi i palmi delle mani sulle cosce -
era questo che dovevo dirle. Non posso ovviamente costringere nessuno a
prendere per oro colato quello che dico. Ma avvertirlo sì, per tacitare
la mia coscienza. Non è il caso che chiami la polizia, o gli
infermieri, o gli esorcisti. Tra meno di un minuto sarò fuori da qui, e
dalla sua vita. Però sono sicura, se ho parlato con la persona giusta,
che dentro di lei, da qualche parte in fondo all’anima, lei le cose le
sa. E sa che io le ho detto solo la verità. -
Io squadrai ancora una
volta quella donna inquietante, il suo aspetto stanco e cadente. Pensai
ad Andrea, al suo sorriso, ai suoi occhi a metà tra il triste e il
divertito, alle sue parole dolci, alle sue mani calde. E cercai di
immaginarlo mentre dedicava tutto ciò a quella donna che aveva
perlomeno il doppio dei suoi anni. Intento a guardarla come aveva
guardato me. E non le credetti. Non volevo credere ad una parola di
quel racconto strampalato. Non era possibile. E qualcosa, da qualche
parte in fondo alla mia anima, mi urlava in silenzio di non crederle e
non perché quel racconto fosse strampalato, ma perché se ci avessi
creduto, se ci avessi solo provato, avrei dovuto rinunciare a quel
sorriso, a quegli occhi, a quelle parole, a quelle mani. E l’idea che
ciò accadesse mi impediva di respirare. Mi impediva di vivere.
- Io
non le credo - dissi lentamente, mentre un sapore cattivo mi impastava
la bocca - e non chiamerò proprio nessuno. Voglio solo che se ne vada
di qui -
- Lo farò, non si preoccupi, lo farò. E mi rendo anche
conto che la storia che le ho raccontato non è delle più normali. Anzi,
è proprio difficile da mandar giù - riprese a cercare qualcosa nella
borsetta che aveva in grembo - ma se proprio non vuole credere alle mie
parole, dia almeno un’occhiata a questa... -
Mi porse qualcosa.
Guardai: stretto nella sua mano fragile come un uccellino c’era un
cartoncino rettangolare, di colore marroncino. Lo presi con la mano che
mi tremava: era una carta d’identità. Un semplice documento. Carta
d’identità n° AC0226672, di Boschin Anna, lessi sulla
copertina.
-
Lo apra - suggerì la donna con una voce d’oltretomba. Lo feci.
Sull’anta di destra c’era la foto di una ragazza bionda e sorridente,
con le gote appena velate di rosso. I suoi occhi assomigliavano
terribilmente, in una versione più vitale, a quelli della donna seduta
di fronte a me. La ragazza della foto assomigliava terribilmente
alla
donna seduta di fronte a me. “E’ sua figlia” pensò la mia mente,
cercando di restare disperatamente aggrappata al raziocinio. Sulla
sinistra lessi: cognome Boschin. Nome Anna. Nata il 20 febbraio 1974.
Millenovecentosettantaquattro. MILLE NOVECENTO SETTANTAQUATTRO. Mi
scappò un gemito. Se il documento non era un falso, e non vedevo il
motivo perché lo fosse, a meno di non essere vittima di un clamoroso
sketch di Scherzi a parte, la donna seduta di fronte a me, a cui
apparteneva quel documento d’identità, aveva un anno meno di me.
-
Sono io - mi confermò lei, con voce spenta. Ma io non la udii, i
circuiti logici nella mia mente erano già saltati improvvisamente, come
la luce durante un violento temporale, e svenni, scivolando
pesantemente sul pavimento del mio ufficio.
CAP. 18
S-ciaf. S-CIAF!
Due
deboli schiaffi mi colpirono sulle guance, dissipando a poco a poco il
buio nella mia testa in filamentose nubi nerastre. Aprii gli
occhi,
richiudendoli immediatamente, feriti dal chiarore esterno.
-
Lasciatele un po’ d’aria... - disse qualcuno alla mia sinistra.
Riconobbi la voce del signor Pesavento, il custode. Riprovai
ad
alzare le palpebre, con maggior cautela, e alcune sagome
confuse
si misero lentamente a fuoco. Svelando le facce
preoccupate e curiose dei miei colleghi. La Maria Luisa era china su di
me ancora con la mano sollevata a mezz’aria, dubbiosa se avevo bisogno
di qualche altro schiaffetto. Le sorrisi debolmente, per rassicurarla.
-
Come si sente, mia cara? - chiese con un tono di voce
inaspettatamente gentile. Forse non desiderava ulteriore clamore sulla
biblioteca, dopo l’incidente al povero Maniero. Io
scossi la testa, ancora un po’ ottenebrata:
- Bene - risposi - almeno, credo -
Feci
per alzarmi e decine di mani premurose mi afferrarono. Ero stesa sul
fresco marmo del corridoio, dove presumibilmente mi avevano portato
dopo avermi trovato svenuta. Immediatamente mi tornò in mente il mio
ufficio, e lo strano colloquio che vi si era svolto. Girai lo sguardo
alla ricerca frenetica della donna che mi aveva fatto visita,
nonostante un embrione di capogiro. Ma di
lei, tra la piccola folla, non
c’era traccia. Se n’era andata, come aveva promesso. Walter, il paffuto
giovane addetto alla sala principale, si fece largo portando tra le
mani una pezzuola bagnata, e me la applicò sulla fronte, e di
questo gliene fui grata in eterno.
- E’ sicura di riuscire a stare
in piedi? - chiese ancora la direttrice. Mentre facevo cenno
di sì
con la testa Pesavento mi elargì un paterno buffettino sulle guance:
-
Quell'ufficetto - dichiarò con voce solenne, e non aveva tutti i torti
- quel buco era veramente un forno, quando l’ho trovata. Sfido che si
sia sentita male... -
Tutte le teste dei presenti annuirono,
scambiandosi sguardi di approvazione. Io feci segno ai due che mi
tenevano per gli avambracci che ce la facevo da sola, e afferrai la
borsa che una ragazza aveva preso con sé.
- E’ tutto ok - dissi
ancora - dev’essere stato proprio il caldo, o uno sbalzo di pressione.
