Title:
One last happy moment
Author: Lore (minako;)
Pairing: Ran Mouri/Shinichi Kudo
Fandom: Detective Conan
Rating:
Arancione
Note:
wow, quanti commenti XD più
che altro mi fa piacere di averne ricevuti perchè in fondo non è un lavoro
cortino e privo di impegno, perciò vedere che interessa mi da un motivo in più
per continuarla con passione! Perciò grazie a:
rannina4ever
feferica
Ayumi Yoshida
youngactress
white_shadows
Mimiana
totta1412
E a chi ha aggiunto la
raccolta fra i preferiti: accie’!!
1 -
akane_val
2 -
claudiaap
3 -
evechan
4 -
feferica
5 -
Mimiana
6 -
totta1412
7 -
youngactress
Ma ora parliamo di questo
terzo capitolo, che mi ha causato un po’ di problemi. Come vedete su c’è un
bollino arancione, quindi per la prima volta
mi sono dilettata a scrivere qualcosa di un po’… bo, come si dice in certi casi?
Hot? XD No, a parte gli scherzi, non è niente di pornografico, però c’è qualche
scena spinta. Per cui attenscione attenscione ** Niente alla Rocco Siffredi, ma
tant’é che mi devo attenere al regolamento e avvertirvi *sisi* Spero gradirete,
perché ho sudato sette camice per questo coso <3
twentylovemoments
s h i n i c h i • r a n
[03] one last
happy moment
Lanciai
un’occhiata sbieca al ragazzo seduto malamente sul divano di fronte a me.
In quella sala
nella quale ognuno era impegnato in qualche distrazione leggera, lui era l’unico
a rimanersene seduto con le braccia incrociate, con sguardo misto fra il nervoso
e il furente.
La ragione per
quell’espressione corrucciata e agitata era che il giorno dopo avrebbe
affrontato…
Scossi la
testa, tornando con l’attenzione al mio libro. Peccato che lo tenessi aperto da
più di quindici minuti sulle stesse pagine. Sospirai, e sentii accanto a me mia
madre e Kazuha irrigidite quanto me.
Vane erano
state le richieste a quei testardi di Shinichi, Hattori-kun e papà di rimanere
qui, in questo albergo per lasciare il lavoro all’FBI e alla polizia americana e
giapponese. Ma tutti si erano opposti, e quanto mai noi tre eravamo in collera
con i rispettivi… bè, penso “compagni”, anche se non era il termine più
appropriato.
L’unica in
quella sala a non essere nervosa, tuttavia, era la bella donna bionda seduta a
Yusako Kudo, che sfogliava distratto un vecchio libro di gialli. Benché anche
quest’ultimo avesse intenzione di partecipare alla missione per mettere fuori
gioco l’Organizzazione, sua moglie Yukiko non pareva terrorizzata come me,
Kazuha-chan e mamma. Ma probabilmente era tutta scena: più volte quella sera,
infatti, avevo notato che lanciava occhiate ansiose sia a suo marito, sia a
Shinichi, svogliato a guardare la televisione in quella sala deserta se non
fosse stato per noi.
Sulla mia sedia
scomoda ripensai agli avvenimenti che mi avevano portato a scoprire l’identità
di Shinichi, esattamente una settimana prima.
Era stato
inevitabile: vederlo trasformare di fronte a me aveva portato a galla tutto, e
di conseguenza ci era stata detto a tutte la verità. Anche perché sarebbe stato
scomodo, magari una volta tornati dallo scontro con quegli uomini, spiegare il
perché tutti erano feriti e per colpa di un grosso colpo che sarebbe stato
riportato di sicuro sui giornali. Perciò eccoci lì, tutte consapevoli della
storia.
Abbassai lo
sguardo, triste. Non mi importava molto delle menzogne che Shinichi mi aveva
raccontato, quanto al fatto che il giorno dopo, perciò solo qualche ora da quel
momento nella quale sedeva dinanzi a me, sarebbe stato in pericolo di vita.
Tirai su col
naso, attirando l’attenzione di tutti, tranne del mio migliore amico, il quale,
stringendo con rabbia il telecomando nella sua mano, si immobilizzò.
Ebbene sì,
avevamo litigato furiosamente. Non avevamo mai bisticciato così, eppure era
successo.
Mi ero
attaccata con lui per cercare di distoglierlo dall’andare contro quegli uomini
in nero, e la situazione era degenerata, così da farmi uscire di senno, e
sputargli addosso cattiverie senza nemmeno pensarci.
Bugiardo;
insensibile; cattivo amico; ti odio.
Ecco cosa gli
avevo detto, ecco perché era in collera con me. Eppure quelle cose non le
pensavo, non le pensavo! Ma in quel momento adrenalinico, dove lui testardamente
aveva deciso di andare a farsi ammazzare, ero impazzita. E vederlo lì, così
bello e di nuovo nella mia vita, senza che mi degnasse di uno sguardo mi
sbriciolava il cuore. E il mio cuore di cose ne aveva dovuto sopportare.
