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Autore: nainai    18/06/2014    3 recensioni
Rose rosse. Ambizioni. Desideri.
...il bisogno di attingere alla vita per essere vivi davvero.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Placebo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Outside Broadcast
 
Vorrei avere il senso delle parole abbastanza a fondo
da rendere tutta la poesia del suono e delle immagini.
E, invece, sono solo una puttana dello scrivere.
 
Si erano ritrovati nella merda senza nemmeno accorgersi che stesse succedendo. Un paio di giorni prima avevano un’agenda fitta di impegni ben collaudati. Un paio di giorni dopo il tour manager li guardava con aria afflitta, le lacrime agli occhi e l’espressione di un uomo infelicemente sull’orlo di una crisi isterica.
David Robert Jones – conosciuto al secolo come David Bowie - odiava le crisi isteriche. Sarà stata la sua origine inglese.
Il tour manager, comunque, ci aveva tenuto a rassicurarli che avrebbe pensato a tutto lui e che, tempo poche ore, avrebbe trovato una valida alternativa.
David Bowie aveva inarcato un sopracciglio, si era voltato sulla poltrona fino ad incontrare lo sguardo altrettanto perplesso di Brian Peter George St. John le Baptiste de la Salle Eno – per ovvie ragioni, meglio noto come Brian Eno – ed aveva sospirato in modo speculare all’amico. Grazie a Dio, anche Brian Eno era inglese.
E grazie a Dio, la loro sintonia era sempre stata perfetta.
O quasi.
 
Ad esempio, lui – David – li aveva amati fin dal primo momento in cui li aveva ascoltati. E sì, sapeva che tanto doveva dipendere dal fatto che quel ragazzino – si chiese distrattamente che età potesse avere, ma ogni risposta che si dava lo qualificava invariabilmente come pedofilo e non gli piaceva granché – fosse non solo bello in un modo doloroso, ma anche ammiccante, volgare, intrigante come la peggiore battona di strada che Londra potesse offrire. Ma sapeva anche che non tutto dipendeva da questo.
Brian no. Brian continuava a parlargli in un orecchio, elencando nomi che lui ascoltava solo in parte e date che ricordava a memoria e non era importante, quindi, ascoltasse.
-Mi piacciono.- provò a notificare sperando di arginare il fiume in piena che gli sedeva accanto nella luce soffusa del locale.
In parte ci riuscì. L’amico e produttore storse il naso e sollevò il viso.
-Beh, sì, eravamo qui per loro, ma secondo me hai preso un granchio.- commentò stringato e palesemente infastidito.
David gli ricambiò lo sguardo con aria di sfida: lui prendere un granchio? Se diceva che gli piacevano – e no, non parlava solo della gambe magre del ragazzino da sotto il vestitino da donna – era perché gli piacevano e tanto voleva dire che erano bravi.
-Mi ricorda me.- ribatté.
-No, tu avevi talento.- scoccò impietoso Brian, riabbassando gli occhi sul proprio cocktail.
-Ce l’ha anche lui…
-Sì, ma di un genere soltanto, Dave. E non capisco, sinceramente, perché tu ti stia ostinando tanto! I gruppi che abbiamo contattato sono sufficienti.
David si voltò. Brian Eno sfoggiava un atteggiamento di chiusura che lo rendeva detestabile, braccia conserte, viso imbruttito da una smorfia sarcastica ed aria di aperta sfida. Gettò un’occhiata ancora, in tralice, al moccioso sul palco, allo spilungone che suonava il basso e al tizio corpulento che li accompagnava alla batteria. Soppesò se valevano la pena di uno scontro al vertice di quella portata, ma non era più abituato a sentirsi dire di “no” e non avrebbe fatto eccezione per un amico.
-Li voglio in tour.
-Lo vuoi nel letto.- lo corresse l’amico, implacabile e rabbioso.- Vai di là, nel camerino, scopatelo contro un muro e facciamola finita.- gli ringhiò contro.
David non si arrabbiò – intanto, era parzialmente vero - in compenso, però, rise e si alzò. Quando Brian Eno lo vide imboccare l’uscita del locale invece che la porta del backstage, capì che quei tre sarebbero irrimediabilmente finiti nel baraccone assieme a loro. E si diede dello stupido per averlo permesso.
 
L’idea era venuta ad entrambi quasi simultaneamente, non c’era Morrisey che tenesse: l’Outside Tour aveva preso la propria strada e, che quel pagliaccio volesse o meno percorrerla con loro, né David Bowie né Brian Eno intendevano dargliela vinta ed arrendersi davanti ai suoi “impegni più pressanti che un tour in Europa”. Così, quando il cantante degli “Smith” li aveva lasciati in tredici senza fornire alcuna spiegazione plausibile – e davanti al rischio concreto di una crisi isterica del proprio tour manager – i due colleghi ed amici avevano rispolverato quel po’ di pazienza e voglia di fare che ancora avevano e trovato una soluzione rapida e indolore.
