No one left I love
Se c'era una cosa di cui Johanna Mason era sicura, era che non voleva
vedere nessuno.
Era passata
appena una manciata di mesi dalla sua vittoria nei Giochi, dal massacro
che aveva operato con le sue stesse mani, mani di assassina, e nessuno
le aveva ancora dato il tempo di metabolizzare. Suo fratello e suo
padre la aiutavano, certo, ma non potevano sapere cosa volesse
dire entrare nell'Arena con altri ventitré ragazzi
ed essere l'unica ad uscirne. Avere ancora il loro sangue addosso ed
essere portati in trionfo come eroi. Doversi fingere implacabili
divinità della guerra, mentre si sapeva di essere solo
macchine di morte, pilotate da qualcun altro.
E ora, per
l'ennesima volta, lo show stava per cominciare. E questa volta aveva
lei come protagonista.
Prima di
partire Johanna aveva passato lunghe ore nei boschi, ad abbattere con
la sua ascia più legna di quanta ne avesse mai colpita. Suo
padre la guardava rientrare con il buio e restava in silenzio. La
osservava, alzando di nascosto gli occhi sul di lei, ma non aveva il
coraggio di dire niente.
La figura
minuta di sua figlia racchiudeva nuovi segreti, troppo oscuri per
essere compresi, e lui se ne stava lentamente rendendo conto. Avrebbe
voluto abbracciarla, camminare insieme a lei nella foresta, farla
sedere sulle proprie ginocchia come faceva quando era piccola.
Ma della
bambina che la sua Johanna era stata ormai non rimaneva più
nulla.
L'unica cosa
peggiore di dover fare da mentore a due ragazzi era sapere che avrebbe
dovuto farlo circondata da Capitolini che scommettevano sulla loro
morte.
Johanna era
già stanca ancor prima di cominciare, stanca di veder morire
i ragazzi dei Distretti, stanca di dover fingere che andasse bene
così. Non andava bene per niente.
Quando l'aveva
incontrato per la prima volta si trovava nella villa del presidente
Snow, stretta in un lungo abito argentato che le impediva di respirare.
All'interno c'era in corso una festa sfrenata in onore della vincitrice
che - oh la gioia
- era proprio lei.
Era riuscita a
sfuggire un attimo alla folla che la seguiva ovunque, agli uomini che
volevano vederla più da vicino e alle donne che la
avvicinavano complimentandosi per il suo stile sofisticato. Come se
solo le fosse importato qualcosa di uno soltanto di loro, delle loro
chiacchiere vuote e delle occhiate lascive. Schifo, quel mondo non le
faceva altro che schifo, ed era addirittura un periodo senza Hunger
Games.
Era scappata
da quella confusione delirante e, nascosta contro un gigantesco
cespuglio di rose, si era finalmente sentita libera di respirare un
po'. Aveva chiuso un attimo gli occhi e aveva cercato di dimenticare
chi era.
«Non
dovresti essere dentro a festeggiare?».
La voce
proveniva dalla sua destra. Johanna si era voltata di scatto, colta di
sorpresa, e si era ritrovata davanti un volto tanto bello quanto noto.
I suoi occhi verde mare spiccavano anche nella penombra, intriganti.
«A
me hanno detto che la festa è in un tuo onore, o
no?».
«Beh,
visto che è la mia festa mi sono presa qualche
libertà».
Il sorriso
languido dell'intruso era rimasto al suo posto, ma i suoi occhi non
avevano nascosto una scintilla di divertimento.
«E
così siamo io e te, qui fuori a goderci la festa».
Odair l'aveva
scrutata da capo a piedi con un'occhiata che avrebbe quasi potuto
spogliarla. Johanna era rimasta a fissarlo, all'erta. Cosa voleva da
lei?
«Sei
una bella vincitrice, Johanna».
E quello cosa
avrebbe dovuto significare? Stava cercando di adescarla e aggiungerla
alle sue conquiste? Non erano né il luogo né il
momento giusto, e Johanna dubitava seriamente che lo sarebbero mai
stati.
«Anche
tu non sei malaccio», aveva replicato.
Sul viso di
Finnick era affiorato un sorriso, sfoderato con la naturalezza della
notorietà.
Poi,
così com'era comparso, era svanito. Il suo sguardo si era
fatto indecifrabile e lontano.
«La
bellezza è un'arma pericolosa, cara Johanna».
Lei era
restata a guardarlo, senza riuscire a capire cosa intendesse.
«A
doppio taglio», aveva aggiunto, recuperando il suo sorriso.
«Bisogna stare attenti a non ferirsi».
Si era
inchinato appena, baciandole il dorso della mano con eleganza, ed era
scomparso all'interno della villa.
