L.C. - Cap. 35
35
Patch era
assuefatto agli ospedali. Guardava distratto i muri bianchi tappezzati
di manifesti che declamavano le proprietà di questo o quel
farmaco, ribadivano le norme igieniche fondamentali e mostravano gli
ultimi ritrovati meccanici in termini di protesi articolari, ignorando
le figure in camice che si muovevano tra le tende che separavano i
letti.
Come
cazzo si potrà andare in giro con una gamba a molle
concentriche? Ogni duemila passi ti devi fermare a ricaricarla! Tanto
varrebbe rimpicciolire un motore e attaccarcelo, pensò svogliato.
Girò lo sguardo su Clay, che invece non aveva perso di vista un secondo Boy.
Avevano portato
Ozone al Reine Lia Hospital, temendo il peggio. Il vecchio era livido
ed emetteva gorgoglii inquietanti, come se avesse i polmoni pieni di
lubrificante addensato. Boy non aveva spiegato cosa fosse successo,
limitandosi a dire di averlo trovato in quelle condizioni steso sul
pavimento, tuttavia nessuno riusciva a credergli. C’era qualcosa
nel guizzare improvviso dei suoi occhi, nel torcersi le mani o nello
strattonare i piercing, una nota nell’ansia che lo pervadeva, che
dava alle sue reazioni un che di esagerato, quasi fosse consapevole di
mentire e essere prossimo all’essere smascherato.
Probabilmente
aveva a che fare con il passato del motorista, giacché
l’avevano registrato solo grazie all’amicizia di Patch con
le segretarie dell’accettazione: sia Ozone che il ragazzo avevano
rifiutato categoricamente di fornire le generalità.
«Boy, sei
l’unico che conosca abbastanza il vecchio da aiutare i medici.
Digli quello che sai» disse Clay scrollandolo con gentilezza.
L’apprendista
scosse la testa fissando il pavimento di piastrelle grigiastre. Stava
al centro della corsia, rannicchiato sulle ginocchia, infischiandosene
di chi lo urtava o dei lamenti degli altri degenti.
«Se lo dico,
lo ammazzo. E lui… sta già morendo» rispose
parlando fra le pieghe dei pantaloni da lavoro.
La notizia
colpì i colleghi dritto allo stomaco. Patch lasciò cadere
la testa contro il muro e Clay esalò un sospiro pesante e
affranto, scostandosi di un passo.
«È da un po’ che non lo vedevo bene, ma non pensavo… » commentò.
In quel momento,
il medico emerse dalle tendine chiamando il ragazzo. Patch
l’aveva presentato come il nipote del ricoverato: senza quella
scusa, non gli avrebbero permesso di seguirlo. Boy non sentì
neppure cosa l’uomo in camice stesse dicendo, limitandosi ad
annuire meccanicamente prima d’infilarsi dietro il separé.
Il corpo di Ozone
era rattrappito fra le lenzuola bianche di disinfettante, una macchia
di unto essiccata sulla stoffa. Di colpo era diventato minuscolo. La
pelle sembrava cadergli di dosso quasi fosse un vestito troppo largo,
strinto e stropicciato, e le trecce di cui andava tanto orgoglioso si
erano trasformate in due catene di ragnatele.
Jessie si avvicinò, gli scarponi che cigolavano sul pavimento.
«Ehi,
vecchio. Vuoi farmi prendere un colpo?» si sforzò di
ridacchiare, sfoggiando una smorfia che nelle sue intenzioni avrebbe
dovuto essere di totale biasimo.
Si scambiarono un
interminabile sguardo, mentre dietro il sipario di cotone filtravano lo
sferragliare dei carrelli e i piagnucolii dei malati.
Boy si chinò fin quasi a sfiorargli il naso col proprio.
«Più forte, Ozone, non riesco…» ma le parole gli morirono in bocca.
Gli occhi del
motorista erano colmi di lacrime quanto la sua testa di silenzio. Si
sentì mancare la terra sotto i piedi. La sua voce era svanita,
dissolta. Nemmeno uno stridio era sopravvissuto.
«Dai, cazzo,
finiscila di fare il sentimentale. Se è tutta una scusa per
farmi tirar giù i pantaloni, guarda che non ci casco. Il mio
culo non lo vedrai mai!» tentò di scherzare,
artigliandogli disperato la spalla.