Niente Morrisey? Avrebbero dato la possibilità a qualche talentuosa e giovane band locale di promuoversi un po’ appiccicando il proprio nome accanto a quello di qualche pezzo grosso della musica pop-rock dell’ultimo ventennio. Sapevano entrambi che non avrebbero fatto grossi sforzi per trovare dei rimpiazzi validi e, quindi, non si erano lasciati scoraggiare nemmeno dalla prospettiva un po’ noiosa di girare in lungo e in largo concerti e locali in cerca di giovani emergenti.
I “Placebo” a stretto rigore non rientravano nemmeno nella categoria. Giovani erano giovani, ma con un album già all’attivo, non erano esattamente gli esordienti completi che erano, invece, parsi a Brian Eno a sentirli dal vivo. Niente di che, li aveva liquidati con una scrollata di spalle ed un verso annoiato, mentre l’amico Dave si fissava negli occhi il viso del cantante e nelle orecchie il timbro impossibile della sua voce.
Lui si chiamava Brian Molko. Aveva 26 anni, due occhi grigi che cambiavano colore con la luce o con l’umore, i capelli scuri e disordinati, la voce altissima e nasale. Era troppo magro, decisamente strafottente, per lo più ubriaco o fatto anche sul palco e durante gli show, irriverente, arrabbiato, volutamente maleducato, sciatto e spudoratamente volgare ed allusivo. Era la negazione di ogni classe e savoir fair, non sapeva comportarsi con il pubblico, non era presentabile ad un party, era ingiustificatamente crudele con i giornalisti, riusciva a farsi odiare nel giro di pochissimi istanti ed era intollerabile anche – soprattutto – per chi lavorava con lui. Aveva già fatto fuori il proprio batterista per sostituirlo con un altro, un gigante tutto muscoli che accanto a lui, nanetto e magrolino, ed a quello spilungone senza spessore del suo bassista sembrava ancora più grosso e minaccioso.
Era odioso.
E bellissimo.
Magari qualche sbattimento di ciglia c’entrava pure, si confessò David portando alle labbra un flute pieno di bollicine dorate.
Dall’altro lato della sala, impacciato come una ragazzina, un improvvisamente ammansito Brian Molko girava attorno gli occhi, spalancati ed attenti in maniera quasi ridicola, presumibilmente cercando proprio lui. Non sapeva cosa avrebbe suscitato nel mandargli quei fiori in camerino; David lo aveva studiato per un po’, seguito, osservato, interrogato discretamente le persone che lo frequentavano più da vicino, ma nonostante questo la decisione di mandargli le rose era stata istintiva e non ponderata. Dopo giorni sapeva di volerlo conoscere, di volerci parlare direttamente, ma non sapeva ancora che per farlo avrebbe usato un trucco di altri tempi, dal sapore retrò, che avrebbe dovuto stonare con gli atteggiamenti incivili della sua controparte e che, invece, gli era parso così perfetto a fronte di quegli occhi come gemme, di quella bocca da baciare e di quegli accenni di eleganza aristocratica che, con tutta la propria buona volontà, il ragazzetto non riusciva a mascherare del tutto.
Non si era stupito particolarmente nello scoprire che no, non aveva a che fare con un più o meno innovativo giovanotto sbucato dalla periferia industriale d’Inghilterra per dire loro cosa fosse giusto pensare. Del resto, le canzoni di Brian non parlavano affatto di disagi sociali e grandi stravolgimenti politici, le canzoni di Brian parlavano di Brian e basta e che le rivoluzioni le facessero gli altri, i morti di fame e non gli eroi.
Sorrise nel bicchiere. Il ragazzo si era ripulito per fargli una buona impressione – certo, entro dei limiti invalicabili che gli permettessero di far credere che non gli interessasse “fare buona impressione” – si era cambiato pur senza abbandonare le associazioni discutibili di capi di abbigliamento e colori, si era truccato di nuovo, con gli occhi cerchiati in modo da essere due fanali brillanti su un viso troppo pallido e smunto ed il rossetto acceso a disegnare la bocca in modo netto e preciso. Teneva le mani in tasca ed aveva l’atteggiamento imbronciato di chi stia cercando di allontanare il mondo da sé pur desiderando disperatamente che il mondo, invece, lo abbracci per dimostrargli che è importante. Piccoli tocchi di fragilità che difficilmente gli altri captavano appieno, interessarsi ad una creatura come quella significava comunque farsi carico di un bagaglio emozionale dalla complessità eccessiva, la maggior parte delle persone tirava dritto dando una pedata al randagio che gli intralciava la strada.
Posò il bicchiere sul tavolo dietro di sé, si sistemò la giacca e si fece avanti, deciso a sottrarre il ragazzino alla difficoltà in cui annaspava spaurito.
-Brian Molko?- lo chiamò per primo.
Lo vide voltarsi di scatto, riconoscendolo già solo dalla voce. Ne fu compiaciuto, così come si compiacque non poco del suo momentaneo boccheggiare: una genuina reazione da ventiseienne davanti al proprio idolo che – ne era sicuro – non si sarebbe ripetuta.
Brian, infatti, raccolse a due mani il coraggio, richiuse la bocca e, non certo della propria voce, si limitò ad annuire spiccio, prima di schiarirsela per tirare fuori un tono convinto da “uomo di mondo”.