Oh, il mio
Shinichi.
Eccolo là, così
meraviglioso, così… così… il mio Shinichi…
Era troppo forte la voglia che avevo di averlo accanto a me, portarlo
abbracciare, baciare, proteggere…
Proprio quando
alzò lo sguardo e i suoi occhi incontrarono i miei, gemetti sottovoce. Strinsi
le mani sul libro, e cercai di tenere gli occhi ben ancorati ai suoi, provando a
non distogliere lo sguardo.
Pensai che se
non l’avessi fatto io, probabilmente avrebbe cambiato direzione visiva lui, ma
non accadde. Continuò a fissarmi intensamente, e solo dopo parecchio con un
sospiro si alzò in piedi, interrompendo quel contatto.
«Vado a
dormire. Ci vediamo domani mattina», mormorò e, infilandosi le mani nelle tasche
dei jeans scuri, si avviò verso l’ascensore. Tutti lo fissammo infilarsi
all’interno e sparire silenziosamente all’interno di quella cabina.
Fu allora che
mi resi conto che forse quelli erano gli ultimi sereni momenti per parargli, per
fare pace. Così, mormorando che avevo sonno, presi le scale e corsi verso il
terzo piano, dov’erano le nostre stanze. Inutile dire che, dietro di me, sentii
gli sguardi di tutti mentre facevo la prima rampa.
Col fiatone,
feci quei gradini di corsa, rischiando più volte di cadere. E quando infine
arrivai al terzo piano, notai appena in tempo la porta della stanza più lontana
chiudersi con una botta.
Prendendo
coraggio, mi avvicinai e, una volta calmato il respiro, bussai.
Alcuni passi
moderati all’interno mi fecero sobbalzare il petto e, infine, mi ritrovai
Shinichi davanti.
«Che c’è?»,
domandò freddamente. Feci un passo avanti.
«Ti devo
parlare».
«Non credo»,
fece per chiudere la porta, ma Ran lo intercettò e, con tutta la forza che
aveva, la spalancò, guadagnandosi da lui un’occhiata fulminante.
«Invece sì. Mi
dispiace okay? Mi dispiace di averti insultato, mi dispiace di averti detto
quelle cose! Ci sto male a vederti così con me, soffro sapendo che domani andrai
là e rischierai la vita!», gli sputai in faccia facendolo arretrare, trovandomi
così dentro la camera.
«Ti prego,
perdonami, Shinichi, ti supplico», iniziai a singhiozzare. «Potrebbero essere
gli ultimi momenti da passare insieme, e non voglio che siano così!».
Fissai smarrita
i suoi occhi, che non si staccavano dal pavimento: sembrava titubante.
«Shinichi?», lo
chiamai, avvicinandomi a lui.
«Mi hanno fatto
male le tue parole», dichiarò, finalmente fissandomi. Trattenni il respiro per
un po’, per poi, con le lacrime che mi bagnavano il volto, dirigermi verso la
porta aperta. Ma prima di poter uscire, un braccio sbucò all’improvviso alla mia
sinistra, afferrando la maniglia della porta per poi chiuderla con una botta
secca. Stupita e anche un po’ spaventata, mi voltai e in quel momento Shinichi
mi intrappolò nei suoi occhi blu.
«Pensi davvero
quelle cose? Quelle cose che mi hai detto?».
«No», mormorai
con un filo di voce.
«E perché me le
hai dette, eh?».
«Oh, Shinichi!
Ero sconvolta, fuori di me! Come puoi credere che pensi davvero quelle cose?»,
chiesi sperando di convincerlo. Ma lui con un gemito disperato si allontanò da
me, portandosi una mano alla testa.
«Non lo so,
Ran, io sono solo confuso», sospirò chiudendo gli occhi. Lui era in pericolo di
vita; la nostra vita insieme era in pericolo. E in quel momento sentii
l’urgenza di abbracciarlo, baciarlo, tenerlo stretto a me almeno per quei
momenti prima di scoprire se potevano costruirci qualcosa.
Perciò, come un
automa, mi avvicinai a lui e, strattonato piano per la camicia, una volta che si
voltò gli presi il volto fra le mani e posai le mie labbra sulle sue.
La prima cosa
che pensai fu che erano veramente dolci: dolci e morbide.
La seconda cosa
che pensai, invece, fu che lo volevo almeno per quella notte. Sapere che non mi
sarebbe sfuggito, sapere che avrei potuto stargli accanto quanto volevo, almeno
per quella notte. Non mi importava niente se lui non mi amava, se in quel
momento trovava ripugnante baciarmi. Quel desiderio era troppo forte per essere
soffocato, così che disperata gli circondai il collo con le braccia.