Ozone
accennò un sorriso amaro fra le trecce grigie e gli prese il
polso. Stava cercando di stringerlo o semplicemente si trattava di un
ultimo tentativo di trasmettergli una parola, un verso, una vibrazione.
«Dai…
non fare così… cazzo, Marcus, troveremo un sistema. Sai
scrivere…» mormorò, ma lo vide scuotere appena il
capo.
Con grande fatica, Ozone sillabò muto: sei in gamba, Jessie. Hai un grande dono.
Le sue labbra si muovevano lente, schioccando molli come vecchie guarnizioni che stavano cedendo.
«Chi se ne
fotte! Che me ne faccio? Noi… non possiamo dirlo. È
pericoloso, non te lo ricordi? Mi hai rincoglionito a forza di farmelo
promettere».
Una raffica di singulti fece sobbalzare il torace dell’uomo.
Basta segreti. Guarda dove sono arrivato con i miei. I ragazzi capiranno.
Ogni frase prendeva sempre più tempo e lo sguardo di Ozone si faceva appannato.
«E se fanno come Pancake? Se hanno paura?» protestò flebile Jessie abbassando gli occhi.
Era terrorizzato all’idea che lo cacciassero, molto più alla prospettiva di essere arrestato e internato.
Sotto la barba del vecchio sembrò far capolino un sorriso di garbato rimprovero.
«Ozone,
smettila. Merda, tirati su. Vado a cercarti Cleopatra, ci stai? La tua
amichetta col culo stretto che ti piace tanto. C’è la
Grönaghen da finire, devi spiegarmi cosa cazzo fare. Non ho mai
visto una roba così, non so dove mettere le mani!» lo
supplicò.
Citare la drag
queen con cui il vecchio aveva bazzicato per un paio di settimane non
sortì l’effetto sperato, solo un vago sospiro. Il suo
interesse era rivolto al futuro del discepolo.
Parla al metallo. Governalo. Fallo vivere. Ti obbedirà. Tu puoi farlo, ne sei capace.
Si sentì la tenda che scorreva e Clay che con un mezzo fischio richiamava il ragazzo.
«Che c’è?» ringhiò continuando a dargli le spalle.
Non voleva si
accorgesse di quanto le parole di Ozone gli avessero rivoltato le
budella per l’angoscia. Ora che aveva finalmente trovato qualcuno
capace di aiutarlo, di capire il suo disagio e il suo potenziale, non
riusciva nemmeno a fare in modo che la sua guida potesse avere un
senso. Sapeva troppo poco delle sue capacità e delle loro
applicazioni. E poi Ozone era stato il solo a dargli le dritte giuste
per riuscire a distogliere l’attenzione di Benny da sua madre e
uscire vivo dai suoi pestaggi.
«Ci stanno
buttando fuori perché non siamo parenti e Patch non può
tirare troppo la corda. Vieni, ti accompagniamo a casa» disse
Lomann avvicinandosi.
Non si azzardò ad affiancare l’apprendista: era già abbastanza penoso vederlo tremare come una foglia.
«Io resto» s’intestardì.
Seppure a
malincuore, il capofficina acconsentì, ribadendogli di
presentarsi al lavoro il giorno successivo. Poteva capire quanto Jessie
fosse sconvolto, imporgli di tornare a casa avrebbe solo peggiorato le
cose. Era successo così quando nel letto c’era stato
Scorch reduce da un pestaggio, lui era al posto di Boy e nelle sue
vesti c’era stato suo padre. Era stato spinto a reagire, a
pensare ad altro. E aveva funzionato.
«Ehi, Ozone. Vedi di muovere quelle vecchie chiappe o mi sa che il ragazzo ti porterà via il posto».
***
«Cognac».
«Non mi pare
il momento, Hito. Stiamo lavorando» rampognò Iron,
assestando un vigoroso giro di chiave ai bulloni.
Non ce
l’aveva con il collega né con i pannelli della
Grönaghen che faticava a liberare dai supporti: una sorsata di
liquore l’avrebbe buttata giù volentieri a dispetto del
caldo. Il suo malumore aveva radici ben diverse. Quel mattino aveva
avuto l’impressione di scorgere Delmar lungo un marciapiede, una
montagna di vestiti malconci che i pochi passanti schivavano con
ribrezzo. Era sceso quasi in corsa dall’omnibus, solo per
scoprire che si trattava di un accattone, che teneva al sicuro negli
abiti troppo larghi un cane e i suoi pochi averi. Qualche giorno
addietro, Jeff aveva saputo che Pancake girava dalle parti di Weston
Road, in compagnia di un bestione biondo e di un altro tizio. Non aveva
un bell’aspetto e dato che non rientrava a casa da parecchio, il
terrore che ora vivesse per strada, tra delinquenti e rifiuti della
società, aveva rapidamente messo radici nella mente del fratello.