-David Bowie.- asserì, mani ancora nelle tasche, sfidandolo apertamente con gli occhi.- Devo ringraziarti per i fiori.- aggiunse subito dopo, senza nascondere affatto il disappunto per quel regalo insolito.
David rise, captando il suo fastidio e trovandolo divertente.
-Non hai idea del perché te li abbia mandati, vero?
-Umorismo di dubbio gusto.- ritorse pronto Brian.
L’altro apprezzò tanta iniziativa.
-No…è qualcosa in te.- confessò senza sapere bene come spiegarsi.- Ma in fondo credo di non sapere nemmeno io cosa.- aggiunse subito dopo.
Brian sorrise ironico, inclinando la testa di lato in una posa che David gli aveva visto assumere spesso e che lo rendeva incredibilmente accattivante.
-Umorismo di dubbio gusto.- ripeté più lentamente.
Gliela concesse con una risatina sinceramente divertita e commentò solo che “aveva comunque avuto l’effetto sperato”. Brian stette zitto e David pensò che sapeva comportarsi, quando voleva. Gli indicò con un cenno un separé ed il più giovane gli andò dietro senza commentare.
-Così potremo parlare senza il baccano del locale.- si giustificò David quando approdarono ad un ambiente decisamente più piccolo, in cui due divani di pelle bianca, enormi e identici, facevano sfoggio di sé attorno ad un tavolo basso in cristallo.
Brian si lasciò cadere per primo su uno dei due sedili e David, sempre sorridente, si accomodò dal lato opposto del tavolo, ricevendo in cambio un’occhiata scettica.
– Sei una persona interessante, Brian Molko.- iniziò ignorando l’espressione sul viso del ragazzo.
-Non è il complimento che ricevo più spesso.- derise lui.
-Parlami di te.
La richiesta cadde nel vuoto. Complice anche l’arrivo pronto di un cameriere, che raccolse le loro ordinazioni con composta eleganza. David chiese dell’altro champagne, Brian ordinò il cocktail più forte di cui riuscì a ricordare il nome e poi si diede mentalmente dello stupido per questo.
-Allora parlerò io.- riprese Bowie quando rimasero nuovamente da soli.- Ma poi non lamentarti dei vaneggiamenti di questo vecchietto!- lo redarguì affabile.
-Tu non sei vecchio!- sbottò Brian raccapricciato da quell’affermazione. Arrossì fino alla punta dei capelli, rendendosi conto di aver parlato senza pensarci.
David rise ancora.
-Ho il doppio dei tuoi anni, ragazzino, direi che posso anche arrendermi all’idea di esserlo.
-Non lo sei per me.- rispose Brian con una sincerità meno impulsiva.- …ero…sono un tuo fan…praticamente da sempre.- biascicò a disagio.
-Beh, questo mi lusinga. Io temo di essere diventato un fan dei Placebo piuttosto di recente, invece.- asserì David.
-…un nostro fan?- ripeté Brian poco convinto.
-Un tuo fan, per maggior precisione, e no, non è come pensi.- lo prevenne David.- Mi piace quello che dici e come lo dici.
-…neanche questo è il genere di complimento che ricevo più spesso.- affermò Brian dopo qualche attimo in cui ponderò le parole dell’altro.
-Sbagli già nel dare per scontato che lo sia.- ritorse David.- Ma sono certo che determinati difetti svaniranno con l’età: l’entusiasmo tende a bruciarsi in fretta, quello che resta è di solito una maggiore concretezza. O il niente.
-Parli per esperienza personale?- chiese Brian con un sorriso sghembo, molto più rilassato.
-Oh, no. Io sono ancora qui.- fece notare cortesemente il suo interlocutore.
-E allora quale sarebbe l’atteggiamento giusto?- continuò imperterrito il ragazzino, spingendosi in avanti sulle ginocchia per avvicinarsi a lui.
David realizzò il sottile cambiamento nell’atteggiamento del più giovane, si accorse con facilità di come, con la dimestichezza, Brian stesse riacquistando anche i propri modi da puttanella ammiccante. Valutò la cosa. E poi decise che andava bene così; il suo era tutto meno che un interesse prettamente artistico, tanto valeva non trincerarsi dietro finzioni inopportune.
-Devi credere solo a quello che pensi tu, di te stesso.- gli rispose.
Lo sentì ridere in un modo cattivo che lo sorprese. Brian si lasciò cadere all’indietro contro lo schienale del divano, sprofondando fino ad assumere una posa sbracata e vagamente oscena, oltre che maleducata; intrecciò le dita ai capelli neri, spettinandoli, ridiventando in un momento l’esatta creatura beffarda che aveva studiato in quei giorni.
-Mio padre diceva la stessa cosa.- notificò provocatorio.
Ma David non si lasciò spiazzare ed allargò il sorriso, paziente.
-Beh, ti avevo detto che non ti saresti dovuto lamentare se avessi lasciato a me la parola.- lo rimproverò pacato.
