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Autore: marani    02/06/2014    1 recensioni
Domanda: l'amore è sempre una cosa buona? Di slancio, verrebbe proprio di rispondere sì. Ma qualche volta non è esattamente così. Ed è in quei casi che difendersi si tramuta in una lotta senza pietà. Specie se chi dice di amarci ha poteri che nessun altro essere umano possiede.
Genere: Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAP. 17


Il lunedì mattina telefonai molto presto ai cellulari del fratello di Ricky e della sorella di Sara, ottenendo in entrambi i casi un resoconto clinico immutato e per questo sconfortante. Nessun miglioramento. Nessun cambiamento. Decisi di non marcare visita al lavoro perché non avrei comunque combinato niente di buono, se non ciondolare per casa a rimuginarci su, o correre in ospedale impotente ed angosciata. Qualche ora in biblioteca mi avrebbe, almeno in parte, occupato la mente. Sgattaiolai nel mio piccolo ufficio evitando le occhiate e le domande curiose dei colleghi più impiccioni, accendendo il computer. Concentrarsi era una cosa molto difficoltosa, i pensieri scivolavano via sempre verso le solite mete, il viso fasciato di Ricky, le macchie infiammate sul collo di Sara. Più di qualche volta mi sorpresi a fissare il vuoto, la mano posata sul mouse e la lineetta del testo che lampeggiava ritmicamente sullo schermo.
- Mi scusi - una voce flebile mi arrivò alle orecchie. Alzai gli occhi: sulla soglia era ferma una donna dall’aspetto anonimo e sciatto. Dimostrava una cinquantina d’anni, ma forse ne poteva avere qualcuno di meno, ed era così magra da sembrare quasi evanescente. I vestiti le stavano come buttati su un attaccapanni. Intorno agli occhi spenti e alla bocca le fioriva una ragnatela di rughe. Era immobile sulla porta, leggermente ingobbita, e mi guardava.
- Si? - dissi io con uno sguardo interrogativo. Lei fece un passo nella stanza, poi si bloccò:
- Ho bisogno di parlare con lei, se non la disturbo - la voce era fioca, quasi si faceva fatica a capirne le parole - forse conosciamo la stessa persona e, se questo corrispondesse a verità… beh, ci sono delle cose che lei deve sapere -
Il suo modo di fare, e il suo aspetto, mi stavano inquietando. Non la conoscevo, non sapevo cosa volesse da me, ma sentivo che in qualche modo aveva qualcosa da dirmi, qualcosa di importante. E non mi piaceva affatto. Feci un segno verso la sedia. La donna si accomodò, rannicchiandosi e stringendo la borsetta tra le mani ossute. Prese un lungo respiro silenzioso, chiuse per un attimo gli occhi e li riaprì:
- Lei non mi conosce - iniziò - ma credo che sia importante che mi ascolti con attenzione. Anche se quello che sto per dirle potrà sembrare...come dire... un po’ difficile da accettare -
La temperatura esterna, che già sembrava voler battere tutti i record dell’anno, sembrò aumentare ancora di più. L’aria nella stanza era immobile e irrespirabile.
- Il mio nome non ha molta importanza, e non le dirà nulla. Comunque mi chiamo Anna, Anna Boschin. Sono arrivata a lei dopo lunghe e difficili ricerche. Le poche cose che sapevo mi hanno portata fino a qui, ed è stato un vero colpo di fortuna aver incontrato la sua amica proprio mentre stava uscendo dalla biblioteca... -
- Sara? - chiesi sempre più incuriosita e sempre più a disagio. La donna si guardò furtivamente alle spalle, come se temesse l’arrivo di qualcuno:
- Sì, Sara - mi confermò - non sapevo naturalmente a chi rivolgermi, quella mattina. Di solito devo essere molto cauta, la gente non sempre ha il tempo e la voglia di ascoltare una storia che non è facile da digerire. Invece la sua amica... Sara, si è dimostrata subito interessata, e mi ha dato a sua volta delle informazioni preziosissime. Anche se non stava affatto bene, e neppure questo non mi ha sorpreso, anzi...-
Io tornai con la memoria alla mattina in cui Sara cominciò, proprio qui davanti a me, ad accusare quello strano malessere che l’avrebbe condotta in una squallida e rovente stanza d’ospedale, chiedendomi sempre più allarmata dove voleva arrivare quella strana donna.E come poteva affermare di aver previsto la malattia della mia sventurata amica.
- Di cosa diavolo sta parlando? - sussurrai io, non molto convinta di volerlo sapere. Lei si protese verso di me, guardandomi con occhi spenti che mi davano i brividi:
- Lei sta uscendo con un ragazzo che si chiama Andrea, vero? - mi chiese con filo di voce.
Con la bocca secca mi sentii rispondere di sì. La donna sembrò improvvisamente sollevata, poi chinò per un attimo il capo sul petto, come spossata dopo un’estenuante corsa.
- Bene, bene, l’ho trovato, ci sono riuscita - la sentii mormorare, mentre la pelle delle braccia mi si accapponava.
- Insomma, non è che ci esco... non è una cosa fissa, voglio dire - precisai assurdamente - lavora in questa stessa biblioteca, e qualche volta abbiamo pranzato assieme, ma io ho un ragazzo e non è che... -
- Mi dica una cosa. Lei come sta? -
Non riuscivo assolutamente a capire dove volesse andare a parare quella assurda donna con quelle domande così angosciose e insistenti. Mi balenò l’idea che fosse solo una squilibrata che si intrufolava dove le capitava per raccontare storie assurde e inconcludenti
(ma ha parlato con Sara...)
- Cosa significa come sto? - ribattei per prender tempo e capirci qualcosa di più.
- La salute, voglio dire... come si sente? Non bene, vero? -
La fissai con la bocca spalancata per lo stupore, accorgendomi con orrore che la sua strana attaccatura dei capelli altro non era che il bordo di una parrucca che copriva una testa priva di capelli. “Questa donna è malata...”, pensai mentre deglutivo vistosamente. Lanciai un’occhiata furtiva verso il telefono valutando la possibilità di chiamare qualcuno, ma lei se ne avvide:
- Mi scusi, mi scusi, ha ragione... - mormorò scuotendo la testa - devo sembrarle ben bizzarra a parlarle così a spizzichi e bocconi. Ma, vede, devo essere proprio sicura di poter parlare chiaramente, per non farle chiamare il manicomio seduta stante. Cercherò di spiegarmi... quel ragazzo, quell’Andrea, come si fa chiamare di cognome, adesso? -
(come si fa chiamare ?!?)
- Zipoli, Andrea Zipoli - risposi sempre più allibita e spaventata - ho visto anche i suoi dati nella lista delle assunzioni...-
- Zipoli...mmh - rimuginò l’altra, pensierosa - bene, forse è ora che io le racconti la mia storia per filo e per segno
(non so se voglio ascoltarla)
ho conosciuto Andrea cinque anni fa, anche se non con quel cognome. Io uscivo da una storia sentimentale con le ossa rotte, e non avevo la minima intenzione di avere a che fare con i maschi per un po’. Lo incontrai casualmente alla fermata del tram, una sera che rientravo dall’ufficio. Mi chiese un’informazione sul tipo di biglietto da usare, se non ricordo male. Facemmo parte del viaggio insieme, e fu una piacevolissima chiacchierata, lui era cordiale, simpatico, e sembrava proprio avere gli stessi miei gusti - si bloccò un attimo vedendomi sollevare leggermente le sopracciglia, poi riprese - sempre casualmente sbucò fuori una settimana più tardi, nel momento giusto in cui io avrei desiderato rincontrarlo. Accettai il suo invito ad uscire a cena. In quella occasione non gli confessai ovviamente che non ero riuscita, in tutti quei giorni, a togliermelo dalla testa ma mi resi conto immediatamente che era... era, come dire, l’uomo dei miei sogni. Era dolcissimo...e premuroso... e aveva la straordinaria capacità di sapere sempre in anticipo i miei desideri e le mie voglie. Era incredibile, una sera arrivò persino con un secchiello di gelato alla vaniglia, il mio gusto preferito. Ed era tutto il giorno che ne avevo una voglia irresistibile. Sapeva starsene alla larga nei miei momenti di cattivo umore e farmi tornare il sorriso dicendo la frase giusta quando magari il mio nervosismo da ciclo mi rendeva una bomba ad orologeria. Insomma, un principe azzurro, come si dice... - la bocca le si storse in un ghigno che voleva essere un sorriso beffardo - M’innamorai, naturalmente, e a quale donna non sarebbe successo? Avevo sempre e solo voglia di vederlo, di stare con lui, non m’interessava più niente né dei miei hobbies né della mia cerchia di amici. Subii naturalmente un processo sommario da parte di chi fino ad allora mi era stato vicino, le amiche storiche, il gruppo della palestra. Tutti a dirmi, all’inizio, che non mi si vedeva più e tutti a rimproverarmi (bonariamente) di questo. All’inizio, ripeto, perché poi le persone si stancarono logicamente di pregarmi, e si allontanarono. A me a quel tempo non m’importò più di tanto, non ne se sentivo più l’esigenza, di vedere qualcuno, oltre naturalmente a lui, che comunque dedicava tutto il suo tempo a noi due... -
Mentre ascoltavo quella storia pazzesca ed inconcludente una parte di me si chiedeva se veramente quella donna fosse a posto con le rotelle, come si dice. Come diavolo poteva pensare che io credessi al fatto che Andrea e quella... quella... vecchia potessero essere stati insieme!!! Avrei dovuto interromperla lì e pregarla di andarsene, ma la mia curiosità, forse un po’ morbosa, di sapere come andava a finire il suo racconto (e le misteriose allusioni al mio stato di salute) mi fecero rimanere lì ad ascoltare le sue parole.
