Outside Broadcast
Vorrei
avere il
senso delle parole abbastanza a fondo
da rendere tutta
la poesia del suono e delle immagini.
E, invece, sono
solo una puttana dello scrivere.
Si
erano ritrovati nella merda senza nemmeno accorgersi che stesse
succedendo. Un
paio di giorni prima avevano un’agenda fitta di impegni ben
collaudati. Un paio
di giorni dopo il tour manager li guardava con aria afflitta, le
lacrime agli
occhi e l’espressione di un uomo infelicemente
sull’orlo di una crisi isterica.
David
Robert Jones – conosciuto al secolo come David Bowie - odiava
le crisi
isteriche. Sarà stata la sua
origine
inglese.
Il
tour manager, comunque, ci aveva tenuto a rassicurarli che avrebbe
pensato a
tutto lui e che, tempo poche ore, avrebbe trovato una valida
alternativa.
David
Bowie aveva inarcato un sopracciglio, si era voltato sulla poltrona
fino ad
incontrare lo sguardo altrettanto perplesso di Brian
Peter George St. John le Baptiste de la Salle Eno
– per ovvie
ragioni, meglio noto come Brian Eno – ed aveva sospirato in
modo speculare
all’amico. Grazie a Dio, anche
Brian Eno
era inglese.
E
grazie a Dio, la loro sintonia era sempre stata
perfetta.
O
quasi.
Ad
esempio, lui – David – li aveva amati fin dal
primo momento in cui li aveva ascoltati. E sì, sapeva che
tanto doveva
dipendere dal fatto che quel ragazzino
– si chiese distrattamente che età potesse avere,
ma ogni risposta che si dava
lo qualificava invariabilmente come pedofilo e non gli piaceva
granché – fosse
non solo bello in un modo doloroso, ma anche ammiccante, volgare,
intrigante
come la peggiore battona di strada che Londra potesse offrire. Ma
sapeva anche
che non tutto dipendeva da questo.
Brian
no. Brian continuava a parlargli in un
orecchio, elencando nomi che lui ascoltava solo in parte e date che
ricordava a
memoria e non era importante, quindi, ascoltasse.
-Mi
piacciono.- provò a notificare sperando di
arginare il fiume in piena che gli sedeva accanto nella luce soffusa
del
locale.
In
parte ci riuscì. L’amico e produttore storse il
naso e sollevò il viso.
-Beh,
sì, eravamo qui per loro, ma secondo me hai
preso un granchio.- commentò stringato e palesemente
infastidito.
David
gli ricambiò lo sguardo con aria di sfida: lui
prendere un granchio? Se diceva che
gli piacevano – e no, non parlava solo della gambe magre del ragazzino da sotto il vestitino da donna
– era perché gli piacevano e tanto voleva dire che
erano bravi.
-Mi
ricorda me.- ribatté.
-No,
tu avevi talento.- scoccò impietoso Brian,
riabbassando gli occhi sul proprio cocktail.
-Ce
l’ha anche lui…
-Sì,
ma di un genere
soltanto, Dave. E non capisco, sinceramente, perché tu ti
stia ostinando tanto!
I gruppi che abbiamo contattato sono sufficienti.
David
si voltò. Brian Eno sfoggiava un atteggiamento
di chiusura che lo rendeva detestabile, braccia conserte, viso
imbruttito da
una smorfia sarcastica ed aria di aperta sfida. Gettò
un’occhiata ancora, in
tralice, al moccioso sul palco, allo spilungone che suonava il basso e
al tizio
corpulento che li accompagnava alla batteria. Soppesò se
valevano la pena di
uno scontro al vertice di quella portata, ma non era più
abituato a sentirsi
dire di “no” e non avrebbe fatto eccezione per un
amico.
-Li
voglio in tour.
-Lo
vuoi nel letto.- lo corresse l’amico,
implacabile e rabbioso.- Vai di là, nel camerino, scopatelo
contro un muro e
facciamola finita.- gli ringhiò contro.
David
non si arrabbiò – intanto,
era parzialmente vero - in compenso, però, rise e
si alzò.
Quando Brian Eno lo vide imboccare l’uscita del locale invece
che la porta del
backstage, capì che quei tre sarebbero irrimediabilmente
finiti nel baraccone
assieme a loro. E si diede dello stupido per averlo permesso.
L’idea
era venuta ad entrambi quasi simultaneamente,
non c’era Morrisey che tenesse: l’Outside Tour
aveva preso la propria strada e,
che quel pagliaccio volesse o meno percorrerla con loro, né
David Bowie né
Brian Eno intendevano dargliela vinta ed arrendersi davanti ai suoi
“impegni
più pressanti che un tour in Europa”.
Così, quando il cantante degli “Smith”
li
aveva lasciati in tredici senza fornire alcuna spiegazione plausibile
– e
davanti al rischio concreto di una crisi isterica del proprio tour
manager – i
due colleghi ed amici avevano rispolverato quel po’ di
pazienza e voglia di
fare che ancora avevano e trovato una soluzione rapida e indolore.
Niente
Morrisey? Avrebbero dato la possibilità a
qualche talentuosa e giovane band locale di promuoversi un
po’ appiccicando il
proprio nome accanto a quello di qualche pezzo grosso della musica
pop-rock
dell’ultimo ventennio. Sapevano entrambi che non avrebbero
fatto grossi sforzi
per trovare dei rimpiazzi validi e, quindi, non si erano lasciati
scoraggiare
nemmeno dalla prospettiva un po’ noiosa di girare in lungo e
in largo concerti
e locali in cerca di giovani emergenti.