Il cameriere intervenne, stavolta a salvare il più giovane, riapparendo sulla soglia con una bottiglia costosa e due bicchieri per David e con un cocktail dall’aria scura e densa che Brian accolse con una smorfia. David lasciò che l’uomo posasse tutto sul tavolo e lo fermò un istante prima che iniziasse a versare lo champagne nei flute, congedandolo con un cenno. Il cameriere posò la bottiglia nel cestello del ghiaccio e sparì sempre nello stesso silenzio discreto.
-Quella roba ti rovina il fegato e la capacità di giudizio.- notò David prontamente, additando il bicchiere di Brian mentre armeggiava personalmente con lo champagne per riempire entrambi i flute.
-Il che potrebbe avere dei risvolti positivi, per te.- accennò allusivo il ragazzo.
David storse il viso in una smorfia, lasciandosi poi andare ad un sorriso sincero.
-Non stasera.- concesse blando. Sollevò nuovamente lo sguardo nel suo, sostenendo l’intensità di quegli occhi cangianti e trovandoli piacevoli nonostante tutta la diffidenza e il sarcasmo che ci leggeva dentro. No, decisamente l’idea di avere davanti un “idolo” non riusciva a creare soggezione alcuna in quel ragazzetto.- Ti ho invitato qui con uno scopo, Brian.- gli disse allungandogli il flute. Prima di cedergli la battuta, proseguì con tranquillità studiata.- In realtà, volevo farti una proposta di lavoro.
Brian ristette, colpito, mettendo da parte per un istante sia diffidenza che sarcasmo – nonché il superalcolico nel proprio bicchiere – per sporgersi verso di lui con interesse genuino. David, però, si prese tempo.
-Hai mai bevuto champagne?- interrogò con il solo scopo di provocarlo.
Lo vide arricciare le labbra, sdegnato, e ridacchiò aspettando tranquillamente la risposta velenosa del ragazzo.
-Certo.- scandì brusco e secco.
Piccoli accenni di eleganza aristocratica, quella voglia di rimarcare la distinzione sociale rispetto ai propri interlocutori. Brian era il prodotto raffinato di una cultura eccellente, nascosto abilmente sotto le paillette di una drag-queen sgualdrina in un bordello di periferia. Un bel contrasto.
-Si tratta di questo.- riprese Bowie, archiviando la questione “bere” con la stessa indifferenza con cui l’aveva tirata in mezzo.- Saremo in tour in Europa per tutto questo mese ed il prossimo ed abbiamo bisogno di giovani band da utilizzare come apripista negli show. Così ho pensato a voi.- affermò stringato, prima di bere un lungo sorso al solo scopo di dare modo a Brian di rielaborare quei concetti e farli propri.
E la testolina mora davanti a lui doveva starsi dando un gran daffare, considerò osservando il muso del ragazzo chiuso in un mutismo assorto e indecifrabile. Brian non lo guardava, il suo nervosismo era evidente nel modo in cui stringeva il flute, possessivo, rischiando quasi di spezzare il sottile gambo di cristallo tra le dita.
David schioccò la lingua sul palato, assaporando il retrogusto aromatico della bevanda e richiamando allo stesso tempo l’attenzione del suo interlocutore su di sé.
-Ho sentito qualche canzone del vostro vecchio album.- ricominciò ad illustrare.- Quella… “Nancy Boy”? – domandò educatamente.- ha un suo “perché”.- Brian rise e David lo guardò di sottecchi, interpretando quella risata.- Sminuisci il tuo lavoro.- constatò.
-No, cerco di prendere le cose con il giusto realismo.- lo sconfessò candidamente Brian.- Ma continua, ti prego, essere adulati da David Bowie è apprezzabile anche quando sta mentendo.
Fu il turno del più anziano di ridere, ma con sincerità autentica nel constatare come l’intelligenza di quel ragazzetto riuscisse a stuzzicare le sue voglie perfino più del suo aspetto androgino e bellissimo. Non era una bambola da liquidare con una scopata e un’alzata di spalle, e lui era sempre più convinto della propria scelta nell’imporsi su Eno e sulla produzione del tour.
-So che adesso state per uscire con un nuovo lavoro e sono certo che non ti sfuggirà l’utilità di una promozione come questa: associare il nome dei Placebo a quello di David Bowie significa fare “il salto di qualità”.
-Dovrei comunque parlarne con gli altri…
-Non prendermi in giro.- ritorse educatamente David.- Tu non sei quel genere di leader. Ti ho osservato, Brian, e credo di poter dire con certezza che mi sono rivisto in te, in certi tuoi atteggiamenti. Credimi, io non avrei mai accettato di doverne “parlare con gli altri”, mi sarei limitato a prendere le mie decisioni e comunicarle.- spiegò pazientemente.- Ed è pur vero che questa è una delle ragioni per cui non lavoro con una band, - concesse ancora, con un’alzata di spalle sbrigativa – ma sono sicuro che un loro “no” non cambierebbe le tue decisioni in merito. Così come sono sicuro che non glielo chiederai neppure.