-Non riuscivo comunque a farmene una ragione - continuò la donna torcendosi le mani rugose - tanto io vedevo in lui mille qualità positive tanto le persone che mi circondavano cercavano di farmene allontanare. Oltre alle amiche anche i miei genitori si opposero alla nostra storia fin da subito. Mio padre poi era intransigente, diceva che non gli piaceva e che secondo lui c’era qualcosa che non andava in tutta la faccenda. Naturalmente io difesi a spada tratta la nostra relazione... solo l’idea di non poterlo rivedere mi dava il panico più cieco... quindi le posizioni si irrigidirono, le cose precipitarono, mio padre con l'imposizione di non vederlo più, io arrivando ad andarmene da casa loro. Lasciando mia madre in lacrime e mio padre scuro in volto, trovai un minuscolo appartamento in cui potersi vedere. Nonostante molti tentativi futuri, non riuscii più a risanare lo strappo con la mia famiglia, i rapporti restarono sempre tesi e freddi fino a... fino all’incidente. Quando la loro auto uscì di strada di ritorno da una visita ad alcuni parenti incendiandosi...- la voce le mancò per un attimo, incrinata dal pianto - ...dicono che non se ne siano neanche accorti...-
Chinò il capo sul petto ancora una volta, in quello strano modo che la faceva sembrare ancora più minuscola e vulnerabile, asciugandosi furtivamente una lacrima.
- Andrea mi fu molto vicino, naturalmente, e fu di grande aiuto e conforto. Senza il suo affetto non sarei uscita tanto facilmente dal baratro scuro del dolore e della depressione. Mi aggrappai a lui come ad un’ancora di salvezza, e tutto quello che volevo era stargli vicino, e lasciarmi accudire in tutto e per tutto così meravigliosamente. In quei momenti pensavo che non avrei mai potuto fare a meno di lui. Quando stavamo insieme era tutto così... così perfetto, ogni cosa, ogni stupidaggine. Quando mi sentivo meno peggio, uscivamo spesso e i locali avevano sempre un posto per noi, era così romantico, avevamo spazi e momenti tutti per noi due, il tempo stesso sembrava rallentare, fermarsi, quando stavamo insieme, e anche il sesso... beh, il sesso era una cosa devastante... -
Ancora una volta il mio subconscio dubitava fortemente che Andrea, l’Andrea che conoscevo io, avesse potuto avere qualcosa a che fare con quella che poteva sembrare sua madre. E sentirlo dichiarare così apertamente mi strappò una smorfia di disgusto. Lei non sembrò avvedersene e continuò il racconto, pronunciando una frase che mi gelò il sangue nelle vene:
- Fu allora che cominciai a stare male - disse con voce spenta, ed io sentii nitidamente tutti i peli del mio corpo rizzarsi per il panico - all’inizio erano solo piccoli disturbi fastidiosi ma insignificanti, un’emicrania, un po’ di sangue dal naso, la vista che soprattutto verso sera mi si annebbiava... ma col passare del tempo le cose peggiorarono rapidamente. Ora, se ho visto giusto, credo di non svelarle nulla di nuovo dicendo che iniziai ad avere una preoccupante perdita di peso - il cuore mi balzò in gola rullando come impazzito - un dimagrimento quasi inaccettabile visto il breve lasso di tempo in cui si manifestò, e che mi causò una spossatezza spaventosa, tanto da impedirmi a poco a poco di poter svolgere qualsiasi normale occupazione. Mi rendo conto di spaventarla a morte dicendole queste cose, ma il suo panico è per me un sollievo, perché a guardarla capisco di essere arrivata in tempo, e posso ancora fare qualcosa... -
Io ero inchiodata sulla sedia, mentre un sudore copioso ed improvviso mi imperlava la fronte e mi inzuppava i vestiti. Di che diavolo stava parlando quella donna, che razza di malattia si era beccata? Ci siamo beccate? Frequentando la stessa persona, a sentire lei. Andrea era malato, contagioso? Ma di cosa? Aids ? (oh, ma è ridicolo, mica ci ho scopato, e non è proprio una cosa che si prende con un bacio per quanto profondo...)
(...spero...)
Eppure i sintomi, e il modo...
- Peggiorai al punto da dover lasciare il lavoro, ero impiegata in una ditta di trasporti e c’erano orari un po’ impegnativi. Passavo le giornate tra il divano e il letto, incapace di qualsiasi attività normale che implicasse un po’ di energia fisica. Andrea si prendeva cura di me e mi seguiva in tutto, con una dedizione totale, ma io non miglioravo, anzi... Alla fine, nonostante qualche perplessità di lui, mi decisi ad andare dal medico, che mi fece fare tutta una serie di esaurienti esami dai quali, e questo è il bello della faccenda, non risultò proprio nulla che non andasse. Ero sana come un pesce, mi stavo solo consumando. Il dottore restò perplesso come se si fosse trovato di fronte ad un caso di guarigione dal cancro, e l’unica cosa che seppe consigliarmi fu un periodo di riposo (considerato il grave stato di prostrazione fisica), possibilmente in un ambiente salubre, la mezza montagna o il lago. Ci pensai un po’ su e poi, visto che perlomeno non mi avrebbe fatto peggio, decisi di accettare l’invito di una mia amica che si era trasferita da un paio d’anni in un delizioso paesino affacciato sul lago di Garda. Al telefono mi disse che era entusiasta di ospitarmi, rinverdendo così i ricordi dei tempi delle superiori. Quella fu l’unica volta in cui io e Andrea discutemmo un po’ energicamente... a parte quando poi l’ho lasciato... perché lui diceva che non aveva la possibilità di accompagnarmi, e che gli sarebbe dispiaciuto molto dover stare senza di me per così tanto lontano. Io ribattei che avrebbe potuto raggiungermi in meno di un’ora quando avesse voluto... qualche sera dopo cena, nei week-end... ma lui ventilò vari tipi di problemi, più che altro di lavoro, che glielo avrebbero impedito. Non posso essere certa, ma io credo che lui non potesse, o non volesse, allontanarsi da questa città, come se facendolo avesse perso in qualche modo le sue capacità di... di... - cercò qualche parola che potesse rendere l’idea, poi scrollò le spalle curve - in ogni caso ci andai, senza di lui. E stetti meglio, decisamente meglio, fin dal mio arrivo. Stetti straordinariamente bene, e questo mi spiazzò più di quando non sapevo che pesci pigliare all’insorgere dei miei vari malesseri. Non poteva essere solo l’aria salubre del lago, ne convenni assieme alla mia amica nelle lunghe ore del giorno e della notte in cui ne discutemmo. Una parte della mia mente non voleva assolutamente accettare l’assurdo pensiero che si stava facendo strada dentro di me, ma qualcosa nella mia testa, o nell’anima, perché no, mi ripeteva incessantemente che forse... Il disagio a quel punto mutò da fisico a psicologico, scatenato dalla reazione esplosiva tra la parte di me che soffriva per la lontananza da lui (desiderandone la presenza come l’aria che respiravo) e l’altra seriamente propensa a prendere in considerazione che la causa del mio star male potesse essere... era così assurdo solo pensarlo, e anche adesso mentre lo dico, dopo tutto quello che è successo, mi sembra così difficile da credere... Il soggiorno presso la mia amica volgeva però al termine, e così dovetti rientrare in città e, naturalmente, rivedere Andrea che mi attendeva impaziente e felice come un bambino sotto casa mia. Non appena lo scorsi, in piedi accanto al portone, con una lunga rosa rossa tre le mani, il mio cuore impazzì di felicità, ma solo per un attimo. Poi la parte di me che voleva vederci chiaro prese il comando delle operazioni,  imponendomi di non lasciare che l'istinto
mi travolgesse (anche se le mani mi tremavano al punto da non riuscire a chiudere a chiave la macchina). Lui mi abbracciò e mi baciò, ed uno strano brivido, diverso da quelli che provavo prima, mi attraversò la schiena. Salimmo insieme a casa e parlammo a lungo, lui mi chiese come stavo e se gli ero mancata, io gli rispondevo, molto sulla difensiva, esaminando nello stesso tempo le reazioni del mio corpo in attesa di qualche strano sintomo. Non successe niente, almeno fino a quando lui restò con me. Ci fu anche un tentativo di approccio, diciamo fisico, che stava per travolgermi in un mare di passione ma, con uno sforzo di volontà e adducendo un’emicrania da stanchezza dovuta al viaggio, riuscii a convincerlo a tornarsene a casa e a rivederci più tardi in serata. Quando se ne andò rimasi immobile sul divano, mentre calde lacrime di tristezza e di paura mi rigavano il volto. Era stato mostruosamente difficile mandarlo via, non pensavo che sarei mai riuscita a farlo, e tutto il corpo era scosso da un tremito incontrollabile. Con angoscia mi resi conto che avrei desiderato solo, con tutta me stessa, corrergli dietro per gridargli di tornare. Poi qualcosa di caldo e salato mi colò lungo il labbro superiore sino in bocca, e mi alzai di scatto, allarmata. Corsi nel bagno a specchiarmi, trovando definitiva conferma al più grande e assurdo dei miei timori: il sangue che mi scendeva dal naso e occhiaie scure e profonde sottolineavano i miei occhi spaventati. Occhiaie delle quali mezz’ora prima, da un controllo nello specchietto retrovisore della macchina in attesa che scattasse il verde all’ultimo semaforo, non ne esisteva traccia! -
La donna seduta di fronte a me, che mi stava raccontando quella storia incredibile, si passò un dito appena sotto l’occhio, quasi a volersi sincerare che le cose che stava narrando non fossero tornate a manifestarsi. Come spettri di un antico passato. Il caldo nel minuscolo ufficio era asfissiante, e avvertivo tenuamente come in un sogno il sudore colarmi in mezzo ai seni e lungo lo stomaco. Al di là della porta non passava anima viva, e nessun suono veniva a interrompere quello strano monologo. Eravamo solo io e quella inquietante donna, impegnate in un assurdo colloquio che sarebbe durato fino alla fine dei tempi. Non le credevo, naturalmente, ma comunque non riuscivo, come incatenata da una curiosità morbosa e malata, a farla smettere e a cacciarla via. Quello che mi stava raccontando era assolutamente incredibile, nel significato letterale del termine, vale a dire impossibile da credere, come una storia di fantasmi o una strana leggenda metropolitana. Quella dei coccodrilli giganti nelle fogne o l’autostoppista notturno che si rivela poi una persona morta parecchio tempo addietro. Gira e rigira, in fondo erano sempre le solite vecchie fiabe che l’uomo da sempre ha avuto il bisogno di raccontarsi per esorcizzare le sue vere paure. Ed ora il ragazzo migliore del mondo che fa ammalare le donne che ama...