I
“Placebo” a stretto rigore non rientravano nemmeno
nella categoria. Giovani erano giovani, ma con un album già
all’attivo, non
erano esattamente gli esordienti completi che erano, invece, parsi a
Brian Eno
a sentirli dal vivo. Niente di che, li aveva liquidati con una
scrollata di
spalle ed un verso annoiato, mentre l’amico Dave
si fissava negli occhi il viso del cantante e nelle orecchie il timbro
impossibile della sua voce.
Lui
si chiamava Brian Molko. Aveva 26 anni, due
occhi grigi che cambiavano colore con la luce o con l’umore,
i capelli scuri e
disordinati, la voce altissima e nasale. Era troppo magro, decisamente
strafottente, per lo più ubriaco o fatto anche sul palco e
durante gli show,
irriverente, arrabbiato, volutamente maleducato, sciatto e
spudoratamente
volgare ed allusivo. Era la negazione di ogni classe e savoir fair, non
sapeva
comportarsi con il pubblico, non era presentabile ad un party, era
ingiustificatamente crudele con i giornalisti, riusciva a farsi odiare
nel giro
di pochissimi istanti ed era intollerabile anche – soprattutto – per chi lavorava
con lui. Aveva già fatto fuori il
proprio batterista per sostituirlo con un altro, un gigante tutto
muscoli che
accanto a lui, nanetto e magrolino, ed a quello spilungone senza
spessore del
suo bassista sembrava ancora più grosso e minaccioso.
Era
odioso.
E
bellissimo.
Magari
qualche sbattimento di ciglia c’entrava pure,
si confessò David portando alle labbra un flute pieno di
bollicine dorate.
Dall’altro
lato della sala, impacciato come una ragazzina,
un improvvisamente ammansito
Brian Molko girava attorno gli occhi, spalancati ed attenti in maniera
quasi
ridicola, presumibilmente cercando proprio lui. Non sapeva cosa avrebbe
suscitato nel mandargli quei fiori in camerino; David lo aveva studiato
per un
po’, seguito, osservato, interrogato discretamente le persone
che lo
frequentavano più da vicino, ma nonostante questo la
decisione di mandargli le
rose era stata istintiva e non ponderata. Dopo giorni sapeva di volerlo
conoscere,
di volerci parlare direttamente, ma non sapeva ancora che per farlo
avrebbe
usato un trucco di altri tempi, dal sapore retrò, che
avrebbe dovuto stonare
con gli atteggiamenti incivili della sua controparte e che, invece, gli
era
parso così perfetto a
fronte di
quegli occhi come gemme, di quella bocca da baciare e di quegli accenni
di
eleganza aristocratica che, con tutta la propria buona
volontà, il ragazzetto
non riusciva a mascherare del tutto.
Non
si era stupito particolarmente nello scoprire che
no, non aveva a che fare con un più o meno innovativo
giovanotto sbucato dalla
periferia industriale d’Inghilterra per dire loro cosa fosse
giusto pensare.
Del resto, le canzoni di Brian non parlavano affatto di disagi sociali
e grandi
stravolgimenti politici, le canzoni di Brian parlavano di Brian e basta
e che
le rivoluzioni le facessero gli altri, i morti di fame e non gli eroi.
Sorrise
nel bicchiere. Il ragazzo si era ripulito
per fargli una buona impressione – certo, entro dei limiti
invalicabili che gli
permettessero di far credere che non gli interessasse “fare
buona impressione”
– si era cambiato pur senza abbandonare le associazioni
discutibili di capi di
abbigliamento e colori, si era truccato di nuovo, con gli occhi
cerchiati in
modo da essere due fanali brillanti su un viso troppo pallido e smunto
ed il
rossetto acceso a disegnare la bocca in modo netto e preciso. Teneva le
mani in
tasca ed aveva l’atteggiamento imbronciato di chi stia
cercando di allontanare
il mondo da sé pur desiderando disperatamente che il mondo,
invece, lo abbracci
per dimostrargli che è importante. Piccoli tocchi di
fragilità che
difficilmente gli altri captavano appieno, interessarsi ad una creatura
come
quella significava comunque farsi carico di un bagaglio emozionale
dalla
complessità eccessiva, la maggior parte delle persone tirava
dritto dando una
pedata al randagio che gli intralciava la strada.
Posò
il bicchiere sul tavolo dietro di sé, si
sistemò la giacca e si fece avanti, deciso a sottrarre il
ragazzino alla difficoltà
in cui annaspava spaurito.
-Brian
Molko?- lo chiamò per primo.
Lo
vide voltarsi di scatto, riconoscendolo già solo
dalla voce. Ne fu compiaciuto, così come si compiacque non
poco del suo
momentaneo boccheggiare: una genuina reazione da ventiseienne davanti
al
proprio idolo che – ne era sicuro – non si sarebbe
ripetuta.
Brian,
infatti, raccolse a due mani il coraggio,
richiuse la bocca e, non certo della propria voce, si limitò
ad annuire
spiccio, prima di schiarirsela per tirare fuori un tono convinto da
“uomo di
mondo”.