Johanna era
rimasta in piedi vicino alla balconata, disorientata. Le parole di
Finnick Odair significavano più di un semplice commento sul
suo aspetto. Erano un avvertimento.
Ma da che cosa?
Nella stanza
le imposte erano sigillate. L'unica luce filtrava da sotto la porta in
uno spiraglio sottile, proiettato sul pavimento scuro.
«Johanna».
Da fuori una
voce entrava ovattata, in un mormorio.
Johanna
nascose il volto con più forza contro le ginocchia. Le
braccia con cui si teneva stretta tremavano contro la sua fronte
fradicia.
Uno spicchio
di luce la investì in pieno, facendola trasalire. Si
raggomitolò febbrilmente nell'angolo tra le pareti,
tappandosi le orecchie con le mani.
Dita
sconosciute si posarono sulla sua spalla, accarezzandola piano.
«Johanna…».
Lei si
voltò di scatto. Scansò con ferocia la mano, con
un verso graffiante.
Puntò
i suoi occhi spalancati contro Finnick, il volto illuminato dallo
spicchio di luce, le lacrime che le scivolavano giù per le
guance paonazze.
«Che
c'è?», ruggì.
Finnick
restò un attimo a fissarla, le mani ancora tese verso di
lei. Tentennò, esitando, in cerca della cosa giusta da fare.
«Johanna…».
«E smettila con quel
nome!», urlò mentre la voce le si spezzava,
tornando a nascondere il volto tra le braccia. «Lo so come mi
chiamo!».
Finnick
tacque. Non c'era niente che potesse dire per migliorare le cose.
Con un
sospiro, si sedette accanto a Johanna. Lei tremava, scossa da
singhiozzi silenziosi che si ostinava a soffocare contro le ginocchia
strette al petto.
Alla fine,
arrivò ad un punto in cui non riuscì
più a mantenere quell'ultima facciata. Tra un singhiozzo e
l'altro si fecero strada i lamenti, con la voce spessa per il pianto.
«È
stata colpa mia», mugolò contro le ginocchia.
Iniziò ad affondare le unghie nella carne delle gambe.
«Colpa mia, colpa mia, colpa-».
«Sssh»,
sussurrò Finnick, prendendola fra le braccia.
«Ssh».
Johanna
dondolava piano contro il suo petto, senza smettere la sua nenia. Le
parole si fusero con i lamenti e diventarono un urlo, che partiva dal
petto ed sgorgava senza sosta. Finnick chiuse gli occhi, il grido di
Johanna nelle orecchie e sul suo petto e ovunque intorno a lui in
quella stanza scura.
Dopo aver
frenato quell'urlo, anche i singhiozzi rallentarono. Sentì
che pian piano il ritmo del suo respiro si regolarizzava, mentre lei
sembrava farsi più piccola nella stretta delle sue braccia.
«Finnick»,
sussurrò alla fine con un filo di voce.
Lui
chinò subito la testa accanto alla sua.
«Dimmi».
«Finnick…
è stata colpa mia».
Un sospiro.
«Devi smetterla di-»
«È
stata colpa mia. Li hanno uccisi per colpa mia…».
La voce le si spense in un singhiozzo, e Finnick attese in silenzio.
«Me l'avevi detto. Mi avevi detto di stare attenta,
alla… alla festa di Snow, ma io…». Un
altro singhiozzo. «Io non ti ho ascoltato, e
adesso…».
Per un attimo
sembrò non riuscire ad accettarlo.
«E
adesso sono morti», concluse seppellendo il volto nel
maglione di Finnick, stringendo forte la lana tra le dita.
Lui la
abbracciò più stretta, passando su e
giù le mani sulla sua schiena. Temeva che sarebbe potuta
andare a finire così. Johanna era troppo fiera, troppo
orgogliosa per cedere alle richieste di Snow, e troppo ribelle per non
diventare un bersaglio del suo governo.
Dopo un po',
la vide riemergere dalla sua stretta. Aveva gli occhi gonfi e le gote
graffiate, ma non singhiozzava più. Qualche lacrime scendeva
ancora dalle ciglia, in silenzio.
«Ma
la sai una cosa, Finnick?». Sorrise senza entusiasmo.
«Hanno fatto uno sbaglio».
Tirò
su con il naso, pulendosi il volto dalle lacrime con le maniche della
maglia.
«Avrebbero
dovuto risparmiare qualcuno. Ucciderli un po' per volta, ad ogni mio
rifiuto».
Guardò
di lato mentre la luce le illuminava il volto, come se avesse potuto
vedere le figure dei suoi cari comparire sulla sagoma di quella porta.