Scoprire che
quell’ubriacone acciaccato e fetido sul marciapiede non era Del,
non aveva però risollevato il morale del meccanico, bensì
l’aveva fatto impazzire di frustrazione e vergogna. Non si
capacitava del grossolano errore.
«Intendevo
il colore. Per la Grönaghen» specificò Hito, prima di
addentare una caramella gommosa lunga e scura. «Cognac perlato. E
blu notte, molto cupo e opaco. Niente cromature».
Iron cercò
di affannosamente di seguire il suo ragionamento. Il verniciatore non
sceglieva mai tonalità a caso, ma in quel momento gli sfuggiva
il senso della proposta.
«Credo sia
un doveroso tributo a Ozone. E aiuterà Boy a starci su. Glielo
diremo quando arriva» chiarì.
«Ozone si
vestiva sempre di blu in officina ed era così scuro che sembrava
fatto di bronzo» ricordò l’altro.
Tutto ad un tratto
sembravano trascorsi secoli da quando aveva visto il collega. Invece si
trattava di ore, poco più di mezza giornata.
Ma quando ha cominciato a stare male? Neppure di lui ci siamo accorti… pensò amareggiato.
Il suo problema
doveva essere simile a quello di Del: un qualcosa di piccolo e
strisciante, subdolo, che li aveva minati dall’interno ed era
cresciuto poco alla volta fino all’irreparabile.
«D’estate gli si poteva cuocere una bistecca addosso» aggiunse, riuscendo per un istante a sorridere.
«Sarà dura senza di lui».
L’affermazione
scatenò un moto di rabbia in Iron, che gettò
l’enorme chiave a torsione sul tavolo. Un tuono metallico si
propagò nell’officina, riverberando ovunque. Clayton
Junior sobbalzò spaventato alla rastrelliera degli arnesi e per
poco non se la fece crollare addosso.
«Quell’uomo ha un’età e Dio solo sa cosa. Se il suo tempo è finito…»
«Hito, non t’azzardare nemmeno a pensarlo!» ruggì minaccioso con le mani sui fianchi.
Sulle unghie erano rimaste tracce di uno smalto scarlatto, così brillante da sembrare sangue.
Ciò nonostante, Hito non si lasciò intimidire.
«Ascoltami».
La calma con cui
masticava la caramella raggelò il collega. Da qualche giorno era
tornato ad apparire ieratico e razionale dopo le settimane trascorse
lontano del tabacco.
«Hai visto
la reazione di Boy. Lui lo sa. L’ha già capito e ce
l’ha praticamente detto con il suo silenzio. Ozone non
uscirà da quell’ospedale, se non dentro una bara. Negarlo
non cambierà le cose».
Abbattuto dall’evidenza, Iron scrollò le spalle.
«Pensi che
non lo sappia?» sbuffò appoggiandosi al montante del
carroponte. «È solo che qui dentro stanno succedendo cose
strane… aumenta il lavoro e perdiamo persone. Sembra fatto di
proposito! E ci sono altre faccende che non riesco a capire».
Ripensò al
racconto di Jeff, quando Scorch e PigTail erano andati da Brigit e lo
disse a Hito, parlando sottovoce affinché nessun altro potesse
ascoltare i suoi dubbi.
«Perché
incontrarsi con un avvocato importante? Proprio lui poi, che di guai
con la legge ne ha avuti fin troppi. Pensi che possa aver combinato
ancora qualcosa?» azzardò.
«Non
agitarti. Le spiegazioni potrebbero essere un’infinità,
non necessariamente la più ovvia» considerò pacato
il verniciatore, staccando un nuovo pezzo di dolce. «Hai pensato
che forse sta cercando di aiutare Pig? Da quando ha smesso di bere,
Scorch si sta dimostrando molto più serio e altruista di quanto
sia mai stato in passato, e se non ricordo male, PigTail ha una figlia
di cui ha la custodia esclusiva. Magari stanno cercando un modo per
tutelare la piccola dai suoi disastri».