-David
Bowie.- asserì, mani ancora nelle tasche,
sfidandolo apertamente con gli occhi.- Devo ringraziarti per i fiori.-
aggiunse
subito dopo, senza nascondere affatto il disappunto per quel regalo
insolito.
David
rise, captando il suo fastidio e trovandolo
divertente.
-Non
hai idea del perché te li abbia mandati, vero?
-Umorismo
di dubbio gusto.- ritorse pronto Brian.
L’altro
apprezzò tanta iniziativa.
-No…è
qualcosa in te.- confessò senza sapere bene
come spiegarsi.- Ma in fondo credo di non sapere nemmeno io cosa.-
aggiunse
subito dopo.
Brian
sorrise ironico, inclinando la testa di lato
in una posa che David gli aveva visto assumere spesso e che lo rendeva
incredibilmente accattivante.
-Umorismo
di dubbio gusto.- ripeté più lentamente.
Gliela
concesse con una risatina sinceramente
divertita e commentò solo che “aveva comunque
avuto l’effetto sperato”. Brian
stette zitto e David pensò che sapeva comportarsi, quando
voleva. Gli indicò
con un cenno un separé ed il più giovane gli
andò dietro senza commentare.
-Così
potremo parlare senza il baccano del locale.-
si giustificò David quando approdarono ad un ambiente
decisamente più piccolo,
in cui due divani di pelle bianca, enormi e identici, facevano sfoggio
di sé
attorno ad un tavolo basso in cristallo.
Brian
si lasciò cadere per primo su uno dei due
sedili e David, sempre sorridente, si accomodò dal lato
opposto del tavolo,
ricevendo in cambio un’occhiata scettica.
–
Sei una persona interessante, Brian Molko.- iniziò
ignorando l’espressione sul viso del ragazzo.
-Non
è il complimento che ricevo più spesso.- derise
lui.
-Parlami
di te.
La
richiesta cadde nel vuoto. Complice anche
l’arrivo pronto di un cameriere, che raccolse le loro
ordinazioni con composta
eleganza. David chiese dell’altro champagne, Brian
ordinò il cocktail più forte
di cui riuscì a ricordare il nome e poi si diede mentalmente
dello stupido per
questo.
-Allora
parlerò io.- riprese Bowie quando rimasero
nuovamente da soli.- Ma poi non lamentarti dei vaneggiamenti di questo
vecchietto!- lo redarguì affabile.
-Tu
non sei vecchio!- sbottò Brian raccapricciato da
quell’affermazione. Arrossì fino alla punta dei
capelli, rendendosi conto di
aver parlato senza pensarci.
David
rise ancora.
-Ho
il doppio dei tuoi anni, ragazzino, direi che
posso anche arrendermi all’idea di esserlo.
-Non
lo sei per me.- rispose Brian con una sincerità
meno impulsiva.- …ero…sono un tuo
fan…praticamente da sempre.- biascicò a
disagio.
-Beh,
questo mi lusinga. Io temo di essere diventato
un fan dei Placebo piuttosto di recente, invece.- asserì
David.
-…un
nostro fan?- ripeté Brian poco convinto.
-Un
tuo fan, per maggior precisione, e no, non è
come pensi.- lo prevenne David.- Mi piace quello che dici e come lo
dici.
-…neanche
questo è il genere di complimento che
ricevo più spesso.- affermò Brian dopo qualche
attimo in cui ponderò le parole
dell’altro.
-Sbagli
già nel dare per scontato che lo sia.-
ritorse David.- Ma sono certo che determinati difetti svaniranno con
l’età: l’entusiasmo
tende a bruciarsi in fretta, quello che resta è di solito
una maggiore
concretezza. O il niente.
-Parli
per esperienza personale?- chiese Brian con
un sorriso sghembo, molto più rilassato.
-Oh,
no. Io sono ancora qui.- fece notare
cortesemente il suo interlocutore.
-E
allora quale sarebbe l’atteggiamento giusto?-
continuò imperterrito il ragazzino, spingendosi in avanti
sulle ginocchia per
avvicinarsi a lui.
David
realizzò il sottile cambiamento
nell’atteggiamento del più giovane, si accorse con
facilità di come, con la dimestichezza,
Brian stesse riacquistando anche i propri modi da puttanella
ammiccante. Valutò
la cosa. E poi decise che andava bene così; il suo era tutto
meno che un
interesse prettamente artistico, tanto valeva non trincerarsi dietro
finzioni
inopportune.
-Devi
credere solo a quello che pensi tu, di te
stesso.- gli rispose.
Lo
sentì ridere in un modo cattivo che lo sorprese.
Brian si lasciò cadere all’indietro contro lo
schienale del divano,
sprofondando fino ad assumere una posa sbracata e vagamente oscena,
oltre che
maleducata; intrecciò le dita ai capelli neri,
spettinandoli, ridiventando in
un momento l’esatta creatura beffarda che aveva studiato in
quei giorni.
-Mio
padre diceva la stessa cosa.- notificò
provocatorio.
Ma
David non si lasciò spiazzare ed allargò il
sorriso, paziente.
-Beh,
ti avevo detto che non ti saresti dovuto
lamentare se avessi lasciato a me la parola.- lo rimproverò
pacato.
Il
cameriere intervenne, stavolta a salvare il più
giovane, riapparendo sulla soglia con una bottiglia costosa e due
bicchieri per
David e con un cocktail dall’aria scura e densa che Brian
accolse con una
smorfia. David lasciò che l’uomo posasse tutto sul
tavolo e lo fermò un istante
prima che iniziasse a versare lo champagne nei flute, congedandolo con
un cenno.