«Adesso
non hanno più niente con cui ricattarmi».
Incontrò lo sguardo di Finnick, e lui vide l'amarezza sul
suo volto. «Non mi è rimasto più
nessuno a cui volere bene».
Il letto
d’ospedale dov’era confinata era scomodamente
rigido.
Johanna era
immersa fino al naso sotto le ruvide coperte della sua stanza, con il
sacchetto di aghi di pino ancora tra le mani, stretto al petto. Non
aveva realizzato quanto le fosse mancato il Sette fino a che non ne
aveva sentito di nuovo il profumo.
Ci mancava
solo la nostalgia di casa. Tipico di Katniss, venire a scombinare le
cose proprio nei momenti peggiori.
Tuttavia,
doveva ammettere - e le costava non poco - che il suo era stato un
gesto premuroso. E che, tutto sommato, le faceva piacere sentire vicini
i boschi del Distretto.
Gale se
n’era appena andato. Era passato a salutarla, o perlomeno a
rendere nota la sua imminente partenza per Capitol City.
Johanna era
scivolata lentamente sotto quelle coperte, chiudendo gli occhi,
cercando di sgombrare la mente. Sarebbe andato tutto bene. Tutto bene.
Preoccuparsi era ridicolo.
Se
l’era ripetuto finché non le era venuta la nausea.
Li odiava i bugiardi, lei.
Il terzo colpo
alla porta di quella giornata l’aveva fatta ridestare. Era
convinta di non attendere la visita di nessuno, ma quando la porta si
era aperta piano, si era resa conto con orrore che se lo sarebbe dovuto
aspettare, dannazione.
Perché
nessuno lì intorno, nessuno a parte lei, voleva vedere Snow
morto quanto Finnick.
L’aveva
guardato mentre entrava in silenzio, un’espressione
dispiaciuta sul volto. Si era seduto sul ciglio del letto, vicinissimo
a lei, e Johanna aveva sperato inutilmente che cambiasse idea e si
spostasse da lì. La vicinanza la faceva sentire vulnerabile.
«Come
stai?».
«Da
favola, mi sembra di essere in villeggiatura. Che ci fai
qui?».
Finnick aveva
abbassato lo sguardo, chinando il capo. Si sentiva in colpa?
«Senti,
Jo, io-».
«Volete
farvi ammazzare, vero?», sbottò lei, scatenando la
sorpresa di Finnick. «Ditelo e basta, no, che state cercando
un modo eroico per tirare le cuoia».
Lui era
rimasto per un attimo senza parole. «Non eri tu quella che
voleva venire a
prendere personalmente a calci nel culo Snow? Me lo sono
sognato?». L’aveva inchiodata con il suo sguardo
chiaro. «Lo sai benissimo che adesso non puoi rifilarmi
queste storie».
Johanna aveva
sbuffato, spazientita. «È vero, l’ho
detto, e allora? Non potete prendere e andarvene via mentre io resto
qui a marcire!».
«Non
ci puoi venire a Capitol City! Devi fartene una ragione!».
«E
restare a guardare mentre morite? Non posso!». Finnick
l’aveva guardata e lei aveva sentito le lacrime pizzicare
agli angoli degli occhi, quelle bastarde. «...Non
posso».
Lui aveva
sorriso appena, posandole una mano sulla spalla coperta dal lenzuolo.
«Cosa
ti fa pensare che moriremo?».
Johanna si
schiarì la voce prima di parlare. «Il fatto che
non ci sia io a salvare le vostre povere chiappe».
Finnick rise e
le accarezzò i capelli scuri, che iniziavano pian piano a
ricrescere.
«Ehi,
non vado da nessuna parte. Quando sarà tutto finito
tornerò qui e ti ripeterò con estremo gusto la
mia frase preferita».
Johanna,
malgrado tutto, increspò le labbra in un sorriso. «Roba che scotta in arrivo?».
«No».
Le baciò la fronte. «Te l’avevo detto».
Si
alzò e si diresse verso la porta. Johanna si chiese con che
parole fosse riuscito a convincere Annie che non sarebbe morto a
Capitol City.
Quando si
voltò a salutarla, in piedi sull’entrata, era
bello come non lo vedeva da tempo. I suoi occhi verdi sprizzavano vita
anche a quella distanza, da quel letto d’ospedale da cui lo
osservava.
«Finnick…»,
iniziò a dire.
«Sì?».
Johanna
sospirò. «Te lo dico quando torni».
Era una fredda
giornata d'inverno.
Johanna era
seduta sul divano, avvolta da una coperta pesante. Si sentiva la
pioggia picchiettare sulle finestre nel silenzio della stanza. Gale,
seduto di fianco a lei, la stringeva al suo petto con un braccio
intorno alle spalle.