Ne vado soggetta, specie con l’afa. Ora vi ringrazio, tornate alle
vostre occupazioni, ho solo bisogno di una boccata d’aria -
Imboccai
le scale verso l'atrio, ancora un po’ insicura sulle gambe, lasciando
i miei colleghi a commentare l’accaduto. Certo che ne avevano di
materiale su cui spettegolare dopo tutto quello che era successo...
Uscii
nella via inondata di sole, voltando l’angolo del palazzo per dirigermi
verso la piazza. Sapevo benissimo dove stavo andando, e non avevo certo
bisogno di mentire a me stessa. Volevo immediatamente a
verificare quello che la donna mi aveva raccontato, e cioè se Andrea
abitava veramente dove aveva indicato.
Attraversai la piazza
deserta, dove stazionavano solo alcuni colombi a contendersi dei grani
di miglio e un gruppetto di turisti impegnati a studiare con smarrita
concentrazione una piantina della città, e mi immersi nell’ombra degli
archi della Basilica Palladiana. Scesi le scalette che portavano alla
piccola piazzetta sottostante, dove stazionavano alcuni banchi di fiori
tristemente sbarrati, raggiungendo il quartiere delle Barche. Era un
quartiere molto suggestivo, che costeggiava il fiume, e di recente era
stato oggetto di ottime ristrutturazioni. Vi abitavano però
comunque molti extracomunitari, sia slavi che africani, e in breve le
linde facciate dei palazzi e le strette viuzze erano tornate a coprirsi
di graffiti, sacchetti dell’immondizia sventrati e sporcizia. Arrivai
nel vicolo incriminato, notando subito il negozio di cui parlava la
donna.
Dalle vetrine facevano bella mostra alcuni discreti mobili in stile
Vecchio Veneto
e un tavolino con una serie deliziosa di sifoni per il seltz,
decisamente impolverati.
La porta accanto era quella dove, secondo il resoconto, viveva Andrea.
La sua vera
casa, a quanto pareva. Restai in attesa dietro l’angolo, a
riflettere. Non sapevo bene cosa fare, le possibilità
erano molteplici, e non tutte allettanti. Poteva tornare
Andrea (o uscire, visto che non avevo idea di dove fosse) e
sorprendermi come un maldestro agente segreto in disarmo. Sempre che
abitasse lì e non dove ero stata a trovarlo. Dove avevo letto il suo
cognome sul campanello e visitato la sua casa. “Che diavolo ci faccio
qui?!?”
pensai infastidita dall’aver bevuto come acqua fresca quella
strampalata accozzaglia di assurdità, uscite dalla bocca di
quella donna. Decisi comunque di non sprecare quel tentativo, con
l'obiettico di smentire definitivamente le farneticazioni di quella
Boschin. Mossi qualche passo verso l’entrata del palazzo, fingendo
di osservare con vivo interesse gli oggetti esposti nelle vetrine. Mi
osservai intorno con cautela, sbirciando da sopra gli
occhiali da sole: la viuzza era deserta, e da qualche parte arrivava il
ritornello di una canzone di Fabio Concato. Mi spostai
impercettibilmente verso la porta, per dare una scorsa ai campanelli.
Qualche simpatico teppista doveva aver tentato di appiccarvi il fuoco,
durante una scorribanda notturna, perché la griglia del citofono
appariva annerita e fusa. Lessi le etichette di vario formato e genere
appiccicate alla bell’e meglio: Svomiç, Zamir, Awoonda. Su alcune c’era
solo una sigla, altre erano bianche. Poi il cuore mi mancò un colpo.
Sull’ultimo campanello in alto a sinistra c’era un nome che non avrei
mai voluto leggere (e anche mentre lo leggevo la mia mente non
intendeva crederci): Zipoli Andrea. Era tutto vero. Abitava qui, come
quella donna aveva detto (“Però
sono sicura, se ho parlato con la
persona giusta, che dentro di lei, da qualche parte in fondo all’anima,
lei le cose le sa. E sa che io le ho detto solo la verità”).
Restai
immobile a fissare quel nome vergato con un pennarello nero su un
rettangolino bianco, col cuore forsennato come un treno, mentre il
sudore mi colava lungo la schiena. “...se parli ancora m’innamoro, non
devo fare niente, mi basta stare lì, semplicemente...”
cantava la radio
da qualche finestra aperta, prima che la musica venisse interrotta
bruscamente.
Che fare che fare che
fare CHE FARE?!? Piantata lì, sotto un sole
implacabile, con le dita dei piedi che mi si flettevano e distendevano
in continuazione per l’agitazione, la testa piena
solo di
quelle due parole. Che
fare.
Cheffarechefarecheffareccheffarrecchheffarrr. Scappar via lontano mille
chilometri, suggerì una vocina spaventata nei meandri del
mio cervello,
ormai cotto a puntino dalla tensione e dal solleone. Correre tra le
braccia di Andrea, sposarlo, farci quindici bambini e non chiedergli
mai niente,
le fece eco un’altra dal fondo del mio cuore. I due
suggerimenti presero a bisticciare per avere il sopravvento,
svolazzando vorticosi come i teschi volanti in Doom, e come questi
erano fiammeggianti e con zanne che laceravano dolorosamente. Di
sottofondo a questo duello il che
fare che fare che fare continuava
come eseguito da un’orchestra di ubriachi. Il dissidio mentale fu
infine squarciato dalle visioni contemporanee dei volti sofferenti di
Ricky e
di Sara, e tornai a rendermi conto di dov’ero. E di quello che dovevo
fare. M’infilai senza pensare nella porta spalancata, che mi accolse
con
una piacevole penombra ed un persistente, cattivo odore di muffa
e di escrementi. Le pareti del breve corridoio che portava alle scale
erano scrostate e coperte di scritte in qualche lingua sconosciuta.