Il cameriere posò la bottiglia nel cestello del ghiaccio e
sparì sempre nello
stesso silenzio discreto.
-Quella
roba ti rovina il fegato e la capacità di
giudizio.- notò David prontamente, additando il bicchiere di
Brian mentre
armeggiava personalmente con lo champagne per riempire entrambi i flute.
-Il
che potrebbe avere dei risvolti positivi, per
te.- accennò allusivo il ragazzo.
David
storse il viso in una smorfia, lasciandosi poi
andare ad un sorriso sincero.
-Non
stasera.- concesse blando. Sollevò nuovamente
lo sguardo nel suo, sostenendo l’intensità di
quegli occhi cangianti e
trovandoli piacevoli nonostante tutta la diffidenza e il sarcasmo che
ci
leggeva dentro. No, decisamente l’idea di avere davanti un
“idolo” non riusciva
a creare soggezione alcuna in quel ragazzetto.- Ti ho invitato qui con
uno
scopo, Brian.- gli disse allungandogli il flute. Prima di cedergli la
battuta,
proseguì con tranquillità studiata.- In
realtà, volevo farti una proposta di
lavoro.
Brian
ristette, colpito, mettendo da parte per un
istante sia diffidenza che sarcasmo – nonché il
superalcolico nel proprio
bicchiere – per sporgersi verso di lui con interesse genuino.
David, però, si
prese tempo.
-Hai
mai bevuto champagne?- interrogò con il solo
scopo di provocarlo.
Lo
vide arricciare le labbra, sdegnato, e ridacchiò
aspettando tranquillamente la risposta velenosa del ragazzo.
-Certo.-
scandì brusco e secco.
Piccoli accenni di eleganza
aristocratica, quella voglia di rimarcare la
distinzione sociale rispetto ai propri interlocutori. Brian era il prodotto raffinato
di una cultura eccellente, nascosto
abilmente sotto le paillette di una drag-queen sgualdrina in un
bordello di
periferia. Un bel contrasto.
-Si
tratta di questo.- riprese Bowie, archiviando la
questione “bere” con la stessa indifferenza con cui
l’aveva tirata in mezzo.-
Saremo in tour in Europa per tutto questo mese ed il prossimo ed
abbiamo
bisogno di giovani band da utilizzare come apripista negli show.
Così ho
pensato a voi.- affermò stringato, prima di bere un lungo
sorso al solo scopo
di dare modo a Brian di rielaborare quei concetti e farli propri.
E
la testolina mora davanti a lui doveva starsi
dando un gran daffare, considerò osservando il muso del
ragazzo chiuso in un
mutismo assorto e indecifrabile. Brian non lo guardava, il suo
nervosismo era
evidente nel modo in cui stringeva il flute, possessivo, rischiando
quasi di
spezzare il sottile gambo di cristallo tra le dita.
David
schioccò la lingua sul palato, assaporando il
retrogusto aromatico della bevanda e richiamando allo stesso tempo
l’attenzione
del suo interlocutore su di sé.
-Ho
sentito qualche canzone del vostro vecchio
album.- ricominciò ad illustrare.- Quella…
“Nancy Boy”? –
domandò educatamente.- ha un suo
“perché”.- Brian rise e
David lo guardò di sottecchi, interpretando quella risata.-
Sminuisci il tuo
lavoro.- constatò.
-No,
cerco di prendere le cose con il giusto
realismo.- lo sconfessò candidamente Brian.- Ma continua, ti
prego, essere
adulati da David Bowie è apprezzabile anche quando sta
mentendo.
Fu
il turno del più anziano di ridere, ma con
sincerità autentica nel constatare come
l’intelligenza di quel ragazzetto
riuscisse a stuzzicare le sue voglie
perfino più del suo aspetto androgino e bellissimo. Non era
una bambola da
liquidare con una scopata e un’alzata di spalle, e lui era
sempre più convinto
della propria scelta nell’imporsi su Eno e sulla produzione
del tour.
-So
che adesso state per uscire con un nuovo lavoro
e sono certo che non ti sfuggirà
l’utilità di una promozione come questa: associare
il nome dei Placebo a quello di David Bowie significa fare
“il salto di
qualità”.
-Dovrei
comunque parlarne con gli altri…
-Non
prendermi in giro.- ritorse educatamente
David.- Tu non sei quel genere di
leader. Ti ho osservato, Brian, e credo di poter dire con certezza che
mi sono
rivisto in te, in certi tuoi atteggiamenti. Credimi, io non avrei mai
accettato
di doverne “parlare con gli altri”, mi sarei
limitato a prendere le mie
decisioni e comunicarle.- spiegò pazientemente.- Ed
è pur vero che questa è una
delle ragioni per cui non lavoro con una band, - concesse ancora, con
un’alzata
di spalle sbrigativa – ma sono sicuro che un loro
“no” non cambierebbe le tue
decisioni in merito. Così come sono sicuro che non glielo
chiederai neppure.