Mi stupii non
poco poi, quando, stringendomi la vita rispose impetuosamente. Talmente
impetuosamente che, nell’atto di starmi più vicino, indietreggiai e caddi
rovinosamente sul letto, mentre lui mi seguiva. Prese e sospirare sul mio volto,
accarezzandomi una mia guancia bollente, mentre lo tiravo ancora verso di me.
«Shinichi», mormorai sul suo volto, mentre riprendeva a baciarmi le labbra più
teneramente, cercando di non schiacciarmi col peso del suo corpo.
Le sue labbra
sulle mie erano qualcosa di… di…
E pensare che
stavo baciando Shinichi, proprio lui, mi fece scoppiare il cuore nel petto così
vicino al suo. Quindi… lui mi amava? O stava assecondandomi solo per farmi stare
calma?
Ma quando
incrociò il mio sguardo, mentre mi accarezzava i capelli, seppi che non era
così: i suoi occhi blu, così profondi e belli, splendevano nei miei.
A quel punto
lasciarlo andare il giorno dopo sarebbe risultato ancora più doloroso.
Ma in quel
momento non mi importava niente, avevo in testa solo il fatto che lui mi stesse
tenendo così vicina a lui mentre mi accarezzava e mi baciava.
«Ti amo».
Quasi non mi
accorsi neppure quando gli sussurrai all’orecchio quelle parole, perché fui
subito presa dalla sua fugace risposta.
«Anch’io».
Fu in
quell’istante che, letteralmente, mi sentii mancare; mi aveva davvero replicato
così?
Felice oltre
ogni immaginazione, sentii avvolgermi da un calore profondo, mentre lacrime di
felicità mi colavano sul volto. Lui parve accorgersene, perché in un attimo si
allontanò da me, lasciandomi da sola e infreddolita all’improvviso senza il suo
corpo accanto al mio su quel materasso.
Smarrita mi
misi a sedere sul letto, guardandolo preoccupata. Che avevo fatto?
«C-che ho
f-fatto?», riuscii a balbettai infelice. Lui gemette frustrato.
«Niente.
Semplicemente niente Ran, ma… è sbagliato».
«Sbagliato
cosa?», domandai non riuscendo a seguire il filo del discorso.
«Sbagliato che
sei qui, sbagliato ciò che stavamo facendo».
Mi sentii
mancare, mentre gesticolava quelle parole insensate. Che stava dicendo?
«Ran, tu mi
dovresti odiare. E so che lo fai, so che da quando hai saputo di me e
Conan mi odi. Perciò non trovo giusto che solo per farmi cambiare idea per
domani tu faccia simili cose che non vuoi».
«Ancora con
questa storia? Ti ho chiesto scusa, dannazione, ti ho chiesto scusa!», quasi
gridai, stavolta piangendo di umiliazione per essere stata respinta per quella
ragione.
«Sei uno
stupido, Shinichi Kudo, e non capisci niente!», gridai alzandomi di botto in
piedi, per poi andare verso la porta e aprirla con un tonfo sordo, mentre mi
dirigevo a grandi falcate verso la porta della mia stanza. Ma qualcosa, una
mano, mi afferrò un braccio e mi impedì di proseguire.
«Che c’è?! Io
ti odio, no, Kudo?», chiesi voltandomi gelida, sotto il suo sguardo perso.
«Quelle parole
me le hai dette, Ran, e io non posso dimenticarle!», mi sbraitò contro.
Perfetto. La seconda litigata in così poco tempo. Ormai avrei potuto dire addio
all’amicizia o a quel che c’era fra noi.
«Fa come
diavolo vuoi!», singhiozzai liberandomi dalla sua stretta e afferrando le chiavi
della mia camera nella tasca dei miei jeans. «Fa come vuoi», ripetei
frastornata, tirando maleducatamente su col naso. Ma ero troppo tremolante e
scioccata per beccare il buco della serratura, così che, dopo alcuni secondi a
innervosirmi, non resistetti e mi accasciai per terra. Le mani ancora sulla
maniglia e la testa buttata giù, con il dolore che mi soffocava.
«Ran…».
«Vattene»,
soffiai, continuando a piangere. Sentii le sue mani calde liberare le mie da
sopra la maniglia, e poi il suo petto contro la mia schiena a cingermi contro di
lui in una morsa titubante.
«Mi dispiace»,
ammise con la testa sui miei capelli. «Mi dispiace, so che non pensi quelle
cose…».
«Allora perché
continui a battere ferro?», chiesi amareggiata, il suo respiro irregolare sui
capelli.
«Non lo so,
forse perché voglio stare male… sapere cosa ti ho sempre fatto patire… vorrei
solo passarci anch’io per pagare ciò che ti ho causato».