Brian lo osservò. Di nuovo chiuso in un silenzio carico di sottintesi e domande non espresse. David non lo invidiava, doveva essere estremamente complesso per lui scegliere in che modo percorrere la linea sottile che divideva i suoi sogni di quando ragazzino lo era davvero, dalla realtà più complicata e meno piacevole che gli stava mettendo di fronte. Lo vide mandare giù d’un fiato tutto il contenuto del proprio flute, sorrise nell’osservarlo, posò una guancia contro la mano e continuò a scrutarlo aspettando e godendosi lo spettacolo del suo viso leggermente arrossato dall’alcool trangugiato di fretta e dall’imbarazzo dei suoi occhi sulla pelle.
-Sei molto generoso- cominciò a dire, calcando bene quella parola perché il senso non sfuggisse a nessuno dei due.- nell’offrirci il tuo sostegno, David. Non posso che dirmene onorato e, chiaramente, assicurarti…la mia disponibilità, in cambio.
 
David Bowie lo aveva riaccompagnato a casa in macchina.
Aveva una Mercedes enorme con autista, ovviamente, una macchinona nera che gli ricordava un po’ quelle con cui girava suo padre quando venivano a prenderlo dalla Banca. Era stato delizioso per tutto il tempo – Brian si sentiva un po’ alticcio, aveva bevuto troppo champagne ed aveva comunque finito il proprio cocktail ed ordinatone un altro – aveva parlato praticamente da solo, accontentandosi delle sue risatine stupide e di qualche battuta a mezza voce, tenendo banco con una grazia e un’eleganza così invidiabili e perfette da farlo regredire d’un colpo ad almeno dieci anni prima, quando quell’uomo era il suo mito vivente e lui restava affascinato davanti alla radio o alla tv ad ascoltarlo parlare in un’intervista o cantare in un live. David era perfino arrivato a chiedergli se volesse che Jeff, il suddetto autista, lo accompagnasse fino a sopra quando si erano fermati davanti al portoncino del palazzo dove abitava. Aveva scosso la testa e si era morso la lingua di domandargli per quale motivo non fossero da tutt’altra parte – tipo a casa sua, di David, e non stessero discutendo dell’opportunità che Jeff lo accompagnasse fino al suo letto… - ancora una volta impareggiabilmente signore David lo aveva preceduto, stringendolo in un abbraccio che per la prima volta aveva annullato la distanza fisica tra loro e scoccandogli un bacio rovente sulla fronte.
Brian avrebbe voluto morire.
-Aspetto una tua chiamata, dunque.- lo aveva salutato il più vecchio da dietro il finestrino dell’auto, mentre lui sostava con le chiavi in mano fuori del portone, senza decidersi ad aprirlo e prendere la scala fino al terzo piano.
-Mh.- aveva ribattuto lui.
Jeff aveva messo in moto, David aveva chiuso il finestrino scuro e Brian non gli aveva voluto lasciare la soddisfazione di mollarlo lì, sul marciapiede, da solo, e si era finalmente voltato a cercare la serratura.
-Stefan!- chiamò bruscamente entrando nella camera ed accendendo la luce in un unico gesto.
Dal letto in cui stava dormendo, l’altro gli rispose con un verso a metà tra il risentito e il sofferente, rivoltandosi tra le lenzuola per tirare su le coperte fino in cima alla testa in un vano tentativo di rifuggire la luce.
Brian non si lasciò impietosire. Tolse il giubbino leggero che indossava lasciandolo su una poltrona, scalciò via gli stivaletti che portava ai piedi e si arrampicò indifferente al lato del corpo arrotolato nel letto, battendogli ritmicamente contro un fianco per indurlo a spostarsi e fargli spazio con una serie concitata di grugniti e sbuffi.
-…bbbriaaan!- biascicò alla fine il ragazzo, emergendo nuovamente dalle lenzuola in uno sbuffo disordinato di arti e coperte.
Il soggetto chiamato in causa non se ne diede preoccupazione, si accomodò alla meglio contro il muro alle proprie spalle e lo guardò finché gli occhi assonnati dell’altro non si aprirono lentamente, sbattendo ripetutamente le ciglia al chiarore eccessivo della luce artificiale.
-Che cazzo di ora è?- s’informò aspro il bassista.
-Le cinque e mezza. E credo di essere ubriaco.- lo informò Brian diligentemente.
-Non me ne fotte un accidenti! Vai nel tuo letto!- gli ringhiò contro, provando a girarsi di nuovo per rimettersi a dormire.
Implacabile, Brian gli tirò una manata nello stomaco.
-Ho da dirti una cosa importante.- riferì secco. Stefan sbuffò, saltellando fino ad arrotolarsi in una palla nel tentativo di sottrarsi alle angherie dell’altro.- Lo sai che voleva David Bowie?- gli chiese.
-Fare sesso con te.- lo sentì biascicare Brian.
A questo non rispose.
Stefan sospirò profondamente, prendendo atto nel silenzio della risposta implicita; si srotolò come la coperta in cui era avvolto e tornò a stendersi sulla schiena, fissando il soffitto a dita incrociate sulla pancia.
-Ti ascolto.- annunciò piatto.
-Ci offre di partecipare ad alcune date dell’Outside Tour in Europa.- comunicò il cantante, più o meno nello stesso tono.