La donna mi ripiantò gli occhi spenti nei miei e riprese a parlare:
- Presi il coraggio a due mani e decisi che quello era il momento giusto, se mai ce ne fosse stato uno, per staccarmi da lui. Perlomeno ero forte del periodo passato lontano, e della consapevolezza che ogni minuto che avessi passato accanto a lui lo avrei pagato in salute. Feci un lungo bagno caldo, mi presi cura di me cospargendomi di borotalco e di una crema fresca e profumata, mi vestii con calma e mi sedetti sul divano a guardare il sole che moriva all’orizzonte in un cielo color sangue. Rimasi lì, mentre la casa annegava lentamente nel buio della sera, a pensare e non pensare, e ad aspettare.
Lui arrivò verso le nove, e il suo sorriso mi avvolse come un fluido benefico. Ma nella mia mente si stagliava, lucida e sfolgorante, la consapevolezza di dover far di tutto per resistergli. Mi resi conto che era inutile perdersi in chiacchiere, e che ogni minuto che passava la mia forza si sarebbe indebolita, così glielo dissi. Semplicemente.
- Non voglio più stare con te - dissero le mie labbra. La sua faccia si raggrinzì in una smorfia di dolore quasi fisico. Da quell’istante in poi lui fece ogni cosa in suo potere per farmi cambiare idea e farmi capire quanto aveva bisogno di me. Ancora adesso ho un ricordo assolutamente incompleto e confuso della nostra discussione. L’unica cosa che so è che fu drammatica. Che fu straziante vederlo cadere sotto i colpi della mia risolutezza. Lui parlò, e pregò, e supplicò. Gridò il suo amore e la sua disperazione. E innumerevoli volte mi sentii come un’aguzzina crudele e mi montò imperioso il desiderio di prenderlo tra le braccia. Per curare le ferite d’amore che gli stavo arrecando promettendogli che non ci saremmo lasciati mai più. Ma ogni volta che avvertivo la mia capacità di resistere farsi più debole, tornavo col pensiero allo scarlatto del sangue che mi macchiava le labbra, e all’alone scuro che spegneva i miei occhi, e all’ago della bilancia e ai mal di testa lancinanti. Lui tentò con ogni mezzo, blandendomi e commuovendomi e minacciandomi e supplicandomi di tener vivo quel sentimento che stava lentamente morendo per mano mia. Infine si lasciò cadere in ginocchio, il capo chino e sconfitto e le lacrime a punteggiare il legno del pavimento. Ancora una volta il cuore mi tremò di amore e di strazio nel vederlo così. Ma non cambiai idea.
Quando si rese conto che non c’era proprio niente da fare, si alzò lentamente e uscì dalla mia casa. E dalla mia vita. Non si fece più vivo, non mi chiamò né lo vidi mai nei luoghi che conosceva o che frequentavamo di solito. Se vi ritornò, magari per vedermi da lontano, lo fece di nascosto a me. Io pagai quella drammatica sera. E i giorni, i mesi successivi senza di lui. Stetti così male che avrei pagato oro pur di vederlo anche solo per un secondo, per sentire una sola parola dalla sua bocca, per farmi scaldare per un attimo dal calore del suo sorriso. E se all’inizio, quando cominciai ad accusare quegli strani malesseri pensavo che quello volesse dire stare male, non avevo idea di cosa avrei provato in seguito. Tutta quella faccenda mi devastò, nella mente e nel corpo, e deperii, rapidamente, orrendamente. E iniziò il calvario delle visite e degli esami, con i medici che esibivano le loro facce stupite dall’entrare in contatto col caso clinico di un essere umano che si stava consumando e che era sano come un pesce. Tutti quei visi spiazzati e impotenti alla fine si fusero nei miei ricordi in un’unica, angosciante faccia che mi ripeteva con tono monocorde che non c’era niente in me che non andava. Ma che , comunue, non sapevano spiegarsi, al momento, il perché delle mie sofferenze. Lo sconfortante ritornello era che sarebbero stati necessari altri esami. Quando me ne tornavo a casa svuotata e sfinita e restavo immobile nell’oscurità ad ascoltare un corpo che si ribellava e si faceva sentire con qualche nuovo malore, coi dolori alle braccia, con i formicolii fastidiosi sulla faccia, con giramenti di testa tali da impedire ogni movimento, speravo che quella cosa, in un modo o nell’altro, finisse. E a poco a poco, quando ormai non avevo neanche più energia per sperarci, finì. Non stetti più male. E potei, con tutti i limiti che ben conosco, riprendere una vita quasi normale -
Restò in silenzio per alcuni attimi, rimirandosi le scarpe come se non le avesse mai viste in vita sua, poi riprese a parlare in un sussurro quasi inudibile:
- Ci ho pensato, ci ho pensato molto in tutto questo tempo. Per distrarmi dalla sofferenza, all’inizio, tentando di dare una spiegazione a tutto questo. So che la conclusione a cui sono giunta, alle sue orecchie, alle orecchie di chiunque, forse anche alle mie, potrà suonare assurda e squilibrata. Ma è l’unica conclusione plausibile... Io credo che lui sia una specie di... di... di vampiro, che però non succhia il sangue come al cinema. Un vampiro psichico, in qualche modo, che ha bisogno delle emozioni degli altri, del loro affetto per nutrirsene. Forse addirittura ne ha bisogno per vivere. Ha affinato per questo una tecnica indubbiamente perfetta, per riuscire nel suo scopo, forse una capacità che va al di là delle attuali possibilità umane. Non si spiegherebbero altrimenti tutti quei momenti così perfetti, la parola giusta al punto giusto, il sapere sempre quello di cui gli altri hanno bisogno. Sì, credo che ci sia anche qualcosa di soprannaturale, in quello che sa fare, come ad esempio allontanare la gente in determinate occasioni, o dilatare la concezione del tempo, e molte altre cose ancora. Mi sono ritrovata oggetti che ero certa non aver preso con me, e altri spariti quando ero strasicura di dove fossero. Fa innamorare le persone, con tutto questo, e poi ne beve la linfa del loro amore e con quella l’energia vitale. In cambio di un amore perfetto e stupendo dà una lenta consunzione. Continuando a scervellarmici su, cucendo indizi e ricordi e circostanze mi sono anche convinta che tutto sommato non lo faccia neanche volontariamente. Non è un’entità malvagia che gode nel distruggere le persone, forse si tratta solo di istinto di conservazione. Di certo non è crudeltà. E’ alla stessa stregua di una belva che caccia per nutrirsi e quindi sopravvivere. Tutte le volte che abbiamo visto a Quark i leoni rincorrere ed abbattere qualche gazzella non abbiamo mai pensato che lo facessero gratuitamente, senza uno scopo preciso, o peggio ancora per il solo gusto di uccidere. E lo stesso credo sia per lui. Quando sono stata un po’ meglio mi sono resa conto che se veramente le cose stavano così dovevo fare qualcosa, qualunque cosa fosse in mio potere, per evitare che tutto ciò si ripetesse. Mi sono messa a cercarlo, prima nei posti dove eravamo stati durante i mesi passati assieme, poi parlando con chiunque potesse darmi almeno un minuscolo indizio. Senza risultato. Sembrava sparito, al punto che verso ultimamente, nei miei agitati dormiveglia notturni, a volte credevo quasi che fosse stato tutto uno spaventoso incubo. Ma poi c’era la luce del giorno e lo specchio impietoso a riportarmi alla realtà. E come succede quasi sempre in queste situazioni, una settimana fa alzo gli occhi da una vetrina di abbigliamento e lo vedo. Così. Dopo mille ricerche e parole sprecate e notti insonni alzo lo sguardo e lui è davanti a me che sta ordinando un gelato. La prima, violenta reazione è stata quella di chiamarlo e corrergli incontro, per perdermi nel suo abbraccio. Poi è subentrata la paura a mozzarmi il fiato in gola, per il timore di soffrire ancora. Nascondendomi dietro l’angolo del palazzo, col cuore che sembrava volermi uscire dal petto, attesi che lui si rimettesse in cammino, decisa a seguirlo e a non farmelo scappare, stavolta. Col terrore che lui potesse in qualche modo scoprirmi, girandosi di scatto e vedendomi, o addirittura “sentendo” la mia presenza, scoprii dove abitava. La mattina dopo, fin dalle sei, attesi chiusa nella mia macchina che uscisse per vedere dove si recava durante il giorno. Dovetti aspettare ben due ore, con le gambe informicolate dalla posizione, prima che la mia pazienza (e la mia testardaggine e la mia follia) venissero premiate. Lui uscì di casa senza accorgersi di nulla e io lo seguii, a piedi, fino a qui...-
Io, con la testa confusa e ovattata da quel racconto fuori da ogni logica, mi riscossi un attimo:
- E’ venuto a piedi da casa sua sin qui in biblioteca?!? - domandai stupita - dal Villaggio del Sole?!? -
Ora fu la volta di lei di fissarmi allibita, con la mascella che ciondolava stolidamente:
- V-Villaggio del Sole? - ribatté scuotendo la testa - e chi ha mai parlato del Villaggio del Sole... lui abita qui vicino, nel quartiere delle Barche... -
- Alle Barche?!? - risbottai io, come se non credessi alle mie orecchie. Viste da fuori sembravamo due idiote comparse di qualche buffo programma televisivo per bambini, che inscenassero una ridicola scenetta consistente nel ripetere in maniera interrogativa e marcata la parte finale delle reciproche frasi.