«No. Per me
riguarda Scorch» insisté Iron, posando distrattamente lo
sguardo sulla Grönaghen mezza spogliata della sua livrea verde
scuro.
Qualcosa gli
ripeteva che non poteva essere altrimenti. L’ora tarda, la
presenza di quel poco di buono di Brown, il fatto che Scorch non ne
avesse parlato a Clay (che di certo avrebbe riportato la cosa a
qualcuno) o il suo neonato senso di responsabilità. Tutti
elementi sospetti.
«Niños,
volete muovere il vostro fottuto culo o devo lavorare solo io qui
dentro?» irruppe Choncho, raggiungendoli a passo di marcia dal
lato opposto della stanza.
«Quattro mèit, ricordatelo» lo ammonì bonariamente Hito, indicando il Penitenziere.
Choncho
sfoderò uno strano sorriso di assoluto compiacimento, a cui
seguirono una decina di altri improperi tra i peggiori del suo
repertorio, urlati a voce talmente alta da spaccare i timpani. Lo
guardarono esterrefatti, spiando il ballatoio, dove si aspettavano di
veder comparire Charlotte in preda ad una crisi isterica. Intravidero
solo la sagoma di Hammond occhieggiare dal vetro della porta e nessun
rimprovero li raggiunse.
«Abbiamo una
gara da far vincere! Imparate dal sottoscritto e datevi una
mossa!» si vantò Wilmar allontanandosi tronfio,
accarezzando una manciata di monete nella tasca dei pantaloni. «Yo soy el santo de Port Serafine» aggiunse tra sé.
***
Junior, indispettito dal voltafaccia degli adulti della
“Legendary” e spaventato dallo sbraitare di Iron, era
tornato fuori nel cortile, vicino ai rottami. Lì, seduta su una
sedia della mensa in un angolo ombroso, Bonnie rileggeva “Il
pozzo di tenebra”, l’ultimo romanzo della serie di Tamior
l’Avventuriero. Cercava di non singhiozzare rileggendo i passaggi
che poco tempo prima avevano fatto preoccupare suo padre, con scarsi
risultati.
«Voglio che
danno via la baracca» grugnì Junior dondolandosi
goffamente su una lastra arrugginita in bilico su un traliccio
deformato.
«Ma sei
matto? La “Legendary” è la cosa più
importante del mondo per mamma e papà!» replicò
tirando su col naso.
Il gioco del bambino s’interruppe bruscamente mentre le rivolgeva uno sguardo acido.
«Appunto. E io cosa sono?»
Bonnie si morse la
lingua per la stupidità della risposta. Chiuse il libro,
accarezzando la copertina dove la figura del giovane avventuriero era
disegnata dal luccichio degli ornamenti metallici degli abiti nel buio
del famigerato inghiottitoio.
«Click-Clack…
dai, lo sai cosa volevo dire. Loro ci vogliono bene, ci pensano sempre.
È per questo che lavorano tanto, per non farci mancare nulla.
È solo un periodo complicato. Dobbiamo credere in loro e tutto
si sistemerà» sospirò, sistemando la lunga treccia
castana sulla spalla mentre parafrasava Celestine, l’innamorata
segreta di Tamior.
«Sì.
E a noi non ci guarda più nessuno per colpa di questo lavoro. Si
dimenticano che noi esistiamo! Ci sbattono sempre dalla nonna per non
tenerci qui e adesso non vogliono neanche che andiamo dentro. Choncho
mi ha cacciato via ieri… Sono stufo! Odio questo posto! Voglio
che lo vendono!» e per ribadirlo, diede un pestone alla lastra,
facendola vibrare.
«Smettila di
fare lo stupido! Ti farai male!» lo sgridò la sorella.
«Mamma e papà non venderanno la “Legendary”!
Hanno fatto tanto per portarla dov’è adesso. Perché
non lo capisci?»
«Non la voglio più» sibilò.
«Beh,
arrangiati. Non devi decidere tu. Vorrà dire che la tua parte me
la prenderò io quando sarò grande» sbottò
sfogliando impettita le pagine per riprendere la lettura.
«Perché? Perché così puoi vedere Boy tutti i giorni?»
Bonnie
trasalì sbarrando gli occhi verdi e s’irrigidì, con
la carta che quasi le si accartocciava attorno alle dita.
«Cosa c’entra Boy?» squittì.