-In cambio…?- suggerì ancora Stefan, fastidiosamente insistente.
Brian sbuffò, schioccando la lingua contro il palato e mugugnando qualcosa all’indirizzo dell’altro che suonò molto come una critica affatto velata dei suoi “stupidi pregiudizi”.
-Intanto sono qui!- esclamò poi, spiccio, saltando giù dal letto con la stessa velocità con cui ci era salito.
Stefan ne approfittò per sistemarsi su un fianco, la testa appoggiata alla mano e il gomito piantato nel cuscino, sfoggiando un’espressione sinceramente stupita nel guardarlo, ritto in piedi al centro della camera con le mani ai fianchi.
-Già.- convenne.- Non ti ha fatto neanche dormire con lui?- indagò vagamente seccato.
Brian scosse la testa, sospirando in direzione del lampadario.
-Dio, dammi la forza!- invocò in un eco sarcastica dei suoi trascorsi da bravo cristiano. Stef rideva e a Brian venne seriamente la tentazione di prenderlo a schiaffi.- Cretino! E no, non ci ho fatto sesso!- informò stringato e arrabbiatissimo.
-O.k., o.k.! Non fare la vergine offesa, Brian, sei pessimo in quel ruolo.- lo rintuzzò l’altro.
-E tu sei pessimo nel ruolo di migliore amico.- accusò gratuitamente il brunetto, voltandogli le spalle in tempo per non cogliere la sua espressione ferita e dirigendosi brusco alla poltrona.
Mentre lui si sistemava tra i cuscini dopo aver “sfrattato” il proprio giubbotto, Stefan ingoiava amaro e riacquistava una parvenza di compostezza nel fronteggiare il suo sguardo con un sorrisino debole e scialbo.
Brian ci pensò su. Arrotolato sulla seduta della poltrona, con una mano reggeva le ginocchia ossute e con l’altra arrotolava una ciocca scurissima di capelli ribelli attorno alle dita. Nell’osservarlo Stefan vide che il trucco era in disordine ma solo perché era passato un sacco di tempo da quando lo aveva applicato, nessuna sbavatura che potesse smentire le parole di Brian circa il modo in cui aveva passato la serata. Fu una consolazione magrissima, ma pur sempre una consolazione – sebbene pensare che Brian non sentisse nemmeno la necessità di mentirgli, non potesse essere certo il balsamo più indicato per le ferite che gli infliggeva ogni volta…
Chiuse gli occhi, quando li aprì Brian ricominciò a parlare.
-…dice che gli piacciono le mie canzoni.- sussurrò in tono flebilissimo. Stefan fu costretto a sporgersi in avanti per afferrare il resto, Brian non lo guardava nel parlare, fissava un punto a terra e continuava ad arrotolare ciocche istericamente, come un Linus macabro – Che gli piaccio per quello che dico e per come lo dico. Che ha ascoltato “Nancy Boy” e che non dovrei…sminuire il mio lavoro.- citò, lasciandosi scappare allo stesso tempo una risatina di scherno che gli restituì parte della propria sfrontatezza.
Raddrizzò la schiena e tornò a puntargli addosso gli occhi, isterico e cattivo come sempre. Stefan si disse che avrebbe preferito mille volte quel Brian a qualunque versione di lui fragile e insicuro gli avessero messo davanti.
Anche se significava meno abbracci e meno baci.
-Ma questo non ci interessa, no?- cercò il suo sostegno in tono di sfida.- Tutto quello che vogliamo- e quel plurale pesò sulla coscienza di Stefan come un macigno, tanto da costringerlo a chiudere gli occhi.- è che David Bowie sdogani definitivamente i Placebo.- scandì Brian con la sicurezza arrogante di sempre.- E al diavolo tutto il resto!
Avrebbe voluto rispondere che non voleva affatto mandare “al diavolo” niente di tutto il resto. Soprattutto visto che il resto erano loro – loro due – e lui alla pelle, al cuore, ai muscoli ed ai polmoni teneva ancora.
Però non lo disse.
 
Sussurra. Sussurra sulla mia pelle.
Insegnami ad ascoltare il vento ascoltandone il riflesso nelle tue parole
 
Brian Eno li tollerava a stento.
Brian Molko ne fu consapevole il secondo successivo a quello in cui misero piede all’interno dell’elegante sala dove si sarebbe tenuto il briefing per definire gli ultimi accordi prima della partenza.
Era tutto fissato a due giorni dopo, l’Italia li aspettava, loro erano impazienti e lui, nello specifico, terrorizzato a morte. Tanto che Stefan aveva avuto il suo bel da fare nel tenerlo lontano da alcool e droga la sera prima; se fosse stato per Brian, si sarebbe presentato a quell’incontro stravolto dopo una notte di scaramantici eccessi a cancellargli di dosso la tensione che avvertiva a fior di pelle.