- Il quartiere delle Barche - precisò lei - è giù vicino a ponte San Paolo, dove inizia... -
- Lo so dove sono le Barche! E' che io pensavo... ero stata...- la voce mi morì in gola.
- Sta lì, in vicolo Retrone - continuò la mia interlocutrice senza darmi il tempo di spiegarle il mio stupore - almeno da lì è uscito la mattina che l’ho aspettato, e le altre tre seguenti. Accanto alla porta c’è un negozietto a metà tra il rigattiere e l’antiquario. E’ un palazzo un po’ fatiscente, per la verità, ed anche un po’ sinistro... -
Frugò nella borsetta alla ricerca di qualcosa, forse di un fazzoletto, poi si bloccò con le mani affondate nella bocca spalancata della borsa, riprendendo a parlare:
- La settimana scorsa mi sono decisa finalmente a fare qualcosa. Cosa, di preciso, non ne avevo proprio idea. Sono arrivata qui sotto, e stavo per entrare a fare un giro di perlustrazione fingendomi una frequentatrice della biblioteca, quando ho incrociato la sua amica che stava uscendo. Non so, forse un sesto senso, un’illuminazione, mi ha spinto a chiederle di getto se conosceva un certo Andrea. Lei mi ha fissato per un attimo e poi si è decisa a dirmi quello che sapeva. E non solo, anche quello che pensava. E’ stata uno scambio di opinioni molto costruttivo, come le ho già detto all’inizio, che mi ha dato forza e mi ha convinto, nel caso stessi vacillando, a continuare... a venirla a cercare... -
Sbirciai l’ora: era ormai fine mattinata. Il caldo era soffocante, e non si muoveva un alito d’aria.
- Bene - concluse la donna asciugandosi i palmi delle mani sulle cosce - era questo che dovevo dirle. Non posso ovviamente costringere nessuno a prendere per oro colato quello che dico. Ma avvertirlo sì, per tacitare la mia coscienza. Non è il caso che chiami la polizia, o gli infermieri, o gli esorcisti. Tra meno di un minuto sarò fuori da qui, e dalla sua vita. Però sono sicura, se ho parlato con la persona giusta, che dentro di lei, da qualche parte in fondo all’anima, lei le cose le sa. E sa che io le ho detto solo la verità. -
Io squadrai ancora una volta quella donna inquietante, il suo aspetto stanco e cadente. Pensai ad Andrea, al suo sorriso, ai suoi occhi a metà tra il triste e il divertito, alle sue parole dolci, alle sue mani calde. E cercai di immaginarlo mentre dedicava tutto ciò a quella donna che aveva perlomeno il doppio dei suoi anni. Intento a guardarla come aveva guardato me. E non le credetti. Non volevo credere ad una parola di quel racconto strampalato. Non era possibile. E qualcosa, da qualche parte in fondo alla mia anima, mi urlava in silenzio di non crederle e non perché quel racconto fosse strampalato, ma perché se ci avessi creduto, se ci avessi solo provato, avrei dovuto rinunciare a quel sorriso, a quegli occhi, a quelle parole, a quelle mani. E l’idea che ciò accadesse mi impediva di respirare. Mi impediva di vivere.
- Io non le credo - dissi lentamente, mentre un sapore cattivo mi impastava la bocca - e non chiamerò proprio nessuno. Voglio solo che se ne vada di qui -
- Lo farò, non si preoccupi, lo farò. E mi rendo anche conto che la storia che le ho raccontato non è delle più normali. Anzi, è proprio difficile da mandar giù - riprese a cercare qualcosa nella borsetta che aveva in grembo - ma se proprio non vuole credere alle mie parole, dia almeno un’occhiata a questa... -
Mi porse qualcosa. Guardai: stretto nella sua mano fragile come un uccellino c’era un cartoncino rettangolare, di colore marroncino. Lo presi con la mano che mi tremava: era una carta d’identità. Un semplice documento. Carta d’identità n° AC0226672, di Boschin Anna, lessi sulla copertina.
- Lo apra - suggerì la donna con una voce d’oltretomba. Lo feci. Sull’anta di destra c’era la foto di una ragazza bionda e sorridente, con le gote appena velate di rosso. I suoi occhi assomigliavano terribilmente, in una versione più vitale, a quelli della donna seduta di fronte a me. La ragazza della foto assomigliava terribilmente alla donna seduta di fronte a me. “E’ sua figlia” pensò la mia mente, cercando di restare disperatamente aggrappata al raziocinio. Sulla sinistra lessi: cognome Boschin. Nome Anna. Nata il 20 febbraio 1974. Millenovecentosettantaquattro. MILLE NOVECENTO SETTANTAQUATTRO. Mi scappò un gemito. Se il documento non era un falso, e non vedevo il motivo perché lo fosse, a meno di non essere vittima di un clamoroso sketch di Scherzi a parte, la donna seduta di fronte a me, a cui apparteneva quel documento d’identità, aveva un anno meno di me.
- Sono io - mi confermò lei, con voce spenta. Ma io non la udii, i circuiti logici nella mia mente erano già saltati improvvisamente, come la luce durante un violento temporale, e svenni, scivolando pesantemente sul pavimento del mio ufficio.


CAP. 18


S-ciaf. S-CIAF!
Due deboli schiaffi mi colpirono sulle guance, dissipando a poco a poco il buio nella mia testa in filamentose nubi nerastre. Aprii gli occhi, richiudendoli immediatamente, feriti dal chiarore esterno.
- Lasciatele un po’ d’aria... - disse qualcuno alla mia sinistra. Riconobbi la voce del signor Pesavento, il custode. Riprovai ad alzare le palpebre, con maggior cautela, e alcune sagome confuse si misero lentamente a fuoco. Svelando le facce preoccupate e curiose dei miei colleghi. La Maria Luisa era china su di me ancora con la mano sollevata a mezz’aria, dubbiosa se avevo bisogno di qualche altro schiaffetto. Le sorrisi debolmente, per rassicurarla.
- Come si sente, mia cara? - chiese con un tono di voce inaspettatamente gentile. Forse non desiderava ulteriore clamore sulla biblioteca, dopo l’incidente al povero Maniero. Io scossi la testa, ancora un po’ ottenebrata:
- Bene - risposi - almeno, credo -
Feci per alzarmi e decine di mani premurose mi afferrarono. Ero stesa sul fresco marmo del corridoio, dove presumibilmente mi avevano portato dopo avermi trovato svenuta. Immediatamente mi tornò in mente il mio ufficio, e lo strano colloquio che vi si era svolto. Girai lo sguardo alla ricerca frenetica della donna che mi aveva fatto visita, nonostante un embrione di capogiro. Ma di lei, tra la piccola folla, non c’era traccia. Se n’era andata, come aveva promesso. Walter, il paffuto giovane addetto alla sala principale, si fece largo portando tra le mani una pezzuola bagnata, e me la applicò sulla fronte, e di questo gliene fui grata in eterno.
- E’ sicura di riuscire a stare in piedi? - chiese ancora la direttrice. Mentre facevo cenno di sì con la testa Pesavento mi elargì un paterno buffettino sulle guance:
- Quell'ufficetto - dichiarò con voce solenne, e non aveva tutti i torti - quel buco era veramente un forno, quando l’ho trovata. Sfido che si sia sentita male... -
Tutte le teste dei presenti annuirono, scambiandosi sguardi di approvazione. Io feci segno ai due che mi tenevano per gli avambracci che ce la facevo da sola, e afferrai la borsa che una ragazza aveva preso con sé.
- E’ tutto ok - dissi ancora - dev’essere stato proprio il caldo, o uno sbalzo di pressione. Ne vado soggetta, specie con l’afa. Ora vi ringrazio, tornate alle vostre occupazioni, ho solo bisogno di una boccata d’aria -
Imboccai le scale verso l'atrio, ancora un po’ insicura sulle gambe, lasciando i miei colleghi a commentare l’accaduto. Certo che ne avevano di materiale su cui spettegolare dopo tutto quello che era successo...
Uscii nella via inondata di sole, voltando l’angolo del palazzo per dirigermi verso la piazza. Sapevo benissimo dove stavo andando, e non avevo certo bisogno di mentire a me stessa. Volevo immediatamente a verificare quello che la donna mi aveva raccontato, e cioè se Andrea abitava veramente dove aveva indicato.