Riuscii a decifrare uno sgrammaticato “Albannesi, fori dale bale”
vergato con uno spray assurdamente fucsia, accanto ad un eloquente
disegno di una donna che stava leccando un pene esagerato. Mariça,
secondo piano, era specificato. Bei
condòmini, pensai mentre salivo
circospetta le scale viscide e sconnesse, se veramente Andrea abita qui
ha di che divertirsi... Ma perché diavolo inventarsi
l’indirizzo del
Villaggio del Sole?!? mi scervellai per capirci qualcosa, e di chi sarà
poi quell’appartamento (perché io in un appartamento ci
sono stata!)
dei suoi, di un amico,
di chi?!? Continuai a salire con prudenza,
accompagnata dai sordi rimbombi del mio cuore nelle orecchie, con il
terrore di incontrare qualcuno. Chiunque, non solo Andrea (allora sì
che la frittata sarebbe fatta!). Passai davanti ad una
porta chiusa da
dove, all’improvviso, arrivò una cacofonia di grida irose in qualche
lingua dell’est, seguite da un colpo secco e da un piangere disperato
di bambini. Mentre proseguivo la salita la porta in questione si
spalancò e ne uscì un uomo biondiccio, con una canottiera piena di
macchie, che prese a scendere imprecando incomprensibilmente, sotto
gli occhi di una giovane donna in lacrime e di un paio di bambini dagli
occhi enormi e spaventati. “Dove
diavolo mi sto andando a ficcare?!?”,
pensai ancora una volta, e ancora non sapevo proprio niente, di quello
che mi aspettava. Arrivai finalmente all’ultimo piano, fermandomi
boccheggiante di fronte all’unica porta esistente. Il
caldo nel sottotetto era soffocante. Sbirciai un’ultima volta nella
tromba delle scale, ma le rampe e i pianerottoli rimasero deserti e
silenziosi. Fissai la porta, scrostata e malmessa come le sue sorelle,
chinandomi sul campanello a fianco privo di qualsiasi indicazione. “
E adesso?”,
pensai sconfortata mentre constatavo di persona che le mie
risorse di agente segreto erano molto limitate. Nei film l’eroina
avrebbe avuto la meglio sulla serratura con una banale forcina per
capelli (ma io li porto
così corti...) o intrufolandosi
nell’appartamento scavalcando la ringhiera del poggiolo e
avventurandosi pericolosamente lungo il cornicione a picco sulla via
(ehi, non scherziamo…
non se ne parla neanche!). Osservai la porta. La
porta osservò me.
Poi feci la cosa più ovvia, che viene quasi spontanea di
fronte ad una porta chiusa, anche se questa fosse sbarrata e blindata.
Provai la maniglia.
Così, tanto per dare un senso alla mia visita (e
l’approvazione al fatto che la missione era fallita e che potevo quindi
andarmene velocemente da lì...) impugnai la maniglia e l’abbassai. E la
porta, con un cigolìo quasi impercettibile, si socchiuse. Rimasi
interdetta
e stupita più che se ci fossi passata attraverso come un fantasma. La
porta era aperta! A quel punto il mio alibi di tagliare la
corda
perché non ero riuscita a entrare si dissolse come neve al sole. Non
avevo scusanti. A quel punto dovevo entrare (ma a cercare cosa, poi ?).
Spalancai del
tutto la porta, che mandò un secondo cigoloso lamento, e feci un passo
all’interno. Rimanendo allibita: la temperatura nella stanza era
gelida! Non fresca, visto che era immersa nell’oscurità creata dai
balconi
accostati, né tantomeno fredda, ma sottozero!!!
Osservai incredula il
mio respiro trasformarsi in candide nuvolette come fosse il primo
gennaio, mentre iniziavo a rabbrividire violentemente. “Qui
mi becco una polmonite!”, ricordo di aver pensato
spaventata mentre indietreggiavo nel tepore del pianerottolo, “il ventisette di giugno, per di
più!!!”.
Ero vestita come ci si veste in questo periodo dell’anno, e cioè
con una camicetta leggera senza maniche ed una corta gonna colorata. Se
entravo lì dentro mi sarei congelata a morte, ma d’altra parte ero
decisa ad andare a fondo della faccenda (che adesso stava assumendo, se
non me n’ero convinta prima, sinistre connotazioni soprannaturali) così
mi
feci forza. Mi lanciai nella stanza immersa nell’oscurità dirigendomi
verso le fessure luminose dei balconi, con l’intento di
spalancarli per far entrare un po’ della luce e, soprattutto, del
calore del sole estivo. Li aprii, scoprendo a mie spese che il
tentativo era fallito. Il tepore esterno si fermava giusto sul bordo
della finestra, senza riuscire a penetrare nella stanza per stemperare
almeno un po’ il gelo che vi regnava. La cosa più inquietante era come
il contrasto tra le due
temperature creava un suggestivo quanto inquietante vapore simile a
nebbia. Il sudore prodotto dalla salita
mi si congelò sulla pelle, e presi di nuovo a tremare come una foglia.
Non se siete mai entratu in una cella frigorifera, a me è capitato
alcuni anni fa quando, per guadagnarmi qualche soldo, lavoravo
durante le vacanze alla base degli americani. Ero
aiutante
alla Bakery, che sarebbe il nostro panificio, ed anche pasticceria,
quando un giorno caldissimo arrivarono dei prodotti da scaricare e
venne chiesta anche la mia collaborazione. Io uscii già accaldata dal
laboratorio dove il forno andava a mille, accostandomi alle porte
spalancate del camion fermo sulla piattaforma, senza rendermi conto che
era un camion frigorifero. Entrai con disinvoltura nel cassone e provai
l'identico, raggelante shock che stavo rivivendo ora in quella stanza
inquietante. La luce esterna mi permise di notare una
coperta di color marroncino stesa su un letto (una branda, più che
altro) e l'afferrai per gettarmela sulle spalle. Ora sembravo un curvo
stregone indiano, con quella
palandrana addosso, ma stavo meglio, e potevo dare un’occhiata intorno
senza rischiare l'ibernazione. A dire il vero non è che ci fosse molto
da
vedere, anzi, per dirla tutta, l’arredamento lasciava decisamente a
desiderare. Oltre al minuscolo letto nella stanza non c’era
nient’altro. Nulla!