«Cosa
c’entra Boy?» rispose facendole il verso con un ghigno
cattivo. «Ho visto il tuo diario, quello che tieni sotto al
letto! “Bonnie+Boy”, “Bonnie e Jessie per
sempre”, “Jessie ti amo”, “Signora Bonnie
Lomann in Bennet”» cantilenò storcendo il naso.
Lei balzò
giù dalla sedia abbandonando il romanzo e cominciando a
rincorrere il piccolo ficcanaso. Non aveva detto a nessuno, nemmeno
alla sua migliore amica Pauline, che il giovane punteggiato di
ornamenti metallici aveva cominciato a suscitarle un certo interesse.
«Junior! Chi
ti ha dato il permesso? Sono cose mie! Mie!» strillò
tentando inutilmente di agguantarlo e finendo solo per riempiersi la
gonna e le scarpe di polvere.
«Hai messo il collarino con scritto “Boy” anche al tuo stupido orsetto! Che schifo fai!»
«Ti odio! Vai via! Sparisci!» gridò cadendo in ginocchio e scoppiando a piangere.
Ben sapendo che
nel giro di pochi minuti qualcuno l’avrebbe sentita, Junior
s’infilò di corsa nell’officina e salì le
scale facendo i gradini a due a due, boccheggiando per la rabbia e il
caldo opprimente. Si buttò a peso morto contro la prima porta in
cima alla rampa, aprendola di schianto. Subito dopo sì
udì un gemito soffocato e un impatto sordo.
«Che modi
sono, Junior? Mi hai fatto prendere un accidente! Si bussa prima di
entrare» lo sgridò Niklas, rivolgendogli
un’occhiataccia mentre cercava di tamponare con il tappeto
sdrucito l’inchiostro precipitato sul pavimento.
«Compralo» ansimò.
L’uomo quasi
non gli prestava attenzione, impegnato com’era ad evitare che il
liquido scuro impregnasse le assi strisciate.
«Cosa?» bofonchiò cominciando a sfregare energicamente il legno.
Il ragazzino gli
si avvicinò e l’afferrò per un orecchio,
obbligandolo a raddrizzarsi sulle ginocchia per guardarlo.
«Comprati
questo posto e manda via papà e mamma. Prenditelo. È tuo.
Tuo! Hai capito? Te lo do io. Non lo voglio più» gli
intimò, fissandolo con lo stesso sguardo che aveva suo padre
quando dava un ordine perentorio ai ragazzi.
***
Niklas tracciò una linea arcuata che dalla pancia della
Grönaghen saliva con tre diversi raggi di curvatura fino
all’abitacolo, sudando su ogni singolo tratto. Quando
terminò il raccordo, sentì un enorme peso scivolargli
dalle spalle.
La sparata di Junior di poco prima l’aveva spiazzato non poco, oltre a fargli tremare le ginocchia.
«Porca puttana, quanto c’è voluto!» grugnì tra sé battendo i palmi sulla fronte.
Finalmente il muso
dell’airship avrebbe permesso all’aria di scorrere con un
flusso pulito e lineare, esente da turbolenze, consentendo una
penetrazione più efficace; un flusso che avrebbe contribuito
alla governabilità del mezzo, mantenendolo alla corretta
distanza dalla superficie della pista. Eliminare le profonde
scanalature che contraddistinguevano la parte anteriore della
Grönaghen era un’autentica eresia, un atto criminale, ma si
trattava pur sempre di convertire un mezzo stradale in uno adatto alle
gare di velocità.
«Bene»
sospirò sedendo pesantemente sul bordo della scrivania.
«Questa è fatta. Ora la trasversale».
Passò una
mano sulla faccia e una traccia lieve, quasi impercettibile, si
mescolò al suo respiro. Guardò le dita, muovendole appena
affinché spandessero ancora quell’aroma invitante. Pere e
cioccolato bianco. Non si sentivano profumi del genere tutti i giorni.
Faticava a concentrarsi con l’aura del dolce ancora incastrata
sotto le unghie. Agguantò la tazza di tisana, ingollandone una
lunga sorsata. Il sapore amarognolo non servì a spazzar via la
distrazione, che invece ingranò la quarta.
Aveva trovato
Charlotte in cucina quel mattino, quando neppure Thomas aveva ficcato
il suo faccione da burocrate oltre il cancello. Nel piattino davanti a
lei c’era la tortina che portava il suo nome.