Attraversai la piazza deserta, dove stazionavano solo alcuni colombi a contendersi dei grani di miglio e un gruppetto di turisti impegnati a studiare con smarrita concentrazione una piantina della città, e mi immersi nell’ombra degli archi della Basilica Palladiana. Scesi le scalette che portavano alla piccola piazzetta sottostante, dove stazionavano alcuni banchi di fiori tristemente sbarrati, raggiungendo il quartiere delle Barche. Era un quartiere molto suggestivo, che costeggiava il fiume, e di recente era stato oggetto di ottime ristrutturazioni. Vi abitavano però comunque molti extracomunitari, sia slavi che africani, e in breve le linde facciate dei palazzi e le strette viuzze erano tornate a coprirsi di graffiti, sacchetti dell’immondizia sventrati e sporcizia. Arrivai nel vicolo incriminato, notando subito il negozio di cui parlava la donna. Dalle vetrine facevano bella mostra alcuni discreti mobili in stile Vecchio Veneto e un tavolino con una serie deliziosa di sifoni per il seltz, decisamente impolverati. La porta accanto era quella dove, secondo il resoconto, viveva Andrea. La sua vera casa, a quanto pareva. Restai in attesa dietro l’angolo, a riflettere. Non sapevo bene cosa fare, le possibilità erano molteplici, e non tutte allettanti. Poteva tornare Andrea (o uscire, visto che non avevo idea di dove fosse) e sorprendermi come un maldestro agente segreto in disarmo. Sempre che abitasse lì e non dove ero stata a trovarlo. Dove avevo letto il suo cognome sul campanello e visitato la sua casa. “Che diavolo ci faccio qui?!?” pensai infastidita dall’aver bevuto come acqua fresca quella strampalata accozzaglia di assurdità, uscite dalla bocca di quella donna. Decisi comunque di non sprecare quel tentativo, con l'obiettico di smentire definitivamente le farneticazioni di quella Boschin. Mossi qualche passo verso l’entrata del palazzo, fingendo di osservare con vivo interesse gli oggetti esposti nelle vetrine. Mi osservai intorno con cautela, sbirciando da sopra gli occhiali da sole: la viuzza era deserta, e da qualche parte arrivava il ritornello di una canzone di Fabio Concato. Mi spostai impercettibilmente verso la porta, per dare una scorsa ai campanelli. Qualche simpatico teppista doveva aver tentato di appiccarvi il fuoco, durante una scorribanda notturna, perché la griglia del citofono appariva annerita e fusa. Lessi le etichette di vario formato e genere appiccicate alla bell’e meglio: Svomiç, Zamir, Awoonda. Su alcune c’era solo una sigla, altre erano bianche. Poi il cuore mi mancò un colpo. Sull’ultimo campanello in alto a sinistra c’era un nome che non avrei mai voluto leggere (e anche mentre lo leggevo la mia mente non intendeva crederci): Zipoli Andrea. Era tutto vero. Abitava qui, come quella donna aveva detto (“Però sono sicura, se ho parlato con la persona giusta, che dentro di lei, da qualche parte in fondo all’anima, lei le cose le sa. E sa che io le ho detto solo la verità”). Restai immobile a fissare quel nome vergato con un pennarello nero su un rettangolino bianco, col cuore forsennato come un treno, mentre il sudore mi colava lungo la schiena. “...se parli ancora m’innamoro, non devo fare niente, mi basta stare lì, semplicemente...” cantava la radio da qualche finestra aperta, prima che la musica venisse interrotta bruscamente. Che fare che fare che fare CHE FARE?!? Piantata lì, sotto un sole implacabile, con le dita dei piedi che mi si flettevano e distendevano in continuazione per l’agitazione, la testa piena solo di quelle due parole. Che fare. Cheffarechefarecheffareccheffarrecchheffarrr. Scappar via lontano mille chilometri, suggerì una vocina spaventata nei meandri del mio cervello, ormai cotto a puntino dalla tensione e dal solleone. Correre tra le braccia di Andrea, sposarlo, farci quindici bambini e non chiedergli mai niente, le fece eco un’altra dal fondo del mio cuore. I due suggerimenti presero a bisticciare per avere il sopravvento, svolazzando vorticosi come i teschi volanti in Doom, e come questi erano fiammeggianti e con zanne che laceravano dolorosamente. Di sottofondo a questo duello il che fare che fare che fare continuava come eseguito da un’orchestra di ubriachi. Il dissidio mentale fu infine squarciato dalle visioni contemporanee dei volti sofferenti di Ricky e di Sara, e tornai a rendermi conto di dov’ero. E di quello che dovevo fare. M’infilai senza pensare nella porta spalancata, che mi accolse con una piacevole penombra ed un persistente, cattivo odore di muffa e di escrementi. Le pareti del breve corridoio che portava alle scale erano scrostate e coperte di scritte in qualche lingua sconosciuta. Riuscii a decifrare uno sgrammaticato “Albannesi, fori dale bale” vergato con uno spray assurdamente fucsia, accanto ad un eloquente disegno di una donna che stava leccando un pene esagerato. Mariça, secondo piano, era specificato. Bei condòmini, pensai mentre salivo circospetta le scale viscide e sconnesse, se veramente Andrea abita qui ha di che divertirsi... Ma perché diavolo inventarsi l’indirizzo del Villaggio del Sole?!? mi scervellai per capirci qualcosa, e di chi sarà poi quell’appartamento (perché io in un appartamento ci sono stata!) dei suoi, di un amico, di chi?!? Continuai a salire con prudenza, accompagnata dai sordi rimbombi del mio cuore nelle orecchie, con il terrore di incontrare qualcuno. Chiunque, non solo Andrea (allora sì che la frittata sarebbe fatta!). Passai davanti ad una porta chiusa da dove, all’improvviso, arrivò una cacofonia di grida irose in qualche lingua dell’est, seguite da un colpo secco e da un piangere disperato di bambini. Mentre proseguivo la salita la porta in questione si spalancò e ne uscì un uomo biondiccio, con una canottiera piena di macchie, che prese a scendere imprecando incomprensibilmente, sotto gli occhi di una giovane donna in lacrime e di un paio di bambini dagli occhi enormi e spaventati. “Dove diavolo mi sto andando a ficcare?!?”, pensai ancora una volta, e ancora non sapevo proprio niente, di quello che mi aspettava. Arrivai finalmente all’ultimo piano, fermandomi boccheggiante di fronte all’unica porta esistente. Il caldo nel sottotetto era soffocante. Sbirciai un’ultima volta nella tromba delle scale, ma le rampe e i pianerottoli rimasero deserti e silenziosi. Fissai la porta, scrostata e malmessa come le sue sorelle, chinandomi sul campanello a fianco privo di qualsiasi indicazione. “ E adesso?”, pensai sconfortata mentre constatavo di persona che le mie risorse di agente segreto erano molto limitate. Nei film l’eroina avrebbe avuto la meglio sulla serratura con una banale forcina per capelli (ma io li porto così corti...) o intrufolandosi nell’appartamento scavalcando la ringhiera del poggiolo e avventurandosi pericolosamente lungo il cornicione a picco sulla via (ehi, non scherziamo… non se ne parla neanche!). Osservai la porta. La porta osservò me.
Poi feci la cosa più ovvia, che viene quasi spontanea di fronte ad una porta chiusa, anche se questa fosse sbarrata e blindata. Provai la maniglia. Così, tanto per dare un senso alla mia visita (e l’approvazione al fatto che la missione era fallita e che potevo quindi andarmene velocemente da lì...) impugnai la maniglia e l’abbassai. E la porta, con un cigolìo quasi impercettibile, si socchiuse. Rimasi interdetta e stupita più che se ci fossi passata attraverso come un fantasma. La porta era aperta! A quel punto il mio alibi di tagliare la corda perché non ero riuscita a entrare si dissolse come neve al sole. Non avevo scusanti. A quel punto dovevo entrare (ma a cercare cosa, poi ?). Spalancai del tutto la porta, che mandò un secondo cigoloso lamento, e feci un passo all’interno. Rimanendo allibita: la temperatura nella stanza era gelida! Non fresca, visto che era immersa nell’oscurità creata dai balconi accostati, né tantomeno fredda, ma sottozero!!! Osservai incredula il mio respiro trasformarsi in candide nuvolette come fosse il primo gennaio, mentre iniziavo a rabbrividire violentemente. “Qui mi becco una polmonite!”, ricordo di aver pensato spaventata mentre indietreggiavo nel tepore del pianerottolo, “il ventisette di giugno, per di più!!!”