Né un tavolino, né una sedia. Né un armadio, o
comunque un posto dove tenere le cose consuete di cui un normale essere
umano ha esigenza (un normale
essere umano, appunto). Se veramente
Andrea, o chi diavolo era, viveva in quel posto avrebbe avuto molte
cose interessanti da raccontare sui propri gusti in fatto di
temperatura della stanza e di complementi di arredo. Mi avvicinai al
letto, gettandovi un’occhiata. Le lenzuola, che avevo scomposto
strappando via con violenza la coperta, erano leggermente
macchiate di giallo e c’era anche una goccia di sangue secco, piccola e
rotonda . Fine dell'inventario. Niente vestiti o scarpe, né tantomeno
altri
oggetti personali. Sollevai lo sguardo, impietrita: in
quella stanza non esisteva nemmeno un fonte luminosa, e il filo
spellato e contorto
che sbucava tristemente dal centro del soffitto me lo confermava.
Andrea abitava qui senza
la luce elettrica!!! Non sapevo proprio più
cosa pensare, come se il gelo che mi
attanagliava avesse
ghiacciato il cervello, senza più la possibilità di riflettere e di
capire (prova a
riflettere come fa una stanza all’ultimo piano di un
palazzo ad avere una temperatura polare in piena estate...).
Mi guardai
ancora una volta intorno alla ricerca (vana) di un condizionatore
d’aria tarato al minimo, ma sarebbe stato
un po’ difficile nasconderlo sotto il letto. Nonostante quella
considerazione mi ritrovai carponi sul pavimento (ghiacciato anche
quello, oltre che ricoperto da uno strano e inquietante viscidume) a
sbirciare nelle ombre che si annidavano sotto il letto. Ma la ricerca
fu inutile. Poi, quando gli occhi si erano
ormai abituati
alla scarsa luminosità (oltre che al calore esterno quel posto sembrava
porre
resistenza anche all’ingresso della luce) la scorsi. Si confondeva un
po’ con la parete scrostata,
ma era inequivocabilmente una porta quella che si disegnava sul muro.
Una porta estremamente minuscola a dire la verità, alta non più di un
metro, e con un foro frastagliato al posto della
maniglia. Dove diavolo
sbuca, quella apertura così piccola? E a chi è destinata?
mi chiesi con un brivido più violento degli altri. Mi
avvicinai cautamente, infilando l’indice nel buco, provando a
tirare.
La porticina si aprì con un lamento, rivelando un’altra stanza immersa
nell’oscurità. Non appena la porta fu spalancata una
zaffata mi
investì, un odore secco e antico che ricordava spezie e tè. Il
profumo
che avevo sentito più volte sui vestiti di Andrea... Rimasi immobile, a
scrutare nelle tenebre, cercando di captare il minimo
rumore. Non successe nulla. Nessuna creatura balzò fuori dal buio
per divorarmi. Deglutendo di disagio e di paura infilai una mano
all’interno dell’apertura, e dopo un attimo la mia ricerca ebbe
successo: un inequivocabile, normalissimo, moderno interruttore della
luce capitò sotto le mie dita.
Lo azionaai, e
una luce giallastra illuminò fiocamente quella seconda stanza. Infilai
dentro la testa osservandomi intorno: l'ampiezza era quella di un
capiente ripostiglio, con le pareti percorse da tre
file di mensole, su cui erano posati vari oggetti. Al
momento irriconoscibili per lo spesso strato di polvere che li
ricopriva.
Decisa a proseguire il mio sopralluogo, strisciai sul pavimento sporco
fino a superare l’apertura, così da potermi rialzare in
piedi. Mi avvicinai alle mensole, soffiando via la polvere che si
sollevò in una nuvola che mi fece tossire e lacrimare. Rendendomi
conto,
mentre i peli del corpo si mettevano sull’attenti, che reggevano una
serie di figure fatte con la carta, degli origami di figure umane molto
ma molto più grandi del normale. Sembravano delle bambole fatte
di carta, una carta molto vecchia, giallastra e fragile.
Girai lo sguardo intorno notando una zona in cui la presenza della
polvere era molto meno massiccia, come se fosse stata usata più di
recente. Mi bloccai, con la bocca spalancata dallo stupore e
dall’orrore. C’era una coppia di figure di carta, ficcate a forza in
quello che sembrava un modellino di auto. Tipo quelli che si
costruiscono in kit di montaggio. Dico sembrava perché
l’automobile-giocattolo, come parte delle figure di carta al suo
interno,
era annerita e contorta, come se fosse stata data alle fiamme
(...quando la loro auto
uscì di strada di ritorno da una visita ad
alcuni parenti e s’incendiò...).
Il pianto mi sgorgò improvviso, e
violento, annebbiandomi per un attimo la vista. Mi passai il dorso
della mano sugli occhi, lasciando probabilmente lunghe strisce di
sporcizia, come decorazioni di guerra di un pellerossa, e continuai
quello straziante sopralluogo, ritenendo (a torto) che quello che avevo
appena scoperto fosse il peggio. Non era così, me ne resi conto quando
scoprii con sgomento una figura umana cartacea che portava attorno al
collo, come una collana aliena, un pezzo di filo spinato. Attorno al
collo, attorno
alla gola. Fissai impietrita le punte acuminate di filo
spinato che bucavano la figuretta riversa sulla mensola.
Punte che se fossero state attorno al collo di un essere umano
avrebbero creato una zona dove la pelle si sarebbe arrossata,
infiammata, in maniera spiacevolmente regolare, come l’irritazione che
può causare una collanina. Oltre forse a far perdere la
possibilità di
parlare. O no? Ormai gli shock si sovrapponevano agli shock, era come
visitare la pregiata esposizione di un macabro museo, e non avevo più
occhi da sbarrare mentre notavo subito dopo
un’altra figura alla quale era stata legata, più o meno nel punto dove
si
trovava la vita, un pezzo di corda. Un pezzo di fune colorata,
inequivocabilmente uguale a quelle che usano i rocciatori! Afferrai il
pupazzo di carta, che si sfaldò leggermente sotto la pressione delle
dita, e mi resi conto che il capo della fune era frastagliato, come se
fosse stato tagliato maldestramente. Mi sentii montare dentro una
rabbia velenosa, e con un ringhio selvaggio spazzai via dalle mensole
le figurette di carta, insieme a una tonnellata di polvere che iniziò a
turbinare offuscando la luce. Sembrava di trovarsi al centro di una
tempesta di sabbia. Tossendo furiosamente cercai a tentoni la bassa
apertura che portava fuori dalla stanza e mi ci infilai,
richiudendomi la porticina dietro le spalle per bloccare così la nube
di
polvere. Rimasi seduta per terra,
mentre le lacrime cercavano la strada sulle mie guance nere di
sporcizia.