Brian
lo osservò. Di nuovo chiuso in un silenzio
carico di sottintesi e domande non espresse. David non lo invidiava,
doveva
essere estremamente complesso per lui scegliere in che modo percorrere
la linea
sottile che divideva i suoi sogni di quando ragazzino
lo era davvero, dalla realtà più
complicata e meno piacevole che gli stava
mettendo di fronte. Lo vide mandare giù d’un fiato
tutto il contenuto del
proprio flute, sorrise nell’osservarlo, posò una
guancia contro la mano e
continuò a scrutarlo aspettando e godendosi lo spettacolo
del suo viso
leggermente arrossato dall’alcool trangugiato di fretta e
dall’imbarazzo dei
suoi occhi sulla pelle.
-Sei
molto generoso-
cominciò a dire, calcando bene quella parola
perché il senso non sfuggisse a
nessuno dei due.- nell’offrirci il tuo sostegno, David. Non
posso che dirmene
onorato e, chiaramente, assicurarti…la mia
disponibilità, in cambio.
David
Bowie lo aveva riaccompagnato a casa in
macchina.
Aveva
una Mercedes enorme con autista, ovviamente,
una macchinona nera che gli ricordava un po’ quelle con cui
girava suo padre
quando venivano a prenderlo dalla Banca. Era stato delizioso per tutto
il tempo
– Brian si sentiva un po’ alticcio, aveva bevuto
troppo champagne ed aveva
comunque finito il proprio cocktail ed ordinatone un altro –
aveva parlato
praticamente da solo, accontentandosi delle sue risatine stupide e di
qualche
battuta a mezza voce, tenendo banco con una grazia e
un’eleganza così
invidiabili e perfette da farlo regredire d’un colpo ad
almeno dieci anni
prima, quando quell’uomo era il suo mito
vivente e lui restava affascinato davanti alla radio o alla
tv ad
ascoltarlo parlare in un’intervista o cantare in un live.
David era perfino
arrivato a chiedergli se volesse che Jeff, il suddetto autista, lo
accompagnasse fino a sopra quando si erano fermati davanti al
portoncino del
palazzo dove abitava. Aveva scosso la testa e si era morso la lingua di
domandargli per quale motivo non fossero da tutt’altra parte
– tipo a casa sua, di David, e non stessero discutendo
dell’opportunità che Jeff lo
accompagnasse fino al suo letto… - ancora una
volta impareggiabilmente
signore David lo aveva preceduto, stringendolo in un abbraccio che per
la prima
volta aveva annullato la distanza fisica
tra loro e scoccandogli un bacio rovente sulla fronte.
Brian
avrebbe voluto morire.
-Aspetto
una tua chiamata, dunque.- lo aveva
salutato il più vecchio da dietro il finestrino
dell’auto, mentre lui sostava
con le chiavi in mano fuori del portone, senza decidersi ad aprirlo e
prendere
la scala fino al terzo piano.
-Mh.-
aveva ribattuto lui.
Jeff
aveva messo in moto, David aveva chiuso il
finestrino scuro e Brian non gli aveva voluto lasciare la soddisfazione
di
mollarlo lì, sul marciapiede, da solo, e si era finalmente
voltato a cercare la
serratura.
-Stefan!-
chiamò bruscamente entrando nella camera
ed accendendo la luce in un unico gesto.
Dal
letto in cui stava dormendo, l’altro gli rispose
con un verso a metà tra il risentito e il sofferente,
rivoltandosi tra le
lenzuola per tirare su le coperte fino in cima alla testa in un vano
tentativo
di rifuggire la luce.
Brian
non si lasciò impietosire. Tolse il giubbino
leggero che indossava lasciandolo su una poltrona, scalciò
via gli stivaletti
che portava ai piedi e si arrampicò indifferente al lato del
corpo arrotolato
nel letto, battendogli ritmicamente contro un fianco per indurlo a
spostarsi e
fargli spazio con una serie concitata di grugniti e sbuffi.
-…bbbriaaan!-
biascicò alla fine il ragazzo,
emergendo nuovamente dalle lenzuola in uno sbuffo disordinato di arti e
coperte.
Il
soggetto chiamato in causa non se ne diede
preoccupazione, si accomodò alla meglio contro il muro alle
proprie spalle e lo
guardò finché gli occhi assonnati
dell’altro non si aprirono lentamente,
sbattendo ripetutamente le ciglia al chiarore eccessivo della luce
artificiale.
-Che
cazzo di ora è?- s’informò aspro il
bassista.
-Le
cinque e mezza. E credo di essere ubriaco.- lo
informò Brian diligentemente.
-Non
me ne fotte un accidenti! Vai nel tuo
letto!- gli ringhiò contro, provando
a girarsi di nuovo per rimettersi a dormire.
Implacabile,
Brian gli tirò una manata nello
stomaco.
-Ho
da dirti una cosa importante.- riferì secco.
Stefan sbuffò, saltellando fino ad arrotolarsi in una palla
nel tentativo di
sottrarsi alle angherie dell’altro.- Lo sai che voleva David
Bowie?- gli
chiese.
-Fare
sesso con te.- lo sentì biascicare Brian.
A
questo non rispose.
Stefan
sospirò profondamente, prendendo atto nel
silenzio della risposta implicita; si srotolò
come la coperta in cui era avvolto e tornò a stendersi sulla
schiena, fissando
il soffitto a dita incrociate sulla pancia.
-Ti
ascolto.- annunciò piatto.
-Ci
offre di partecipare ad alcune date dell’Outside
Tour in Europa.- comunicò il cantante, più o meno
nello stesso tono.