. Ero vestita come ci si veste in questo periodo dell’anno, e cioè con una camicetta leggera senza maniche ed una corta gonna colorata. Se entravo lì dentro mi sarei congelata a morte, ma d’altra parte ero decisa ad andare a fondo della faccenda (che adesso stava assumendo, se non me n’ero convinta prima, sinistre connotazioni soprannaturali) così mi feci forza. Mi lanciai nella stanza immersa nell’oscurità dirigendomi verso le fessure luminose dei balconi, con l’intento di spalancarli per far entrare un po’ della luce e, soprattutto, del calore del sole estivo. Li aprii, scoprendo a mie spese che il tentativo era fallito. Il tepore esterno si fermava giusto sul bordo della finestra, senza riuscire a penetrare nella stanza per stemperare almeno un po’ il gelo che vi regnava. La cosa più inquietante era come il contrasto tra le due temperature creava un suggestivo quanto inquietante vapore simile a nebbia. Il sudore prodotto dalla salita mi si congelò sulla pelle, e presi di nuovo a tremare come una foglia. Non se siete mai entratu in una cella frigorifera, a me è capitato alcuni anni fa quando, per guadagnarmi qualche soldo, lavoravo durante le vacanze alla base degli americani. Ero aiutante alla Bakery, che sarebbe il nostro panificio, ed anche pasticceria, quando un giorno caldissimo arrivarono dei prodotti da scaricare e venne chiesta anche la mia collaborazione. Io uscii già accaldata dal laboratorio dove il forno andava a mille, accostandomi alle porte spalancate del camion fermo sulla piattaforma, senza rendermi conto che era un camion frigorifero. Entrai con disinvoltura nel cassone e provai l'identico, raggelante shock che stavo rivivendo ora in quella stanza inquietante. La luce esterna mi permise di notare una coperta di color marroncino stesa su un letto (una branda, più che altro) e l'afferrai per gettarmela sulle spalle. Ora sembravo un curvo stregone indiano, con quella palandrana addosso, ma stavo meglio, e potevo dare un’occhiata intorno senza rischiare l'ibernazione. A dire il vero non è che ci fosse molto da vedere, anzi, per dirla tutta, l’arredamento lasciava decisamente a desiderare. Oltre al minuscolo letto nella stanza non c’era nient’altro. Nulla! Né un tavolino, né una sedia. Né un armadio, o comunque un posto dove tenere le cose consuete di cui un normale essere umano ha esigenza (un normale essere umano, appunto). Se veramente Andrea, o chi diavolo era, viveva in quel posto avrebbe avuto molte cose interessanti da raccontare sui propri gusti in fatto di temperatura della stanza e di complementi di arredo. Mi avvicinai al letto, gettandovi un’occhiata. Le lenzuola, che avevo scomposto strappando via con violenza la coperta, erano leggermente macchiate di giallo e c’era anche una goccia di sangue secco, piccola e rotonda . Fine dell'inventario. Niente vestiti o scarpe, né tantomeno altri oggetti personali. Sollevai lo sguardo, impietrita: in quella stanza non esisteva nemmeno un fonte luminosa, e il filo spellato e contorto che sbucava tristemente dal centro del soffitto me lo confermava. Andrea abitava qui senza la luce elettrica!!! Non sapevo proprio più cosa pensare, come se il gelo che mi attanagliava avesse ghiacciato il cervello, senza più la possibilità di riflettere e di capire (prova a riflettere come fa una stanza all’ultimo piano di un palazzo ad avere una temperatura polare in piena estate...). Mi guardai ancora una volta intorno alla ricerca (vana) di un condizionatore d’aria tarato al minimo, ma sarebbe stato un po’ difficile nasconderlo sotto il letto. Nonostante quella considerazione mi ritrovai carponi sul pavimento (ghiacciato anche quello, oltre che ricoperto da uno strano e inquietante viscidume) a sbirciare nelle ombre che si annidavano sotto il letto. Ma la ricerca fu inutile. Poi, quando gli occhi si erano ormai abituati alla scarsa luminosità (oltre che al calore esterno quel posto sembrava porre resistenza anche all’ingresso della luce) la scorsi. Si confondeva un po’ con la parete scrostata, ma era inequivocabilmente una porta quella che si disegnava sul muro. Una porta estremamente minuscola a dire la verità, alta non più di un metro, e con un foro frastagliato al posto della maniglia. Dove diavolo sbuca, quella apertura così piccola? E a chi è destinata? mi chiesi con un brivido più violento degli altri. Mi avvicinai cautamente, infilando l’indice nel buco, provando a tirare. La porticina si aprì con un lamento, rivelando un’altra stanza immersa nell’oscurità. Non appena la porta fu spalancata una zaffata mi investì, un odore secco e antico che ricordava spezie e tè. Il profumo che avevo sentito più volte sui vestiti di Andrea... Rimasi immobile, a scrutare nelle tenebre, cercando di captare il minimo rumore. Non successe nulla. Nessuna creatura balzò fuori dal buio per divorarmi. Deglutendo di disagio e di paura infilai una mano all’interno dell’apertura, e dopo un attimo la mia ricerca ebbe successo: un inequivocabile, normalissimo, moderno interruttore della luce capitò sotto le mie dita.
Lo azionaai, e una luce giallastra illuminò fiocamente quella seconda stanza. Infilai dentro la testa osservandomi intorno: l'ampiezza era quella di un capiente ripostiglio, con le pareti  percorse da tre file di mensole, su cui erano posati vari oggetti. Al momento irriconoscibili per lo spesso strato di polvere che li ricopriva. Decisa a proseguire il mio sopralluogo, strisciai sul pavimento sporco fino a superare l’apertura, così da potermi rialzare in piedi. Mi avvicinai alle mensole, soffiando via la polvere che si sollevò in una nuvola che mi fece tossire e lacrimare. Rendendomi conto, mentre i peli del corpo si mettevano sull’attenti, che reggevano una serie di figure fatte con la carta, degli origami di figure umane molto ma molto più grandi del normale. Sembravano delle bambole fatte di carta, una carta molto vecchia, giallastra e fragile. Girai lo sguardo intorno notando una zona in cui la presenza della polvere era molto meno massiccia, come se fosse stata usata più di recente. Mi bloccai, con la bocca spalancata dallo stupore e dall’orrore. C’era una coppia di figure di carta, ficcate a forza in quello che sembrava un modellino di auto. Tipo quelli che si costruiscono in kit di montaggio. Dico sembrava perché l’automobile-giocattolo, come parte delle figure di carta al suo interno, era annerita e contorta, come se fosse stata data alle fiamme (...quando la loro auto uscì di strada di ritorno da una visita ad alcuni parenti e s’incendiò...). Il pianto mi sgorgò improvviso, e violento, annebbiandomi per un attimo la vista. Mi passai il dorso della mano sugli occhi, lasciando probabilmente lunghe strisce di sporcizia, come decorazioni di guerra di un pellerossa, e continuai quello straziante sopralluogo, ritenendo (a torto) che quello che avevo appena scoperto fosse il peggio. Non era così, me ne resi conto quando scoprii con sgomento una figura umana cartacea che portava attorno al collo, come una collana aliena, un pezzo di filo spinato. Attorno al collo, attorno alla gola. Fissai impietrita le punte acuminate di filo spinato che bucavano la figuretta riversa sulla mensola. Punte che se fossero state attorno al collo di un essere umano avrebbero creato una zona dove la pelle si sarebbe arrossata, infiammata, in maniera spiacevolmente regolare, come l’irritazione che può causare una collanina. Oltre forse a far perdere la possibilità di parlare. O no? Ormai gli shock si sovrapponevano agli shock, era come visitare la pregiata esposizione di un macabro museo, e non avevo più occhi da sbarrare mentre notavo subito dopo un’altra figura alla quale era stata legata, più o meno nel punto dove si trovava la vita, un pezzo di corda. Un pezzo di fune colorata, inequivocabilmente uguale a quelle che usano i rocciatori! Afferrai il pupazzo di carta, che si sfaldò leggermente sotto la pressione delle dita, e mi resi conto che il capo della fune era frastagliato, come se fosse stato tagliato maldestramente. Mi sentii montare dentro una rabbia velenosa, e con un ringhio selvaggio spazzai via dalle mensole le figurette di carta, insieme a una tonnellata di polvere che iniziò a turbinare offuscando la luce. Sembrava di trovarsi al centro di una tempesta di sabbia. Tossendo furiosamente cercai a tentoni la bassa apertura che portava fuori dalla stanza e mi ci infilai, richiudendomi la porticina dietro le spalle per bloccare così la nube di polvere. Rimasi seduta per terra, mentre le lacrime cercavano la strada sulle mie guance nere di sporcizia. Mi sentivo sporca e sudata e sfinita e intirizzita, e avrei avuto voglia (e bisogno) solo di una doccia calda e di un letto. Tirai su col naso, rumorosamente, e frugai nelle tasche della gonna alla ricerca di un fazzoletto, senza trovarlo. Poi alzai gli occhi e vidi Andrea. Era immobile appena dentro la soglia, e mi guardava serio, senza dire niente. Io pensai che avrei dovuto avere paura ed invece rimasi lì seduta, avvolta nella coperta marrone, a sostenere il suo sguardo. Nessuna paura, nessun timore, sentivo il mio cuore leggero e calmo.
- Perché? - gli chiesi con un tono di voce quasi inudibile - perché io? -
Lui restò in silenzio per un po’, come se stesse cercando la risposta giusta. Poi infilò le mani nelle tasche dei jeans, nel modo che ormai conoscevo, e la voglia di alzarmi e stringerlo tra le braccia scaturì quasi irresistibile. Ma fu una sensazione breve e fugace.
- Sono innamorato di te - rispose - ho bisogno di te. No, bisogno è una parola brutta.... negativa... insomma, io so che la mia vita è più bella se ci sei tu... -
Io sulle prime cercai di comprendere bene quello che mi stava dicendo, poi feci un gesto vago, angosciato, verso la stanza che si apriva dietro le mie spalle:
- E tu per amore uccidi le persone che ti ostacolano?!? - non riuscivo a credere che lui non vedesse le cose come stavano realmente - pensi di riuscire a conquistare una persona facendo terra bruciata intorno a lei?-
Lui mi guardò, e i suoi occhi promettevano amore e felicità e calore.
