Stavolta
a svegliarlo fu il brontolio del suo stomaco. Il laboratorio era
già
illuminato dai raggi di sole mattutino che entravano dal buco.
Sbatté
le palpebre per liberarle dalle crosticine del sonno e
lasciò che lo
sguardo vagasse sul proprio corpo.
Si
rese conto di essersi arrotolato in un pezzo di moquette impolverata
che si era sollevata e staccata dal bordo. E realizzò, anche
se
l'aveva comunque già notato, di essere completamente nudo.
Prima di
andare a cercare altre persone, avrebbe dovuto trovare qualcosa da
mettersi addosso, fosse anche un frammento di quella stessa moquette
arrotolato intorno ai fianchi. I dubhiani, se non erano cambiati nel
corso degli anni, non erano un popolo pudico, ma molti terrestri
invece lo erano eccome.
Si
guardò intorno. Ora che era fuori dal vetro vedeva tutto con
maggiore chiarezza. E fu così che si accorse del contenuto
delle
altre teche, molto più crepate della sua. Il liquido
nutritivo era
colato fuori tutto, e appese alle imbracature c'erano le forme
rinsecchite e mummificate di coloro che erano stati i suoi compagni
di esperimento. Un senso di gelido orrore si arrampicò lungo
la sua
spina dorsale facendogli rizzare tutti i peli del corpo,
paralizzandolo. Il fiato gli si bloccò in gola, e solo con
uno
sforzo riuscì ad emettere un lungo respiro strozzato e
singhiozzante. Anche la sua teca aveva molte crepe che correvano
lungo tutta l'altezza, ma erano fini e poco liquido colava. Un
sottile strato di vetro incrinato era stato tutto quello che si era
interposto tra lui e la morte.
Se
c'era un dio da qualche parte in quell'immenso universo, stava
sicuramente guardando lui.
Non
doveva sprecare la sua fortuna! Se era sopravvissuto al dolore
dell'incidente di Clara, e anche al cataclisma che aveva colpito il
laboratorio, avrebbe lottato per sopravvivere ancora.
Appoggiandosi
allo spigolo della teca, un po' alla volta si alzò in piedi.
Ondeggiò, con la testa che gli girava, la vista annebbiata e
il
cuore in gola per lo sforzo. Le gambe gli tremavano da matti e per un
momento temette che non l'avrebbero retto. Le sue dita si contrassero
sul vetro, e l'angolo si piantò dolorosamente nella carne.
Strinse i
denti, ma non cedette.
E
piano piano il battito si calmò, la vista si
schiarì, la testa
smise di girare e le gambe si fecero più sicure.
Mentre
riprendeva fiato e si preparava per il prossimo passo, cioè
tentare
di camminare, osservò meglio il laboratorio. I banconi erano
ricoperti di strumentazioni di varie tecnologie, tutte spente, alcune
evidentemente rotte o addirittura in pezzi. Lungo un lato c'era una
fila di grossi armadi e un appendiabiti da cui spenzolava un camice.
Perfetto! Almeno avrebbe avuto qualcosa da mettersi! Non gli avrebbe
tenuto caldo, probabilmente si sarebbe capito che sotto non portava
nulla, ma era sempre meglio di niente.
Decise
però di guardare in tutti gli armadi e nei cassetti di tutti
i
banconi, alla ricerca di oggetti che potessero essergli utili.
Ogni
cosa, come aveva già notato in precedenza, era ricoperta da
uno
strato piuttosto spesso di polvere, mista a calcinacci. Tutto il
locale aveva l'aria di essere abbandonato da anni.
Oh
beh, si disse per cercare di farsi animo e contrastare il senso di
sconforto che lo stava pervadendo, almeno così nessuno si
lamenterà
se mi porto via qualcosa!
Con
calma, concentrato, mosse un passo, senza lasciare andare del tutto
la teca. Barcollò, ma si sentiva abbastanza stabile.
Lasciò lo
spigolo, e rimase in piedi da solo. Ondeggiò un attimo ma si
riprese. Spostò il piede in un altro tentennante passo. Poi
un altro
ancora. E alla fine si stava muovendo in giro per il laboratorio
quasi con scioltezza.
Dopo
aver indossato il polverosissimo camice si diede da fare per
esplorare lo spazio che lo circondava alla ricerca di qualsiasi cosa
gli fosse utile.
Il
primo armadio si rivelò pieno di supporti di memoria
ricoperti
dall'onnipresente polvere. Nel secondo c'erano pezzi di ricambio per
i macchinari rotti, insieme ad una cassetta degli attrezzi dalla
quale prese un grosso cacciavite e le forbici, che intendeva usare
come armi di difesa.
Nel
terzo, camici puliti. Beh, più o meno...impolverati anche
loro.
Le
ante successive erano contrassegnate ciascuna con una targhetta con
scritto “Teca n°...” e un numero da 1 a 4.
Quello che c'era
dentro lo colpì come un pugno. Gli effetti personali suoi e
dei suoi
tre compagni di avventura ora defunti.
Stringendo
tra le dita i propri vestiti fu catapultato ancora una volta nel
periodo di angoscia e dolore tra la morte di Clara e il congelamento.
Da una tasca scivolarono fuori delle foto. Della sua famiglia, dei
suoi amici...di sua moglie.
Gemette
alla vista del suo volto sorridente, e nuove lacrime gli solcarono le
guance mischiandosi con la polvere, imbrattandogliele.
Tirando
su col naso se le asciugò con le mani. Sarebbe mai finito
questo
dolore?
Scosse
la testa come per scacciarlo, e si concentrò sui problemi
presenti.
Rapido indossò i vestiti, che gli andavano molto larghi: era
dimagrito parecchio nella teca! Si infilò le calze e le
scarpe. Poi
guardò nella borsa che era riposta insieme alle altre sue
cose:
niente di utile, solo un portafogli e dei documenti elettronici. La
posò di nuovo nell'armadio.
Nei
cassetti trovò solo scartoffie e un coltello, che
intascò
rapidamente insieme al cacciavite e alle forbici.
Fece
un respiro profondo: non c'era altro, lì dentro, che potesse
servirgli.
Si
mise di fronte alla porta: ovviamente non si sarebbe aperta grazie al
sensore di movimento, che sicuramente aveva smesso di funzionare
molto tempo prima, ma tutte le porte avevano, sul lato che dava verso
l'interno di una stanza o di un edificio, uno sblocco meccanico di
sicurezza per evitare che in caso di guasto le persone restassero
intrappolate. Armeggiò un po' con la scatoletta di controllo
alla
base, e alla fine i due pannelli presero a scorrere di lato,
aprendosi su un corridoio silenzioso, buio ed impolverato come il
laboratorio. Un nuovo respiro. Mosse il primo passo verso l'esterno
ma ebbe un ripensamento.
Tornò
all'armadio, aprì la borsa e guardò i documenti.
C'era scritto il
suo nome lì sopra, un nome che non si era ricordato
finché non
l'aveva visto stampigliato sulla tessera identificativa.
Un
nome che apparteneva a prima,
alla sua vita passata. Che non gli apparteneva più.
Era
rimasto in gestazione in un liquido amniotico per un tempo infinito,
collegato ad una fonte di energia attraverso un cordone ombelicale.
Si era partorito con fatica, lasciando la culla che l'aveva incubato
dopo un lungo travaglio, e, nudo ed inerme come quando era uscito dal
grembo materno, era tornato alla vita.
Rinato.
Gettò
nell'armadio i documenti di quell'altra persona che era stato e con
passo sicuro si diresse verso la porta. Verso la sua nuova vita.
Qualsiasi cosa gli riservasse.
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