Non era bravo in quel genere di situazioni. Non come lo era stato nel “tête-à-tête” con Bowie, la loro…piccola…“trattativa privata” aveva degli schemi in cui si muoveva con agilità. Perfino nel ruolo scomodo di giovane star emergente con una passioncella nemmeno troppo segreta per il suo idolo incarnato. Sapeva che gli accordi che avevano preso in separata sede mettevano lui e la band al sicuro dallo sguardo minaccioso di Eno, ma quello che avvertiva a livello emozionale era più forte e lo spingeva ad agitarsi nervosamente sulla sedia, assumendo pose sempre più scomposte con il progredire noioso di una riunione priva di qualsiasi sostanza.
Se non fosse stato proprio per lo sguardo di disapprovazione del produttore, lui avrebbe ritenuto interamente spazzatura la propria presenza a quell’incontro: c’erano dei manager, c’erano persone appositamente pagate per dirgli dove stare, per mettergli in mano gli strumenti musicali e per ordinargli di suonare. Punto.
Invece, lui ed il suo omonimo finirono per trasformare quell’ora e mezza in un serrato e silenzioso scontro, volutamente ignorato da chi stava loro intorno se si faceva eccezione per lo sguardo disperato di Stefan che, ogni tanto, tentava di richiamare all’ordine il proprio cantante.
Brian uscì da lì quasi di corsa, precedendo maleducatamente ogni altra persona nella stanza. Mise una sigaretta in bocca prima ancora di essere completamente nel corridoio, accendendola subito dopo in barba ai cartelli di vietato fumare. Steve lo afferrò per il gomito, trascinandolo via dalla soglia e, rapidamente, verso la porta a vetri che dava ad un terrazzo esterno.
La risata di David Bowie li fermò a metà del tragitto.
Brian si voltò. Quasi inconsapevole del sorriso divertito che gli aveva già tirato le labbra. Al centro del corridoio Bowie rideva ancora, la testa rovesciata all’indietro, le mani in tasca, complice di quell’atto di ribellione infantile.
Steve rinunciò a proseguire verso l’uscita e si fece da parte quando il cantante tornò sui propri passi per raggiungere il collega più anziano.
Brian Eno uscì veloce dalla sala e si fiondò agli ascensori senza degnare nessuno di loro di una seconda occhiata.
-Nervosetto, il tuo amico.- commentò Brian a voce abbastanza alta da essere sentito da tutti, interessato compreso.
David seguì il suo sguardo, puntando gli occhi sulla schiena rigida del produttore, ma non commentò in nessun modo.
-Hai impegni a pranzo?- chiese, invece.
Brian sorrise, ammiccante.
-Niente che non possa essere rimandato…se ne vale la pena.- aggiunse maliziosamente.
Anche il sorriso sul volto di David si allargò, rimanendo tuttavia gentile ed affabile.
-Reputi che io possa valerne la pena?- insistette.
Una risatina, uno sguardo obliquo, sorriso sghembo.
-Potresti.
-Allora, se mi permetti, mi piacerebbe invitarti a pranzo.- concluse galantemente Bowie.
Brian scoccò un’occhiata distratta al di sopra della propria spalla, fingendo un’indifferenza ammirevole mentre cercava con gli occhi la figura alta e allampanata del proprio bassista, individuandolo in silenziosa attesa al fianco di Steve. Riportò gli occhi su David in pochi momenti.
-Volentieri.- accettò elegantemente.
 
Stefan Olsdal lo aspettava alzato nonostante fossero quasi le due di notte.
Brian si accorse della luce nella sua stanza quando entrò. Posò le chiavi sul mobile all’ingresso e camminò in punta di piedi fino alla soglia della camera dell’altro, giusto per evitare di svegliarlo qualora si fosse comunque addormentato.
I loro occhi s’incrociarono a metà del tragitto, come in un tacito accordo. Quello di Stefan era già pregno di una domanda che non formulò a voce alta, quello di Brian un po’ colpevole, nonostante non ci fossero motivi per sentirsi in colpa.
-Ciao. Non dormi? Domani abbiamo un mucchio di cose da fare.- Una smorfia infastidita a colorare la frase, si sfilò la giacca di dosso.
-Pranzo lungo.- osservò a mezza voce Stefan.
-Cosa vuoi sapere?- scoccò implacabile Brian, brusco e stizzoso come sempre.
-Nulla.- mentì il bassista, spalle strette in un gesto di noncuranza fasulla.- Divertito?
-Sì, certo. Se no, tornavo prima.
Brian chiuse la discussione a quel modo, lasciando la stanza senza degnarlo di un’ulteriore occhiata e dirigendosi alla porta di fianco, quella della propria camera, che si richiuse alle spalle giusto per fargli capire che non gradiva compagnia.
Stefan non lo stava giudicando. Era solo…curioso? Boh.
Brian buttò il giubbotto sulla sedia della scrivania; la mancò, ma prese in pieno la scrivania stessa, un mucchio di fogli e penne rotolò a terra.
Ma poi non c’era nulla che dovesse raccontargli. Avevano chiacchierato, lui e Bowie. Avevano chiacchierato un sacco, di un mucchio di cose.