A volte
capitava che passassero ore in silenzio. C'erano giornate in cui il
passato tornava a fare visita, e non era così facile
rinchiuderlo nel posto da dov'era venuto.
«Non
gliel'ho mai detto».
Il mormorio di
Johanna aveva rotto il silenzio. Era l'anniversario della morte di
Finnick.
Gale ascoltava
in silenzio, in attesa.
«Non
so perché ho aspettato». Fece un sorriso amaro,
come per commentare quella scelta. «Forse pensavo che avrebbe
avuto un motivo in più per tornare a casa».
Gale le
baciò la guancia. Lei aveva il rimorso di non aver tentato,
e lui quello di aver osato troppo.
La pioggia si
tramutò in temporale. Rimasero ad ascoltare i tuoni, mentre
nella casa scendeva di nuovo il silenzio.
«Cosa
volevi dirgli?», chiese Gale alla fine, le labbra contro la
sua tempia.
Johanna
sospirò. Finnick era morto da tempo, ormai. Non sarebbe
tornato bussando alla sua porta, affermando te l'avevo detto.
Non poteva conservare quelle parole in attesa che lui venisse a
sentirle.
Si strinse le
ginocchia al petto. «Che gli volevo bene».
Gale rimase
spiazzato per un attimo, poi le accarezzò piano i capelli.
«Sono
sicuro che lo sapeva già».
«L'ultima
volta che ne abbiamo parlato avevo detto che non mi era rimasto
più nessuno a cui volere bene». Lo sguardo di
Johanna era perso nel vuoto davanti a sé. «Volevo
solo che sapesse che non era più così».
Gale la
fissò in silenzio. «Hai sempre considerato l'amore
come una debolezza, vero?».
«Dopo
che hanno ucciso quelli che amavo, sì».
Johanna
conosceva un'altra persona che la pensava così. E non
smetteva di stupirsi quando pensava che, in un modo o nell'altro, tanto
lei quanto Katniss avevano trovato il coraggio di crederci un'ultima
volta.
Come cosa
aveva dell'incredibile, dopotutto. O forse solo del masochistico.
Gli occhi
grigi di Gale erano fissi nel suoi. Johanna aveva due parole sulla
punta della lingua, ma non era sicura di riuscire a pronunciarle.
Il ricordo di
Finnick si fece strada prepotente nella sua mente. Sapeva cosa avrebbe
voluto che lei facesse. L'avrebbe voluta vedere crescere e migliorare.
Avrebbe voluto che lei vivesse anche per lui. Perché Finnick
era così, una vita sola non sarebbe bastata per l'energia
che irradiava.
Gale lo sa già,
si disse. Tentò di convincere se stessa, ma senza risultato.
Sapeva di non voler rischiare un altro rimorso.
Tirò
fuori una mano dalla coperta e attirò a sé il
volto di Gale. Nascose le labbra contro il suo collo e parlò
in un sussurro, come se l'avesse voluto dire solo per se stessa.
Gale sorrise,
rispondendo nel suo orecchio, e lei non si sentì debole come
temeva.
In
realtà, solo più forte.
Finnick, nei
suoi ricordi, la guardava un'ultima volta prima di partire, con gli
occhi che brillavano.
Le
scappò una lacrima, mentre sorrideva sulla spalla di Gale.
Se n'era finalmente resa conto, o forse lo accettava solo allora.
Te
lo dico quando torni.
Finnick lo
sapeva, la conosceva da una vita. Non aveva bisogno di sentirlo.
L'aveva sempre
saputo.
__________________
Workinprogress
al rapporto
Non
riesco a credere di aver finalmente finito questa storia.
Amo scrivere
di Johanna, e amo scrivere di Finnick. Ma questa fic? Oh, questa qui
è stata un'impresa. Non perché mi mancassero le
parole, ma perché mi rattristava troppo.
Spero di non
aver fatto rattristare troppo anche voi, e che anzi vi sia piaciuta.
La frase che
pronuncia Johanna, 'Non
mi è rimasto più nessuno a cui volere bene',
è una citazione di Catching Fire, quando si offre di andare
nella zona in cui c'è stato l'attacco delle ghiandaie
chiacchierone.
Titolo
più che banale, lo so. Non sono riuscita a farmi venire in
mente niente di meglio, purtroppo.
Che
dire? Di nuovo, spero che vi sia piaciuta, e scusate se compaio e
scompaio a intermittenza. Purtroppo la costanza non è
esattamente uno dei miei pregi, lo ammetto.
Un bacione grande a tutti,
wip
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