-In
cambio…?- suggerì ancora Stefan, fastidiosamente
insistente.
Brian
sbuffò, schioccando la lingua contro il palato
e mugugnando qualcosa all’indirizzo dell’altro che
suonò molto come una critica
affatto velata dei suoi “stupidi
pregiudizi”.
-Intanto
sono qui!- esclamò poi, spiccio, saltando
giù dal letto con la stessa velocità con cui ci
era salito.
Stefan
ne approfittò per sistemarsi su un fianco, la
testa appoggiata alla mano e il gomito piantato nel cuscino, sfoggiando
un’espressione sinceramente stupita nel guardarlo, ritto in
piedi al centro
della camera con le mani ai fianchi.
-Già.-
convenne.- Non ti ha fatto neanche dormire
con lui?- indagò vagamente seccato.
Brian
scosse la testa, sospirando in direzione del
lampadario.
-Dio,
dammi la forza!- invocò in un eco sarcastica
dei suoi trascorsi da bravo cristiano. Stef rideva e a Brian venne
seriamente
la tentazione di prenderlo a schiaffi.- Cretino! E no, non ci ho fatto
sesso!-
informò stringato e arrabbiatissimo.
-O.k.,
o.k.! Non fare la vergine offesa, Brian, sei
pessimo in quel ruolo.- lo rintuzzò l’altro.
-E
tu sei pessimo nel ruolo di migliore amico.-
accusò gratuitamente il brunetto, voltandogli le spalle in
tempo per non
cogliere la sua espressione ferita e dirigendosi brusco alla poltrona.
Mentre
lui si sistemava tra i cuscini dopo aver
“sfrattato” il proprio giubbotto, Stefan ingoiava
amaro e riacquistava una
parvenza di compostezza nel fronteggiare il suo sguardo con un
sorrisino debole
e scialbo.
Brian
ci pensò su. Arrotolato sulla seduta della
poltrona, con una mano reggeva le ginocchia ossute e con
l’altra arrotolava una
ciocca scurissima di capelli ribelli attorno alle dita.
Nell’osservarlo Stefan
vide che il trucco era in disordine ma solo perché era
passato un sacco di
tempo da quando lo aveva applicato, nessuna sbavatura che potesse smentire le parole di Brian circa il
modo in cui aveva passato la serata. Fu una consolazione magrissima, ma
pur
sempre una consolazione – sebbene
pensare
che Brian non sentisse nemmeno la necessità di mentirgli, non potesse essere certo il balsamo
più indicato per le
ferite che gli infliggeva ogni volta…
Chiuse
gli occhi, quando li aprì Brian ricominciò a
parlare.
-…dice
che gli piacciono le mie canzoni.- sussurrò
in tono flebilissimo. Stefan fu costretto a sporgersi in avanti per
afferrare
il resto, Brian non lo guardava nel parlare, fissava un punto a terra e
continuava ad arrotolare ciocche istericamente, come un Linus macabro
– Che gli
piaccio per quello che dico e per come lo dico. Che ha ascoltato
“Nancy Boy” e
che non dovrei…sminuire il mio
lavoro.-
citò, lasciandosi scappare allo stesso tempo una risatina di
scherno che gli
restituì parte della propria sfrontatezza.
Raddrizzò
la schiena e tornò a puntargli addosso gli
occhi, isterico e cattivo come sempre. Stefan si disse che avrebbe
preferito
mille volte quel Brian a qualunque versione di lui fragile e insicuro
gli
avessero messo davanti.
Anche se significava meno abbracci
e meno baci.
-Ma
questo non ci interessa, no?- cercò il suo
sostegno in tono di sfida.- Tutto quello che vogliamo-
e quel plurale pesò sulla coscienza di Stefan come un
macigno, tanto da costringerlo a chiudere gli occhi.- è che
David Bowie sdogani
definitivamente i Placebo.- scandì Brian con la sicurezza
arrogante di sempre.-
E al diavolo tutto il resto!
Avrebbe
voluto rispondere che non voleva affatto
mandare “al diavolo” niente
di tutto
il resto. Soprattutto visto che il resto erano loro – loro due – e lui alla pelle, al
cuore, ai muscoli ed ai polmoni
teneva ancora.
Però
non lo disse.
Sussurra.
Sussurra sulla mia pelle.
Insegnami ad ascoltare il vento
ascoltandone il riflesso nelle tue parole
Brian
Eno li tollerava a stento.
Brian
Molko ne fu consapevole il secondo successivo
a quello in cui misero piede all’interno
dell’elegante sala dove si sarebbe tenuto
il briefing per definire gli ultimi accordi prima della partenza.
Era
tutto fissato a due giorni dopo, l’Italia li
aspettava, loro erano impazienti e lui, nello specifico, terrorizzato a
morte.
Tanto che Stefan aveva avuto il suo bel da fare nel tenerlo lontano da
alcool e
droga la sera prima; se fosse stato per Brian, si sarebbe presentato a
quell’incontro stravolto dopo una notte di scaramantici
eccessi a cancellargli
di dosso la tensione che avvertiva a fior di pelle.