Mi sentivo sporca e sudata e sfinita e intirizzita, e avrei avuto
voglia (e bisogno) solo di una doccia calda e di un letto. Tirai su col
naso, rumorosamente, e frugai nelle tasche della gonna alla ricerca di
un fazzoletto, senza trovarlo. Poi alzai gli occhi e vidi Andrea. Era
immobile appena dentro la soglia, e mi guardava serio, senza dire
niente. Io pensai che avrei dovuto avere paura ed invece rimasi lì
seduta, avvolta nella coperta marrone, a sostenere il suo sguardo.
Nessuna paura, nessun timore, sentivo il mio cuore leggero e calmo.
- Perché? - gli chiesi con un tono di voce quasi inudibile - perché io?
-
Lui
restò in silenzio per un po’, come se stesse cercando la risposta
giusta. Poi infilò le mani nelle tasche dei jeans, nel modo
che ormai
conoscevo, e la voglia di alzarmi e stringerlo tra le braccia scaturì
quasi irresistibile.
Ma fu una sensazione breve e fugace.
- Sono innamorato di te -
rispose - ho bisogno di te. No, bisogno è una parola brutta....
negativa... insomma, io so che la mia vita è più bella se ci sei tu... -
Io
sulle prime cercai di comprendere bene quello che mi stava dicendo, poi
feci un gesto vago, angosciato, verso la stanza che si apriva dietro le
mie spalle:
- E tu per amore uccidi le persone che ti ostacolano?!?
- non riuscivo a credere che lui non vedesse le cose come stavano
realmente - pensi di riuscire a conquistare una persona facendo terra
bruciata intorno a lei?-
Lui mi guardò, e i suoi occhi promettevano amore e felicità e calore.
-
Non sempre le persone riescono ad amare completamente, c’è sempre
qualcosa che stride, una... una sottile discrepanza tra quello che noi
desidereremmo e quello che gli altri ci sanno offrire. Ci possono
offrire. E’ questo il limite, quello che rende torbida la vita, e crea
infelicità. Io ti amo, e so quello che ti fa star bene. So quello che
desideri nei tuoi momenti più intimi, quello che ti auguri per il
futuro, per la tua vita. Io conosco i tuoi gusti, so quello che non ti
piace,
o che ti manda in bestia. So il tuo ultimo pensiero un attimo prima di
addormentarti e il primo che ti sveglia al mattino. Solo io posso
sentire i tuoi desideri, sapere che ami i pomeriggi di pioggia, e
stringere forte un cuscino quando guardi la televisione, e farti
scorrere l’acqua tiepida sui polsi mentre ti osservi nello specchio, e
le poesie. Qualcuno hai mai letto una poesia insieme a te? Io ho
voglia di farlo. Io ho voglia di fare tutto con te, non solo brani,
scampoli di vita. Io posso essere l’amore perfetto -
Mi puntellai lungo il muro, alzandomi in piedi:
-
Ma l’amore non è perfetto - esclamai con un bizzarro senso di trionfo
che mi montava dentro, come se stessi partecipando ad un assurdo quiz
televisivo ed avessi all’improvviso trovato la risposta esatta - la
vita, non è perfetta!!! E’ questo il bello, conoscersi, scoprirsi,
mettersi in discussione. La vita è imperfetta, e la felicità sta nel
riuscire a far combaciare più pezzi di armonia possibile. E’ il succo,
è il gusto della vita! Ogni piccola conquista con le persone che ami,
ogni sorriso che strappi è il senso della vita. E’ il mistero
dell’amore! -
Lui sembrava rimpicciolire sotto l’irruenza delle mie
parole. Fece una lieve smorfia, come di dolore, spalancando le braccia,
in un gesto d’invito:
- Possibile che tu non ti renda conto
dell’energia sprecata nella disperata ricerca di un attimo di felicità?
O di quello che credi esserlo? Io posso darti oceani di armonia, di
amore, senza bisogno che tu vada ad elemosinarlo in giro. Resta con me
per sempre, e avrai felicità per sempre - i suoi occhi si velarono di
disperazione - non farmi del male, io non ce la faccio senza di te... -
Quando
aveva quei momenti di tristezza instillava un desiderio quasi
irresistibile di prenderlo tra le braccia e coccolarlo e consolarlo. In
quei momenti riusciva ad essere l’essenza
stessa dell’amore, e
qualunque donna non avrebbe opposto resistenza. Mi sentii
improvvisamente
stanca e triste, e guardai il suo viso disperato:
- Amare è volere
il bene della persona che si ama, sempre! - dissi mentre un’assurda
sensazione di gioia mi traboccava dal cuore - desiderare tutto il
meglio per lei, anche se a volte questo può significare la propria
infelicità. Altrimenti è solo egoismo, bisogno. Se tu mi ami come dici
non dovresti arrecarmi dolore, non dovresti fare del male alle persone
a cui tengo. Se fosse amore dovresti fare di tutto per la mia felicità,
anche se dovesse coincidere col tuo dolore. Per questo il tuo non è
amore vero... -
Le mie parole sembravano quasi ferire fisicamente il
ragazzo, che si stringeva in sé stesso. Una lacrima sbocciò dall’angolo
del suo occhio e prese a scendere al rallentatore lungo il suo viso, e
la voglia in me di baciar via quella lacrima e con quella il suo dolore
era quasi insopportabile. Ma io mi facevo scudo delle facce sofferenti
di Sara e Ricky, anche se ero inorridita e terrorizzata dal rendermi
conto che, comunque, buona parte di me mi urlava di fregarmene di Sara
e Ricky e di correre tra le sue braccia.