Quando, dopo pranzo, verso le quattro e mezza, il proprietario del ristorante aveva cortesemente fatto notare che dovevano proprio chiudere, si erano alzati ed erano usciti a passeggiare per le strade di Londra. Erano rimasti uno accanto all’altro, ad una distanza…confacente. Non si erano toccati neppure per sbaglio, non si erano sfiorati nemmeno quando si erano salutati ore dopo, dopo aver cenato qualcosa di veloce in un piccolo caffè che Brian non conosceva ma di cui David doveva essere un frequentatore abituale.
Ad un certo punto gli aveva chiesto se davvero uno come lui riusciva a ritagliarsi un intero pomeriggio da trascorrere a zonzo. Voleva sentirsi lusingato, sentirlo dire che aveva messo da parte i propri impegni per lui. David aveva riso, facendogli capire che era stato facilmente smascherato; Brian si era chiesto se lo avrebbe assecondato comunque ma la risposta era stata sincera.
-Quando sei David Bowie, sei tu che stabilisci “quando” e “dove”.
Brian aveva stretto forte le labbra e mandato giù un groppo. Un desiderio bruciante di fare a cambio di vita con l’altro gli aveva fatto stringere lo stomaco in una morsa d’invidia. Era stato volutamente cattivo, dopo. Offensivo fino all’inverosimile. Aveva volutamente tirato in ballo la loro differenza di età, stuzzicandolo su quell’aspetto, stuzzicandolo sull’ambiguità di un’eventuale approccio tra di loro. David aveva fatto cadere tutte le sue allusioni, ma non senza coglierle, non senza fargli intendere velatamente la correttezza delle stesse.
Eppure non si muoveva. Lo lasciava giocare a quel modo senza andargli dietro, Brian poteva offrirgli “il pagamento” del loro accordo, ma lui non sembrava intenzionato a prenderselo.
Non lo capiva.
Alla fine aveva ceduto. Mentre l’altro gli raccontava aneddoti più o meno divertenti della propria vita, infilandoci in mezzo consigli e suggerimenti dati con la maestria di un attore navigato, Brian si era riscoperto incapace di proseguire oltre in quella specie di provocazione a metà. Aveva messo da parte sia i modi da puttanella che l’astio rancoroso del ragazzino cattivo e si era limitato ad ascoltare, a fare le domande che gli venivano in mente, a ridere quando qualcosa lo divertiva.
Non si era nemmeno accorto di quanto tardi si fosse fatto.
Si erano lasciati dalle parti di una stazione della metro. Un saluto cordiale. Brian si era infilato sotto terra sforzandosi di non voltarsi a guardare cosa l’altro stesse facendo.
Nel treno si era appeso ad uno dei sostegni laterali, sfiatando aria come se avesse nuotato trattenendo il respiro.
…che schifo di situazione era, quella?!
Un bussare leggero alla porta richiamò la sua attenzione al presente.
-Entra, Stef.- sbrigativo.
Si tolse la maglietta, rimanendoci incastrato dentro mentre la porta veniva aperta e richiusa delicatamente. Nessun passo. Quando riemerse dalla stoffa, vide Stefan, impacciato, evitare il suo sguardo sulla soglia della stanza.
-Scusa. Non voglio farmi i fatti tuoi.- esordì spiccio il bassista.
-Mh.- si avvicinò alla scrivania e sistemò giubbotto e maglietta sulla sedia. Sul letto ne prese una pulita che usava in casa, per dormire, e la infilò dalla testa. Era enorme ma era di suo fratello.- Comunque, non è successo niente.- precisò a quel punto.
-Non te l’ho chiesto.
-Non a voce alta, questo è sicuro!- lo derise Brian.- Senti, qual è il tuo problema?- attaccò subito dopo, spiccio- Cioè, parliamone adesso e mettiamolo da parte, perché dopodomani partiamo in tour con quel tizio e, se hai un problema con lui…o con questa cosa, meglio saperlo adesso, ok?
-Quale cosa?
-Non il fatto che io possa scopare con lui, Stefan!- sfiatò Brian, stancamente.- O è questo?- indagò.
-Ho paura che possa approfittarsene e basta.
-C’è il rischio.- convenne brevemente l’altro. Si arrabattò nella stanza, mettendo in ulteriore disordine cose che non erano in ordine da un pezzo, gettando alla rinfusa nell’armadio vestiti sgualciti. Stefan seguiva distrattamente i suoi movimenti, solo per leggerci dentro con facilità il nervosismo strisciante della sera prima.- E’ ovvio che non è quello il mio obiettivo.- scrollò le spalle.
Stefan annuì breve. All’improvviso condivideva con Brian l’irrefrenabile bisogno di rompere degli schemi monotoni. Era tardi, a quell’ora era tardi per qualsiasi cosa, ma non potevano semplicemente rimanere in casa, andare a dormire e fare finta di niente.
-C’era una festa da Andy.- buttò lì con casualità.
Brian si voltò di scatto, il viso illuminato da una luce nuova, quasi spiritata. Sorrise in un modo che Stefan giudicò spaventoso, ma poi si lasciò contagiare dal suo entusiasmo.
-E noi che ci facciamo ancora qui?!- esclamò il cantante, afferrando dall’armadio ancora aperto il primo paio di pantaloni e la prima maglietta che riuscì a raggiungere.
 
 
  
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