Non
era bravo in quel genere di situazioni. Non come
lo era stato nel
“tête-à-tête” con
Bowie, la loro…piccola…“trattativa
privata”
aveva degli schemi in cui si muoveva con agilità. Perfino
nel ruolo scomodo di
giovane star emergente con una passioncella nemmeno troppo segreta per
il suo
idolo incarnato. Sapeva che gli accordi che avevano preso in separata
sede
mettevano lui e la band al sicuro dallo sguardo minaccioso di Eno, ma
quello
che avvertiva a livello emozionale era più forte e lo
spingeva ad agitarsi nervosamente
sulla sedia, assumendo pose sempre più scomposte con il
progredire noioso di
una riunione priva di qualsiasi sostanza.
Se
non fosse stato proprio per lo sguardo di
disapprovazione del produttore, lui avrebbe ritenuto interamente spazzatura la propria presenza a
quell’incontro: c’erano dei manager,
c’erano persone appositamente pagate per
dirgli dove stare, per mettergli in mano gli strumenti musicali e per
ordinargli di suonare. Punto.
Invece,
lui ed il suo omonimo finirono per
trasformare quell’ora e mezza in un serrato e silenzioso
scontro, volutamente
ignorato da chi stava loro intorno se si faceva eccezione per lo
sguardo
disperato di Stefan che, ogni tanto, tentava di richiamare
all’ordine il
proprio cantante.
Brian
uscì da lì quasi di corsa, precedendo
maleducatamente ogni altra persona nella stanza. Mise una sigaretta in
bocca
prima ancora di essere completamente nel corridoio, accendendola subito
dopo in
barba ai cartelli di vietato fumare. Steve lo afferrò per il
gomito,
trascinandolo via dalla soglia e, rapidamente, verso la porta a vetri
che dava
ad un terrazzo esterno.
La
risata di David Bowie li fermò a metà del
tragitto.
Brian
si voltò. Quasi inconsapevole del sorriso
divertito che gli aveva già tirato le labbra. Al centro del
corridoio Bowie
rideva ancora, la testa rovesciata all’indietro, le mani in
tasca, complice di
quell’atto di ribellione infantile.
Steve
rinunciò a proseguire verso l’uscita e si fece
da parte quando il cantante tornò sui propri passi per
raggiungere il collega
più anziano.
Brian
Eno uscì veloce dalla sala e si fiondò agli
ascensori senza degnare nessuno di loro di una seconda occhiata.
-Nervosetto,
il tuo amico.- commentò Brian a voce
abbastanza alta da essere sentito da tutti, interessato compreso.
David
seguì il suo sguardo, puntando gli occhi sulla
schiena rigida del produttore, ma non commentò in nessun
modo.
-Hai
impegni a pranzo?- chiese, invece.
Brian
sorrise, ammiccante.
-Niente
che non possa essere rimandato…se ne vale la
pena.- aggiunse maliziosamente.
Anche
il sorriso sul volto di David si allargò,
rimanendo tuttavia gentile ed affabile.
-Reputi
che io possa valerne la pena?- insistette.
Una
risatina, uno sguardo obliquo, sorriso sghembo.
-Potresti.
-Allora,
se mi permetti, mi piacerebbe invitarti a
pranzo.- concluse galantemente Bowie.
Brian
scoccò un’occhiata distratta al di sopra della
propria spalla, fingendo un’indifferenza ammirevole mentre
cercava con gli
occhi la figura alta e allampanata del proprio bassista, individuandolo
in
silenziosa attesa al fianco di Steve. Riportò gli occhi su
David in pochi
momenti.
-Volentieri.-
accettò elegantemente.
Stefan
Olsdal lo aspettava alzato nonostante fossero
quasi le due di notte.
Brian
si accorse della luce nella sua stanza quando
entrò. Posò le chiavi sul mobile
all’ingresso e camminò in punta di piedi fino
alla soglia della camera dell’altro, giusto per evitare di
svegliarlo qualora
si fosse comunque addormentato.
I
loro occhi s’incrociarono a metà del tragitto,
come in un tacito accordo. Quello di Stefan era già pregno
di una domanda che
non formulò a voce alta, quello di Brian un po’
colpevole, nonostante non ci
fossero motivi per sentirsi in colpa.
-Ciao.
Non dormi? Domani abbiamo un mucchio di cose
da fare.- Una smorfia infastidita a colorare la frase, si
sfilò la giacca di
dosso.
-Pranzo
lungo.- osservò a mezza voce Stefan.
-Cosa
vuoi sapere?- scoccò implacabile Brian, brusco
e stizzoso come sempre.
-Nulla.-
mentì il bassista, spalle strette in un
gesto di noncuranza fasulla.- Divertito?
-Sì,
certo. Se no, tornavo prima.
Brian
chiuse la discussione a quel modo, lasciando
la stanza senza degnarlo di un’ulteriore occhiata e
dirigendosi alla porta di
fianco, quella della propria camera, che si richiuse alle spalle giusto
per
fargli capire che non gradiva compagnia.
Stefan
non lo stava giudicando. Era solo…curioso?
Boh.
Brian
buttò il giubbotto sulla sedia della
scrivania; la mancò, ma prese in pieno la scrivania stessa,
un mucchio di fogli
e penne rotolò a terra.
Ma
poi non c’era nulla che dovesse raccontargli.
Avevano chiacchierato, lui e Bowie. Avevano chiacchierato un sacco, di
un
mucchio di cose.