Qualcosa dentro di me,
forse la parte oscura che ognuno nasconde dentro e fa
commettere cattiverie e torti, che fa mentire ed imbrogliare, provava a
convincermi di dimenticare, di non pensare mai più alle due persone che
giacevano all’ospedale, di far finta che non fossero mai esistiti. Di
questo
stava cercando di convincermi, l’oscurità in fondo alla mia anima, e la
cosa agghiacciante era CHE CI STAVA RIUSCENDO!!!
Annaspai in preda
al panico e qualcosa cadde dal mio viso verso terra. Guardai in basso,
giusto in tempo per scorgere una goccia di sangue, del mio sangue,
colpire il pavimento e schizzare tutto intorno. Mi portai un dito al
naso e non mi sorprese di vederlo colorarsi di rosso. Lo puntai verso
di lui:
- Il tuo amore fa male - sibilai tra i denti - quello che tu
chiami amore perfetto uccide, e tu lo sai benissimo. Hai bisogno di me
perché hai bisogno di nutrirti. E poi smettiamola di chiamare le cose
col nome sbagliato... il tuo è tutto fuorché amor...-
Non riuscii
nemmeno a terminare la frase. Il pavimento, la stanza, l'intero palazzo
vibrarono
violentemente per un brevissimo istante, mentre un brontolìo basso ed
inquietante riempiva l’aria. Sembrava in tutto e per tutto una scossa
di terremoto, ma io sapevo che non era così. Nessuno, oltre a me, aveva
udito qualcosa. Mi sentivo la bocca completamente asciutta, e
cominciavo ad avere una paura folle. Andrea fece un passo verso di me,
con la faccia contorta da un’espressione a metà tra il deluso e
l’arrabbiato, poi si bloccò:
- Io posso farti stare bene, io ti amo,
io non potrei mai farti stare male io sono qui sono il sogno so quello
di cui tu hai bisogno io ti amerò io ti io stare con te un bacio un
solo bacio non pensare stai con me Giulia io ti amo amore stai con me
non mi lasciare Giulia baciami un bacio baciami ora per sempre -
Cominciò
a parlare confusamente, ripetendo le cose e avvicinandosi a me. Il suo
volto vibrava a tratti come un effetto speciale di un film e i suoi
occhi iniziarono a dilatarsi, ingrandirsi, e a riempire tutta la
stanza, e poi tutto il mondo, come nel sogno che avevo fatto all’inizio
di tutta questa storia. Ero come paralizzata, ipnotizzata ma
sapevo benissimo che avrei dovuto fare qualcosa, qualunque cosa, per
evitare che lui mi toccasse, o sarei stata perduta.
- Il tuo non è
amore! - gli urlai contro, spingendolo via mentre schizzavo verso
l’uscita. Lui, preso alla sprovvista, perse l'equilibrio per
un
attimo, ma fu sufficiente. Imboccai le scale come un proiettile,
mulinando le braccia nel tentativo di non sfracellarmi, scendendo
a precipizio i pianerottoli senza voltarmi. Le porte chiuse degli
appartamenti mi sfrecciavano accanto confondendosi in strisce
multicolori. Nonostante il rumore dei miei passi e il fiatone che mi
rimbombava nelle orecchie non mi sembrò di sentire nessun altro suono
dietro di me. Andrea non mi aveva seguito. Arrivata all’ultima
rampa di scale già scorgevo la luce accecante del sole che riempiva
l’androne, quindi rallentai istintivamente sentendomi ormai al
sicuro. E fu allora che avvertii nitidamente quel lieve tocco sulla
spalla e la
sua voce, così vicina da farmi trasalire.
- Non lasciarmi, dolce
Giulia, ho bisogno di te - sussurrò al mio orecchio. In preda al panico
per il fatto di non riuscire a spiegarmi come avesse fatto ad arrivarmi
così vicino senza il minimo rumore (hai
ancora bisogno di chiederti
come riesca a fare le cose?) ripartii di slancio verso
l’esterno, ma
l'impulso del mio cervello fu più veloce della risposta
dei piedi,
che si ostacolarono a vicenda come buffi clown del circo. Non riuscivi
a evitare di volare
verso il basso, come un sacco di patate, e l’unica cosa che fu in mio
potere fare fu osservare con distaccato interesse il pavimento sporco
che si avvicinava sempre più velocemente. Poi sbattei la faccia e il
buio mi avvolse.
EPILOGO
Successero molte cose,
durante e dopo il mio svenimento, la maggior parte delle quali
non
aveva il minimo straccio di giustificazione logica. Per questo non ho
mai avuto la pretesa di chiarirmele - pena forse l’equilibrio mentale -
ma solo, a volte, di ritornarci su con la memoria, come fossero
aneddoti
di un’altra vita. O scene di qualche vecchio film. E ogni volta che che
le ho ripercorse con la mente non ho mai provato la minima sensazione
di paura, nonostante fossero accadimenti del tutto fuori dal normale.
Anzi, il constatare questo alimenta ogni volta la fiducia
nella parte luminosa delle persone, nel loro lato buono. Nell’amore, in
definitiva, che da qualche parte prima o poi riesce a germogliare, come
una piantina ostinata che si apra la strada nel cemento di città. Posso
ricordare tutta quella strana e tragica storia, quindi, senza
strascichi di nessun tipo, quando ne sento la voglia o il bisogno. Come
adesso seduta nel prato davanti a casa mia, mentre osservo mia figlia
che zampetta felice dietro un pallone mezzo sgonfio. In fondo, tutto
sommato, si può tranquillamente dichiarare che è stata una vicenda a
lieto fine, più o meno. Ma vediamo di andare per gradi: una voce
gentile e qualche scossone mi strapparono dal buio del mio svenimento.
A poco a poco gli occhi misero a fuoco la faccia smunta della
donna che avevo intravisto sulla porta di un fatiscente appartamento
durante la mia perlustrazione nel palazzo. Scossi la testa per cercare
di scacciare la nebbia che mi attanagliava, e vidi i due figli della
donna sbirciarmi curiosi da dietro la gonna variopinta della madre.