Si era scusata per
non averla mangiata il giorno prima, adducendo il solito carico di
revisioni impostole da Hammond per ripicca e l’improvviso malore
di Ozone, che l’aveva costretta agli ennesimi straordinari per
comunicare al Dipartimento Coloniale del Lavoro il ricovero del
dipendente.
«Posso farti compagnia?» le aveva chiesto dopo aver preparato la prima tazza di tisana della giornata.
Lei aveva acconsentito senza troppo entusiasmo, salvo immobilizzarsi di colpo, presa da un pensiero.
«Ti va di… mangiarla con me?»
La proposta era
giunta come un fulmine a ciel sereno e l’aveva lasciato stordito
peggio di una sbronza a digiuno. Si era seduto al suo fianco sorridendo
inebetito e avevano diviso il dolce senza parlare. La situazione in
officina era critica, bisognava fare qualcosa, eppure non gli sembrava
affatto il momento per discuterne: dalla finestra entrava il cinguettio
di qualche uccellino e l’alone rosato del primo sole. C’era
pace. Un qualcosa di così raro e prezioso ultimamente, che
sembrava davvero un peccato mortale guastarlo.
Aveva notato la
lentezza dei gesti e il rossore degli occhi di Charlotte; certo non
poteva dipendere dalle ore trascorse sulle pratiche o a trattenere la
bile dopo ogni pretesa del tirapiedi di Avelan. Erano di chi aveva
trascorso la notte in bianco fra le lacrime. I suoi lunghi sospiri lo
confermavano, anche se cercava di dissimularli.
«Allora ogni tanto mi dai retta» aveva commentato, fingendo di interessarsi alla colazione.
La donna l’aveva guardato smarrita.
«Ti stanno
bene» e aveva indicato i capelli che portava sciolti sulle
spalle, impedendole di trovare una qualunque spiegazione buttandosi in
bocca il boccone con le dita. «Ti fanno sembrare meno severa.
Anche con te stessa».
Si era sforzata di annuire e aveva ripreso a titillare i cubetti di pere del ripieno.
«Si
sistemerà tutto, vedrai. Ti toglieremo quel gorilla dai piedi e
potrai prenderti qualche giorno di ferie per riposarti, senza pensare a
questa manica di monelli» l’aveva rassicurata sfiorandole
appena la mano, sebbene lui per primo non credesse a quella versione.
Troppe cose
stavano muovendosi in quel momento attorno a loro e alla
“Legendary Customs”. Sarebbe bastato un soffio per far
crollare quel fragile castello di carte.
Non le aveva
raccontato d’aver visto il giorno prima Lisian aggirarsi furtivo
sul retro dell’officina e d’essersi insospettito,
giacché sembrava facesse segnali a qualcuno. Aveva scorto figure
muoversi tra i mucchi di rottami e le erbacce, dirette al laboratorio
di Odrin. Era sceso per scoprire cosa stesse succedendo e aveva finito
per origliare ogni parola detta nel magazzino. Non le aveva confessato
di sapere quelle cose e né le aveva domandato di spiegargliene
altre. Aveva taciuto. Taciuto e sorriso, prendendo con le dita un altro
pezzetto di dolce e mimando di volerla imboccare quando l’aveva
vista perdersi in qualche pensiero. Le aveva fatto curvare le labbra in
qualcosa che poteva ricordare l’accenno di una risatina.
Poi aveva udito i passi di Thomas sulla scala di metallo e gli era venuta gran voglia di andare a scaraventarlo di sotto.
Scosse la testa,
ritrovandosi nell’ufficio con l’infuso ormai freddo tra le
mani. Si fece forza e riprese a trafficare con il profilo frontale
dell’airship: entro il pomeriggio doveva assolutamente consegnare
ai ragazzi gli schemi di piegatura dei pannelli.
Writer's Corner
Le lungaggini
continuano, ahimé, e posso far poco per porvi rimedio. Solo
scrivere. Cercherò di farmi perdonare con questa e altre storie.
Grazie come sempre ai super-pazienti lettori e recensori: Shade Owl, pheiyu, Wild_Demigods, Akainu magma, blood_mary95, maddampini, Ernesto507, LibertyStyle, Heven Elphas, vita17, TheWhiteDoll, AleGritti92, VersoLUniverso, John Spangler, Aurelianus, windshade, MorphineJ, Niki12, Nana Punk, Mizzy, alister_, bruciato e Pisaster_Ochraceus, NoFate.
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