Quando,
dopo pranzo, verso le quattro e mezza, il
proprietario del ristorante aveva cortesemente fatto notare che
dovevano
proprio chiudere, si erano alzati ed erano usciti a passeggiare per le
strade
di Londra. Erano rimasti uno accanto all’altro, ad una
distanza…confacente. Non
si erano toccati neppure
per sbaglio, non si erano sfiorati nemmeno quando si erano salutati ore
dopo,
dopo aver cenato qualcosa di veloce in un piccolo caffè che
Brian non conosceva
ma di cui David doveva essere un frequentatore abituale.
Ad
un certo punto gli aveva chiesto se davvero
uno come lui riusciva a
ritagliarsi un intero pomeriggio da trascorrere a zonzo. Voleva
sentirsi
lusingato, sentirlo dire che aveva messo da parte i propri impegni per
lui.
David aveva riso, facendogli capire che era stato facilmente
smascherato; Brian
si era chiesto se lo avrebbe assecondato comunque ma la risposta era
stata
sincera.
-Quando
sei David Bowie, sei tu che stabilisci
“quando” e “dove”.
Brian
aveva stretto forte le labbra e mandato giù un
groppo. Un desiderio bruciante di fare a cambio di vita con
l’altro gli aveva
fatto stringere lo stomaco in una morsa d’invidia. Era stato
volutamente
cattivo, dopo. Offensivo fino all’inverosimile. Aveva
volutamente tirato in
ballo la loro differenza di età, stuzzicandolo su
quell’aspetto, stuzzicandolo
sull’ambiguità di un’eventuale approccio
tra di loro. David aveva fatto cadere
tutte le sue allusioni, ma non senza coglierle, non senza fargli
intendere
velatamente la correttezza delle stesse.
Eppure
non si muoveva. Lo lasciava giocare a quel
modo senza andargli dietro, Brian poteva offrirgli “il
pagamento” del loro
accordo, ma lui non sembrava intenzionato a prenderselo.
Non
lo capiva.
Alla
fine aveva ceduto. Mentre l’altro gli
raccontava aneddoti più o meno divertenti della propria
vita, infilandoci in
mezzo consigli e suggerimenti dati con la maestria di un attore
navigato, Brian
si era riscoperto incapace di proseguire oltre in quella specie di
provocazione
a metà. Aveva messo da parte sia i modi da puttanella che
l’astio rancoroso del
ragazzino cattivo e si era limitato ad ascoltare, a fare le domande che
gli
venivano in mente, a ridere quando qualcosa lo divertiva.
Non
si era nemmeno accorto di quanto tardi si fosse
fatto.
Si
erano lasciati dalle parti di una stazione della
metro. Un saluto cordiale. Brian si era infilato sotto terra
sforzandosi di non
voltarsi a guardare cosa l’altro stesse facendo.
Nel
treno si era appeso ad uno dei sostegni
laterali, sfiatando aria come se avesse nuotato trattenendo il respiro.
…che schifo di
situazione era, quella?!
Un
bussare leggero alla porta richiamò la sua attenzione
al presente.
-Entra,
Stef.- sbrigativo.
Si
tolse la maglietta, rimanendoci incastrato dentro
mentre la porta veniva aperta e richiusa delicatamente. Nessun passo.
Quando
riemerse dalla stoffa, vide Stefan, impacciato, evitare il suo sguardo
sulla soglia
della stanza.
-Scusa.
Non voglio farmi i fatti tuoi.- esordì
spiccio il bassista.
-Mh.-
si avvicinò alla scrivania e sistemò giubbotto
e maglietta sulla sedia. Sul letto ne prese una pulita che usava in
casa, per
dormire, e la infilò dalla testa. Era enorme ma era di suo
fratello.- Comunque,
non è successo niente.- precisò a quel punto.
-Non
te l’ho chiesto.
-Non
a voce alta, questo è sicuro!- lo derise Brian.-
Senti, qual è il tuo problema?- attaccò subito
dopo, spiccio- Cioè, parliamone
adesso e mettiamolo da parte, perché dopodomani partiamo in
tour con quel tizio
e, se hai un problema con lui…o con questa cosa, meglio
saperlo adesso, ok?
-Quale
cosa?
-Non
il fatto che io possa scopare con lui, Stefan!-
sfiatò Brian, stancamente.- O è questo?-
indagò.
-Ho
paura che possa approfittarsene e basta.
-C’è
il rischio.- convenne brevemente l’altro. Si
arrabattò nella stanza, mettendo in ulteriore disordine cose
che non erano in
ordine da un pezzo, gettando alla rinfusa nell’armadio
vestiti sgualciti.
Stefan seguiva distrattamente i suoi movimenti, solo per leggerci
dentro con
facilità il nervosismo strisciante della sera prima.-
E’ ovvio che non è quello
il mio obiettivo.- scrollò le spalle.
Stefan
annuì breve. All’improvviso condivideva con
Brian l’irrefrenabile bisogno di rompere degli schemi
monotoni. Era tardi, a
quell’ora era tardi per qualsiasi cosa, ma non potevano
semplicemente rimanere
in casa, andare a dormire e fare finta di niente.
-C’era
una festa da Andy.- buttò lì con
casualità.
Brian
si voltò di scatto, il viso illuminato da una
luce nuova, quasi spiritata. Sorrise in un modo che Stefan
giudicò spaventoso,
ma poi si lasciò contagiare dal suo entusiasmo.
-E
noi che ci facciamo ancora qui?!- esclamò il
cantante, afferrando dall’armadio ancora aperto il primo paio
di pantaloni e la
prima maglietta che riuscì a raggiungere.
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