- Zi-gnora, sta mala, zi-gnora caduto - ripeteva la giovane china su di
me - chiama hospitalia, mala? -
Io sorrisi e le feci un cenno rassicurante, mentre mi
aggrappavo a
lei per drizzarmi in piedi. Un lieve ed improvviso capogiro mi fece
barcollare, ma passò subito.
-
Non è niente, non è niente - la rassicurai mentre spolveravo via alla
bell’e meglio la sporcizia dai miei vestiti. L’indomani avrei avuto un
bel bernoccolo bluastro sulla testa - niente male, grazie, tutto bene -
Uscii
di lì, immergendomi nel sole accecante del sabato estivo, e non vidi
traccia di Andrea. Nessuno mi seguì né cercò di rapirmi in qualche
vicoletto deserto. Feci la strada verso l’ospedale veloce come un
treno, mentre la mia mente giocherellava con rapide istantanee di
quello che mi era appena successo. Senza soffermarcisi più di tanto,
come se i pensieri fossero castagne bollenti. Quando giunsi
all’ospedale le cose cominciarono a cambiare, e in meglio. Sarebbe
adesso inutilmente prolisso soffermarmi su ogni singolo elemento,
le facce incomprensibilmente (per me) sollevate dei parenti,
l’incredulità degli infermieri, lo stupore malcelato del dottore di
guardia. Potete anche immaginarvelo da soli. La cosa importante, ed
incredibile, è che Ricky stava bene. Era uscito dal coma,
all’improvviso, ed era perfettamente normale. Nessuna conseguenza,
nessuno strascico.
Naturalmente nessuno sapeva spiegarsi
quell’inaspettato miglioramento, né i medici che si affollarono come
mosche sul miele attorno al suo letto, né i parenti che di certo non
avevano esigenze di spiegazioni scientifiche. Io sola avevo la
spiegazione in
mano, anche se per nulla al mondo sarei andata a spifferarla in giro. E
comunque nemmeno io lo venni a scoprire subito. Dovetti aspettare che
il clamore di quella cosa scemasse, che la stanza 212 si svuotasse di
curiosi e zie in lacrime. Che Ricky si addormentasse sotto l’effetto di
un sedativo somministrato unicamente a scopo precauzionale per lo
stress del subbuglio creato dal suo risveglio. Dovetti aspettare che il
cielo all’orizzonte, al di là delle vetrate, si riempisse di rosso
sfolgorante prima che Gianni, il compagno di stanza di Ricky, si
decidesse
a farmi un cenno. Per la prima volta in quel pomeriggio caotico posai
lo sguardo su di lui, scoprendolo stranamente agitato, ma anche
raggiante in viso. Mi avvicinai con curiosità al letto e ascoltai
il suo racconto. E lui parlò, concitatamente, a bassa voce,
stringendomi con forza il polso senza nemmeno rendersene
conto. Parlò, e
mi raccontò una storia che a qualsiasi altra persona sarebbe suonata
delirante e inaccettabile, ma non per me. Mi disse che lui stesso aveva
pregato affinché Ricky migliorasse, e che probabilmente le sue
preghiere, sussurrate a fatica frugando nei ricordi infantili per farne
riaffiorare le parole, erano state esaudite. Stava sonnecchiando, mi
disse. Dentro e fuori un sonno leggero e disturbato, nella
penombra scura delle tapparelle abbassate, rotta solo dalle decine di
puntini luminosi attraverso cui filtrava il sole. Poi quel
ragazzo era entrato nella stanza, fermandosi con le spalle appoggiate
alla porta. Rimase
immobile per alcuni minuti, continuò Gianni, lo osservai senza riuscire ad
emettere nessun suono, che so, chiedere
chi fosse, cosa volesse... Dopo un po’ si avvicinò al letto di Ricky, e
la cosa strana fu 'come' gli si avvicinò... sembrava
quasi che...
“fluttuasse”, senza muovere il corpo. Si bloccò al suo fianco,
osservandone il sonno senza dire una parola. Ancora una volta
io
cercai di attirare l'attenzione, non sapevo chi fosse e non mi
lasciava molto tranquillo la sua improvvisa comparsa. Ma una volta
ancora la
mia gola era bloccata e, come constatai di persona un attimo dopo,
anche ogni mio centimetro di corpo. Sembravo paralizzato da una qualche
forza invisibile. Improvvisamente le palpebre cominciarono a farsi
pesantissime, era quasi impossibile tenerle aperte, e capii che stavo
per addormentarti di botto. Lottai più che potei contro gli occhi che
volevano chiudersi inesorabilmente e poi... poi fece quella cosa. O
almeno io lo vidi farlo. Ma ormai stavo per scivolare in un sonno di
piombo, e adesso come adesso non saprei giurare su cosa ho
visto e cosa - forse -
ho sognato. Ma anche se la mia mente è confusa, da qualche parte dentro
di me io sono sicuro di aver visto bene. Cos’ho visto? Ho visto la sua
mano sollevarsi lentamente, col dito proteso, fino a trovarsi a pochi
centimetri dalla fronte del mio amico immobile. E ho visto quel... quel
colpo di luce... come ho detto la stanza era quasi completamente
immersa nell’oscurità, ed è stato come... come potrei dire... come una
scintilla minuscola, di un bianco accecante. Scaturita direttamente
dalla punta
del suo dito. Un piccolissimo lampo di luce candida, ecco cos’era. E
sono sicuro di quello che dico, anche se ho perso conoscenza subito
dopo,
perché, ancora adesso, a ore di distanza, quando chiudo gli occhi il
fantasma luminoso di quella scintilla mi rimane impresso nella
retina...
Gianni, col viso colorato dal tramonto che andava in scena
al di là dei vetri, mi osservò con occhi pieni di
interrogativi ma
non di paura.Prima di formulare la domanda che ancora
oggi, qualche volta, mi si affaccia alla mente. Domanda alla quale
comunque
non ho voluto, o saputo, dare una risposta certa. Piantò i suoi occhi
nei miei sussurrando: “chi
era, Giulia, quell’uomo?!? Che cosa era, un
angelo?!?”