- Non sempre le persone riescono ad amare completamente, c’è sempre qualcosa che stride, una... una sottile discrepanza tra quello che noi desidereremmo e quello che gli altri ci sanno offrire. Ci possono offrire. E’ questo il limite, quello che rende torbida la vita, e crea infelicità. Io ti amo, e so quello che ti fa star bene. So quello che desideri nei tuoi momenti più intimi, quello che ti auguri per il futuro, per la tua vita. Io conosco i tuoi gusti, so quello che non ti piace, o che ti manda in bestia. So il tuo ultimo pensiero un attimo prima di addormentarti e il primo che ti sveglia al mattino. Solo io posso sentire i tuoi desideri, sapere che ami i pomeriggi di pioggia, e stringere forte un cuscino quando guardi la televisione, e farti scorrere l’acqua tiepida sui polsi mentre ti osservi nello specchio, e le poesie. Qualcuno hai mai letto una poesia insieme a te? Io ho voglia di farlo. Io ho voglia di fare tutto con te, non solo brani, scampoli di vita. Io posso essere l’amore perfetto -
Mi puntellai lungo il muro, alzandomi in piedi:
- Ma l’amore non è perfetto - esclamai con un bizzarro senso di trionfo che mi montava dentro, come se stessi partecipando ad un assurdo quiz televisivo ed avessi all’improvviso trovato la risposta esatta - la vita, non è perfetta!!! E’ questo il bello, conoscersi, scoprirsi, mettersi in discussione. La vita è imperfetta, e la felicità sta nel riuscire a far combaciare più pezzi di armonia possibile. E’ il succo, è il gusto della vita! Ogni piccola conquista con le persone che ami, ogni sorriso che strappi è il senso della vita. E’ il mistero dell’amore! -
Lui sembrava rimpicciolire sotto l’irruenza delle mie parole. Fece una lieve smorfia, come di dolore, spalancando le braccia, in un gesto d’invito:
- Possibile che tu non ti renda conto dell’energia sprecata nella disperata ricerca di un attimo di felicità? O di quello che credi esserlo? Io posso darti oceani di armonia, di amore, senza bisogno che tu vada ad elemosinarlo in giro. Resta con me per sempre, e avrai felicità per sempre - i suoi occhi si velarono di disperazione - non farmi del male, io non ce la faccio senza di te... -
Quando aveva quei momenti di tristezza instillava un desiderio quasi irresistibile di prenderlo tra le braccia e coccolarlo e consolarlo. In quei momenti riusciva ad essere l’essenza stessa dell’amore, e qualunque donna non avrebbe opposto resistenza. Mi sentii improvvisamente stanca e triste, e guardai il suo viso disperato:
- Amare è volere il bene della persona che si ama, sempre! - dissi mentre un’assurda sensazione di gioia mi traboccava dal cuore - desiderare tutto il meglio per lei, anche se a volte questo può significare la propria infelicità. Altrimenti è solo egoismo, bisogno. Se tu mi ami come dici non dovresti arrecarmi dolore, non dovresti fare del male alle persone a cui tengo. Se fosse amore dovresti fare di tutto per la mia felicità, anche se dovesse coincidere col tuo dolore. Per questo il tuo non è amore vero... -
Le mie parole sembravano quasi ferire fisicamente il ragazzo, che si stringeva in sé stesso. Una lacrima sbocciò dall’angolo del suo occhio e prese a scendere al rallentatore lungo il suo viso, e la voglia in me di baciar via quella lacrima e con quella il suo dolore era quasi insopportabile. Ma io mi facevo scudo delle facce sofferenti di Sara e Ricky, anche se ero inorridita e terrorizzata dal rendermi conto che, comunque, buona parte di me mi urlava di fregarmene di Sara e Ricky e di correre tra le sue braccia.
Qualcosa dentro di me, forse la parte oscura che ognuno nasconde dentro e fa commettere cattiverie e torti, che fa mentire ed imbrogliare, provava a convincermi di dimenticare, di non pensare mai più alle due persone che giacevano all’ospedale, di far finta che non fossero mai esistiti. Di questo stava cercando di convincermi, l’oscurità in fondo alla mia anima, e la cosa agghiacciante era CHE CI STAVA RIUSCENDO!!!
Annaspai in preda al panico e qualcosa cadde dal mio viso verso terra. Guardai in basso, giusto in tempo per scorgere una goccia di sangue, del mio sangue, colpire il pavimento e schizzare tutto intorno. Mi portai un dito al naso e non mi sorprese di vederlo colorarsi di rosso. Lo puntai verso di lui:
- Il tuo amore fa male - sibilai tra i denti - quello che tu chiami amore perfetto uccide, e tu lo sai benissimo. Hai bisogno di me perché hai bisogno di nutrirti. E poi smettiamola di chiamare le cose col nome sbagliato... il tuo è tutto fuorché amor...-
Non riuscii nemmeno a terminare la frase. Il pavimento, la stanza, l'intero palazzo vibrarono violentemente per un brevissimo istante, mentre un brontolìo basso ed inquietante riempiva l’aria. Sembrava in tutto e per tutto una scossa di terremoto, ma io sapevo che non era così. Nessuno, oltre a me, aveva udito qualcosa. Mi sentivo la bocca completamente asciutta, e cominciavo ad avere una paura folle. Andrea fece un passo verso di me, con la faccia contorta da un’espressione a metà tra il deluso e l’arrabbiato, poi si bloccò:
- Io posso farti stare bene, io ti amo, io non potrei mai farti stare male io sono qui sono il sogno so quello di cui tu hai bisogno io ti amerò io ti io stare con te un bacio un solo bacio non pensare stai con me Giulia io ti amo amore stai con me non mi lasciare Giulia baciami un bacio baciami ora per sempre -
Cominciò a parlare confusamente, ripetendo le cose e avvicinandosi a me. Il suo volto vibrava a tratti come un effetto speciale di un film e i suoi occhi iniziarono a dilatarsi, ingrandirsi, e a riempire tutta la stanza, e poi tutto il mondo, come nel sogno che avevo fatto all’inizio di tutta questa storia. Ero come paralizzata, ipnotizzata ma sapevo benissimo che avrei dovuto fare qualcosa, qualunque cosa, per evitare che lui mi toccasse, o sarei stata perduta.
- Il tuo non è amore! - gli urlai contro, spingendolo via mentre schizzavo verso l’uscita. Lui, preso alla sprovvista, perse l'equilibrio per un attimo, ma fu sufficiente. Imboccai le scale come un proiettile, mulinando le braccia nel tentativo di non sfracellarmi, scendendo a precipizio i pianerottoli senza voltarmi. Le porte chiuse degli appartamenti mi sfrecciavano accanto confondendosi in strisce multicolori. Nonostante il rumore dei miei passi e il fiatone che mi rimbombava nelle orecchie non mi sembrò di sentire nessun altro suono dietro di me. Andrea non mi aveva seguito. Arrivata all’ultima rampa di scale già scorgevo la luce accecante del sole che riempiva l’androne, quindi rallentai istintivamente sentendomi ormai al sicuro. E fu allora che avvertii nitidamente quel lieve tocco sulla spalla e la sua voce, così vicina da farmi trasalire.
- Non lasciarmi, dolce Giulia, ho bisogno di te - sussurrò al mio orecchio. In preda al panico per il fatto di non riuscire a spiegarmi come avesse fatto ad arrivarmi così vicino senza il minimo rumore (hai ancora bisogno di chiederti come riesca a fare le cose?) ripartii di slancio verso l’esterno, ma l'impulso del mio cervello fu più veloce della risposta dei piedi, che si ostacolarono a vicenda come buffi clown del circo. Non riuscivi a evitare di volare verso il basso, come un sacco di patate, e l’unica cosa che fu in mio potere fare fu osservare con distaccato interesse il pavimento sporco che si avvicinava sempre più velocemente. Poi sbattei la faccia e il buio mi avvolse.


EPILOGO


Successero molte cose, durante e dopo il mio svenimento, la maggior parte delle quali non aveva il minimo straccio di giustificazione logica. Per questo non ho mai avuto la pretesa di chiarirmele - pena forse l’equilibrio mentale - ma solo, a volte, di ritornarci su con la memoria, come fossero aneddoti di un’altra vita. O scene di qualche vecchio film. E ogni volta che che le ho ripercorse con la mente non ho mai provato la minima sensazione di paura, nonostante fossero accadimenti del tutto fuori dal normale. Anzi, il constatare questo alimenta ogni volta la fiducia nella parte luminosa delle persone, nel loro lato buono. Nell’amore, in definitiva, che da qualche parte prima o poi riesce a germogliare, come una piantina ostinata che si apra la strada nel cemento di città. Posso ricordare tutta quella strana e tragica storia, quindi, senza strascichi di nessun tipo, quando ne sento la voglia o il bisogno. Come adesso seduta nel prato davanti a casa mia, mentre osservo mia figlia che zampetta felice dietro un pallone mezzo sgonfio. In fondo, tutto sommato, si può tranquillamente dichiarare che è stata una vicenda a lieto fine, più o meno. Ma vediamo di andare per gradi: una voce gentile e qualche scossone mi strapparono dal buio del mio svenimento. A poco a poco gli occhi misero a fuoco la faccia smunta della donna che avevo intravisto sulla porta di un fatiscente appartamento durante la mia perlustrazione nel palazzo. Scossi la testa per cercare di scacciare la nebbia che mi attanagliava, e vidi i due figli della donna sbirciarmi curiosi da dietro la gonna variopinta della madre.
- Zi-gnora, sta mala, zi-gnora caduto - ripeteva la giovane china su di me - chiama hospitalia, mala? -
Io sorrisi e le feci un cenno rassicurante, mentre mi aggrappavo a lei per drizzarmi in piedi. Un lieve ed improvviso capogiro mi fece barcollare, ma passò subito.
- Non è niente, non è niente - la rassicurai mentre spolveravo via alla bell’e meglio la sporcizia dai miei vestiti. L’indomani avrei avuto un bel bernoccolo bluastro sulla testa - niente male, grazie, tutto bene -
Uscii di lì, immergendomi nel sole accecante del sabato estivo, e non vidi traccia di Andrea. Nessuno mi seguì né cercò di rapirmi in qualche vicoletto deserto. Feci la strada verso l’ospedale veloce come un treno, mentre la mia mente giocherellava con rapide istantanee di quello che mi era appena successo. Senza soffermarcisi più di tanto, come se i pensieri fossero castagne bollenti. Quando giunsi all’ospedale le cose cominciarono a cambiare, e in meglio. Sarebbe adesso inutilmente prolisso soffermarmi su ogni singolo elemento, le facce incomprensibilmente (per me) sollevate dei parenti, l’incredulità degli infermieri, lo stupore malcelato del dottore di guardia. Potete anche immaginarvelo da soli. La cosa importante, ed incredibile, è che Ricky stava bene. Era uscito dal coma, all’improvviso, ed era perfettamente normale. Nessuna conseguenza, nessuno strascico.