Non
lo sapevo, ovviamente. Nè tantomeno lo so adesso. Forse non era un
angelo, non con tutto il male che aveva causato... ma forse, alla fine
di
tutto, qualcosa dentro di lui aveva fatto germogliare il
desiderio di un gesto positivo. Non so cosa fosse scattato in
lui,
e non ho certo l'arroganza di pensare che possano essere
state
le mie parole sull’amore. Se non addirittura il suo amore per me. Anche
se qualche volta, quando sono sola nella mia casa, e Ricky e Emma sono
fuori insieme da qualche parte, e un raggio di sole filtra attraverso
la finestra per perdersi sul legno del pavimento, mi piace credere che
la sua voglia reale di avere un amore come tutti, un amore dolce e
appassionante e magico, l’abbia spinto a quel piccolo grande miracolo.
Di sicuro so che è stato lui, non c’è certo bisogno di pensarci su, è
stato Andrea a risvegliare l’uomo che amo. E non solo. Non ho
verificato di persona, ma credo che nello stesso momento in
cui Ricky apriva gli occhi e salutava cordialmente un allibito Gianni
Garzia, due piani più sotto, la febbre di Sara spariva per restare solo
un brutto ricordo, e con quella anche l’incapacità di parlare.
Quando sono entrata nella sua stanza (del tutto libera anche da quel
cattivo odore di malattia) e mi sono tuffata sul letto ad abbracciarla,
sotto gli occhi divertiti delle sorelle e di un paio di infermiere, ho
notato subito che sul collo non c'era più traccia di
rossore. Andrea ha guarito Ricky e ha guarito Sara. La sua influenza
malefica si era dissolta, aveva
voluto
dissolverla, e tutto era tornato
a posto. Io sono convinta che anche il povero Ugo Maniero avrebbe
miracolosamente riavuto la vista, se tre giorni prima non avesse
cercato a tentoni la finestra e non si fosse buttato giù dal quarto
piano. Questo non l’aveva potuto prevedere nessuno, ed è quello che fa
di questa storia, comunque, una tragica vicenda priva di un lieto fine.
Almeno non per tutti. Chi più, chi meno, ha avuto da tutto ciò
un'eredità non del tutto piacevole. E’ il prezzo da pagare, credo.
Questa
storia mi insegnato in definitiva, se già non ne ero convinta, che alla
fine un prezzo da pagare ci sia sempre. Tutto costa, nella vita,
l’amare, il non amare, il male, il bene. Le cose non ti arrivano
gratis, nient'affatto, e devi farci i conti se ti conviene o meno.
Perché il conto salato che prima o dopo la vita ti presenta non si paga
con moneta frusciante o impersonali assegni, ma con dolore e lacrime e
sangue. Magari non necessariamente il tuo sangue e le tue lacrime, per
una scelta che hai fatto o non hai fatto, ed è proprio questo che rende
così salato il saldo. Ricky, ad esempio, è tornato a vivere senza
particolari conseguenze, a parte che la botta presa alla gamba gli ha
impedito per sempre di dedicarsi ai suoi sport preferiti e questo,
anche se non lo dà a vedere, di sicuro gli pesa molto. Anche Sara ha
periodicamente dei problemi con la voce, specie nei momenti in cui è
particolarmente affaticata. Nessun medico ha saputo ovviamente dare una
spiegazione accettabile a questi due casi, hanno parlato di
“autoripristino delle funzioni cerebrali” (nel caso di Ricky) e per
Sara non si sono neanche sprecati a inventarsi qualcosa. L’unico
risultato è stato quello di essere contattati dalla redazione di un
noto programma televisivo che tratta questo tipo di cose, allo scopo di
invitarci a raccontare la nostra esperienza tra (sono parole
loro) il caso della
donna che parla col fantasma di Elvis e una coppia
di extracomunitari che chiede giustizia per un torto subito dal loro
padrone di casa. E’ inutile dire che abbiano gentilmente
ma fermamente
rifiutato. Ma, tornando al discorso di poco fa, l’unica eccezione al
pagamento del prezzo sembro essere solo io. E non riesco a
spiegarmi il perché. Per me le cose sono andate, e continuano ad
andare, splendidamente. E non so proprio se me lo merito. Ho sposato
Ricky, di
lì a poco, e senza bisogno di tanti discorsi lui ha voluto vendere il
palazzetto del centro che voleva mettere a posto per noi. Con i soldi
(molti) ricavati dalla vendita ci siamo comprati una deliziosa casetta
alle porte della città, immersa nel silenzio e nel verde, e devo
confessarvi che è sempre molto piacevole, ai primi caldi estivi,
svegliarsi ed uscire a piedi nudi sull’erba del prato di casa propria.
Prato dove sta scorazzando in questo momento nostra figlia Emma, che
non perde occasione per appassionarsi a qualcosa, che sia una lucertola
addormentata al sole o i pelucchi che il vento strappa via ai pioppi.
Mentre guardo quella piccola copia di me stessa girarsi agitando
trionfante un rametto che ha raccolto nell’erba, mi ripeto che
è una bella vita, la nostra, senza troppi problemi, per il momento
tutti risolvibili, e che sono molto di più i giorni in cui su di noi
splende il sole che quelli carichi di nuvole minacciose. E spero che
continui molto a lungo, tutto questo, anche se qualche volta il
pensiero che la vita non si sia ancora presentata col suo
conto
da pagare su quello che mi è capitato, piccolo o grande che sia, un po’
mi fa tremare il cuore.
Ci siamo. E’ successo
stamattina, mentre spazzavo un po’ di foglie che la brezza della notte
aveva accumulato in cortile. Doveva essere stato posato sul
muretto che ci divide dalla strada, ma il vento l’ha fatto rotolare
nell’angolo che forma col pilastro del portoncino d’ingresso.
L’ho
visto subito, anche se era nascosto da un balocco di sporcizia. Un
piccolo origami, che altro? Un fiore,
un minuscolo tulipano di carta
sottile. Eccolo, il
prezzo, ho pensato mentre lo rigiravo tra le dita,
ma non avvertivo nessuna paura, dentro di me.
Sono pronta, ed ho molte più cose da
insegnare sull’amore, adesso.
Ti sto aspettando.
Mauro Marani
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