Naturalmente nessuno sapeva spiegarsi quell’inaspettato miglioramento, né i medici che si affollarono come mosche sul miele attorno al suo letto, né i parenti che di certo non avevano esigenze di spiegazioni scientifiche. Io sola avevo la spiegazione in mano, anche se per nulla al mondo sarei andata a spifferarla in giro. E comunque nemmeno io lo venni a scoprire subito. Dovetti aspettare che il clamore di quella cosa scemasse, che la stanza 212 si svuotasse di curiosi e zie in lacrime. Che Ricky si addormentasse sotto l’effetto di un sedativo somministrato unicamente a scopo precauzionale per lo stress del subbuglio creato dal suo risveglio. Dovetti aspettare che il cielo all’orizzonte, al di là delle vetrate, si riempisse di rosso sfolgorante prima che Gianni, il compagno di stanza di Ricky, si decidesse a farmi un cenno. Per la prima volta in quel pomeriggio caotico posai lo sguardo su di lui, scoprendolo stranamente agitato, ma anche raggiante in viso. Mi avvicinai con curiosità al letto e ascoltai il suo racconto. E lui parlò, concitatamente, a bassa voce, stringendomi con forza il polso senza nemmeno rendersene conto. Parlò, e mi raccontò una storia che a qualsiasi altra persona sarebbe suonata delirante e inaccettabile, ma non per me. Mi disse che lui stesso aveva pregato affinché Ricky migliorasse, e che probabilmente le sue preghiere, sussurrate a fatica frugando nei ricordi infantili per farne riaffiorare le parole, erano state esaudite. Stava sonnecchiando, mi disse. Dentro e fuori un sonno leggero e disturbato, nella penombra scura delle tapparelle abbassate, rotta solo dalle decine di puntini luminosi attraverso cui filtrava il sole. Poi quel ragazzo era entrato nella stanza, fermandosi con le spalle appoggiate alla porta. Rimase immobile per alcuni minuti, continuò Gianni, lo osservai senza riuscire ad emettere nessun suono, che so, chiedere chi fosse, cosa volesse... Dopo un po’ si avvicinò al letto di Ricky, e la cosa strana fu 'come' gli si avvicinò... sembrava quasi che... “fluttuasse”, senza muovere il corpo. Si bloccò al suo fianco, osservandone il sonno senza dire una parola. Ancora una volta io cercai di attirare l'attenzione, non sapevo chi fosse e non mi lasciava molto tranquillo la sua improvvisa comparsa. Ma una volta ancora la mia gola era bloccata e, come constatai di persona un attimo dopo, anche ogni mio centimetro di corpo. Sembravo paralizzato da una qualche forza invisibile. Improvvisamente le palpebre cominciarono a farsi pesantissime, era quasi impossibile tenerle aperte, e capii che stavo per addormentarti di botto. Lottai più che potei contro gli occhi che volevano chiudersi inesorabilmente e poi... poi fece quella cosa. O almeno io lo vidi farlo. Ma ormai stavo per scivolare in un sonno di piombo, e adesso come adesso non saprei giurare su cosa ho visto e cosa - forse - ho sognato. Ma anche se la mia mente è confusa, da qualche parte dentro di me io sono sicuro di aver visto bene. Cos’ho visto? Ho visto la sua mano sollevarsi lentamente, col dito proteso, fino a trovarsi a pochi centimetri dalla fronte del mio amico immobile. E ho visto quel... quel colpo di luce... come ho detto la stanza era quasi completamente immersa nell’oscurità, ed è stato come... come potrei dire... come una scintilla minuscola, di un bianco accecante. Scaturita direttamente dalla punta del suo dito. Un piccolissimo lampo di luce candida, ecco cos’era. E sono sicuro di quello che dico, anche se ho perso conoscenza subito dopo, perché, ancora adesso, a ore di distanza, quando chiudo gli occhi il fantasma luminoso di quella scintilla mi rimane impresso nella retina...
Gianni, col viso colorato dal tramonto che andava in scena al di là dei vetri, mi osservò con occhi pieni di interrogativi ma non di paura.Prima di formulare la domanda che ancora oggi, qualche volta, mi si affaccia alla mente. Domanda alla quale comunque non ho voluto, o saputo, dare una risposta certa. Piantò i suoi occhi nei miei sussurrando: “chi era, Giulia, quell’uomo?!? Che cosa era, un angelo?!?
Non lo sapevo, ovviamente. Nè tantomeno lo so adesso. Forse non era un angelo, non con tutto il male che aveva causato... ma forse, alla fine di tutto, qualcosa dentro di lui aveva fatto germogliare il desiderio di un gesto positivo. Non so cosa fosse scattato in lui, e non  ho certo l'arroganza di pensare che possano essere state le mie parole sull’amore. Se non addirittura il suo amore per me. Anche se qualche volta, quando sono sola nella mia casa, e Ricky e Emma sono fuori insieme da qualche parte, e un raggio di sole filtra attraverso la finestra per perdersi sul legno del pavimento, mi piace credere che la sua voglia reale di avere un amore come tutti, un amore dolce e appassionante e magico, l’abbia spinto a quel piccolo grande miracolo. Di sicuro so che è stato lui, non c’è certo bisogno di pensarci su, è stato Andrea a risvegliare l’uomo che amo. E non solo. Non ho verificato di persona, ma credo che nello stesso momento in cui Ricky apriva gli occhi e salutava cordialmente un allibito Gianni Garzia, due piani più sotto, la febbre di Sara spariva per restare solo un brutto ricordo, e con quella anche l’incapacità di parlare. Quando sono entrata nella sua stanza (del tutto libera anche da quel cattivo odore di malattia) e mi sono tuffata sul letto ad abbracciarla, sotto gli occhi divertiti delle sorelle e di un paio di infermiere, ho notato subito che sul collo non c'era più traccia di rossore. Andrea ha guarito Ricky e ha guarito Sara. La sua influenza malefica si era dissolta, aveva voluto dissolverla, e tutto era tornato a posto. Io sono convinta che anche il povero Ugo Maniero avrebbe miracolosamente riavuto la vista, se tre giorni prima non avesse cercato a tentoni la finestra e non si fosse buttato giù dal quarto piano. Questo non l’aveva potuto prevedere nessuno, ed è quello che fa di questa storia, comunque, una tragica vicenda priva di un lieto fine. Almeno non per tutti. Chi più, chi meno, ha avuto da tutto ciò un'eredità non del tutto piacevole. E’ il prezzo da pagare, credo. Questa storia mi insegnato in definitiva, se già non ne ero convinta, che alla fine un prezzo da pagare ci sia sempre. Tutto costa, nella vita, l’amare, il non amare, il male, il bene. Le cose non ti arrivano gratis, nient'affatto, e devi farci i conti se ti conviene o meno. Perché il conto salato che prima o dopo la vita ti presenta non si paga con moneta frusciante o impersonali assegni, ma con dolore e lacrime e sangue. Magari non necessariamente il tuo sangue e le tue lacrime, per una scelta che hai fatto o non hai fatto, ed è proprio questo che rende così salato il saldo. Ricky, ad esempio, è tornato a vivere senza particolari conseguenze, a parte che la botta presa alla gamba gli ha impedito per sempre di dedicarsi ai suoi sport preferiti e questo, anche se non lo dà a vedere, di sicuro gli pesa molto. Anche Sara ha periodicamente dei problemi con la voce, specie nei momenti in cui è particolarmente affaticata. Nessun medico ha saputo ovviamente dare una spiegazione accettabile a questi due casi, hanno parlato di “autoripristino delle funzioni cerebrali” (nel caso di Ricky) e per Sara non si sono neanche sprecati a inventarsi qualcosa. L’unico risultato è stato quello di essere contattati dalla redazione di un noto programma televisivo che tratta questo tipo di cose, allo scopo di invitarci a raccontare la nostra esperienza tra (sono parole loro) il caso della donna che parla col fantasma di Elvis e una coppia di extracomunitari che chiede giustizia per un torto subito dal loro padrone di casa. E’ inutile dire che abbiano gentilmente ma fermamente rifiutato. Ma, tornando al discorso di poco fa, l’unica eccezione al pagamento del prezzo sembro essere solo io. E non riesco a spiegarmi il perché. Per me le cose sono andate, e continuano ad andare, splendidamente. E non so proprio se me lo merito. Ho sposato Ricky, di lì a poco, e senza bisogno di tanti discorsi lui ha voluto vendere il palazzetto del centro che voleva mettere a posto per noi. Con i soldi (molti) ricavati dalla vendita ci siamo comprati una deliziosa casetta alle porte della città, immersa nel silenzio e nel verde, e devo confessarvi che è sempre molto piacevole, ai primi caldi estivi, svegliarsi ed uscire a piedi nudi sull’erba del prato di casa propria. Prato dove sta scorazzando in questo momento nostra figlia Emma, che non perde occasione per appassionarsi a qualcosa, che sia una lucertola addormentata al sole o i pelucchi che il vento strappa via ai pioppi. Mentre guardo quella piccola copia di me stessa girarsi agitando trionfante un rametto che ha raccolto nell’erba, mi ripeto che è una bella vita, la nostra, senza troppi problemi, per il momento tutti risolvibili, e che sono molto di più i giorni in cui su di noi splende il sole che quelli carichi di nuvole minacciose. E spero che continui molto a lungo, tutto questo, anche se qualche volta il pensiero che la vita non si sia ancora presentata col suo conto da pagare su quello che mi è capitato, piccolo o grande che sia, un po’ mi fa tremare il cuore.




Ci siamo. E’ successo stamattina, mentre spazzavo un po’ di foglie che la brezza della notte aveva accumulato in cortile. Doveva essere stato posato sul muretto che ci divide dalla strada, ma il vento l’ha fatto rotolare nell’angolo che forma col pilastro del portoncino d’ingresso. L’ho visto subito, anche se era nascosto da un balocco di sporcizia. Un piccolo origami, che altro? Un fiore,
un minuscolo tulipano di carta sottile. Eccolo, il prezzo, ho pensato mentre lo rigiravo tra le dita, ma non avvertivo nessuna paura, dentro di me.
Sono pronta, ed ho molte più cose da insegnare sull’amore, adesso.
Ti sto aspettando.

Mauro Marani


  
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