Mi morsi un
labbro, per poi girare il volto verso di lui.
«Mi ami?»,
chiese con un filo di voce, perdendomi nuovamente in quei suoi occhi così
azzurri.
«Sì», deglutì
teso.
«Allora ti
prego», lo implora, accarezzandogli i capelli. «Ti prego, non respingermi».
Notai la sua
insicurezza quando tenne rigido il suo sguardo nel mio. Poi,dopo quello che mi
parve un secolo, mi passò una mano sotto le gambe e una sulla schiena, tirandosi
in piedi con me in braccio.
«Come potrei
respingerti di nuovo dopo aver sofferto così tanto la prima volta che l’ho
fatto?», mi chiese cauto, rientrando in camera. Lì, dopo avermi adagiato sul
letto, spense le luci e lo sentii sdraiarsi accanto a me. Fra di noi calò
silenzio.
«Shinichi?».
«Mmm?».
«Ti ricordi
quando da bambini dividevi sempre la merenda con me?».
Non rispose,
probabilmente perso a ricordare.
«Perché lo
facevi?», domandai. «In fondo, io avevo la mia. Eppure ogni volta mi davi metà
della tua».
Che domanda
idiota. Eppure lui dovette trovarla interessante, perché ci rimuginò su per un
po’.
«Non lo so»,
mormorò. «Eri sempre così pallida… avevo paura che la tua non ti bastasse».
Mi misi su un
fianco, appoggiando la testa al suo petto.
«Shinichi?».
«Sì?».
«Pensi che un
giorno riusciremo a stare davvero insieme?».
Mi strinsi al
suo petto di più, chiudendo gli occhi dopo aver posato l’orecchio vicino al suo
cuore, che a quella mia domanda cominciò a battere irregolarmente.
«Sì, lo penso».
Il suo cuore
rallentò piano piano, fino a tornare regolare. Il suo profumo, così famigliare,
mi avvolgeva in un abbraccio dolce. Stordita da quella sensazione, alzai la
testa, guardando il suo volto nella semi oscurità della camera, nella quale
l’unica luce proveniva dalle tende non chiuse bene sul fondo della stanza.
Anche lui prese
a guardarmi, e ricominciò ad accarezzarmi la guancia. Così estasiata da quel
tocco, mi alzai un poco sul gomito, accarezzandogli il petto. E, non so come,
dopo alcuni secondi mi ritrovai a baciarlo di nuovo con cautela, forse ancora
spaventata che potesse scomparire. Ma ben presto, quando mi abbracciò e si mise
sopra di me, risposi sicura alle sue labbra che si impossessavano delle mie con
tenerezza.
Le mie mani,
avvolte dietro al suo collo, gli solleticavano la nuca, dove alcuni ciuffi di
cappelli si impigliavano nelle mie dita. E, mentre le sue labbra vagavano verso
il mio collo, chiusi gli occhi cercando di non pensare al domani, ne a dove
saremmo arrivati quella notte. Non mi importava niente se era pericoloso, ne se
ci sarebbero state conseguenze.
In
quell’istante riuscii solo e slacciargli i bottoni della camicia, e buttarla da
qualche parte sul pavimento, con la sue mani che si muovevano sul mio volto
accaldato. Lo abbracciai più forte, sospirando nell’incavo del suo collo nel
mentre in cui mi accarezzava i fianchi. Leggermente, passai una mano sulla sua
schiena, sentendolo rabbrividire. Perciò tornò sulle mie labbra, posando il suo
naso sul mio con dolcezza.
«Se ojisan
dovesse entrare ora», iniziò con la voce un po’ affannata, «penso che mi farebbe
in poltiglia».
Risi piano
sulla sua guancia, per poi staccarmi mentre faceva scivolare via la mia maglia.
Intimidita, mi strinsi al suo petto, cercando di non farmi troppo vedere da lui.
Ma poi mi ricordai delle terme, e lì avvampai.
«Ti stai
surriscaldando, mi devo preoccupare?».
Ridacchiai,
strofinando la mia testa contro il suo petto, le mani sulle sue spalle larghe.
«No, penso sia
normale. Almeno credo…».
«Se prendi
fuoco in corridoio c’è un estintore», sentii un sorriso nella sua voce.
«Se parli
ancora ho un calzino nei piedi da metterti in bocca», replicai. Lui soffocò una
risata fragorosa, per poi scendere verso i miei piedi.
«Ah, davvero?»,
chiese giocoso, afferrandomi per i piedi. Mi lasciai sfuggire un riso, strozzato
da una mano che mi portai sulle labbra. In un batter d’occhio mi levò i calzini,
e leggermente mi fece il solletico ai piedi, facendomi sobbalzare divertita.
«Mollami!», lo
intimai, mettendomi a sedere sul letto. Vidi il suo sorriso sbieco grazie alla
luce sottile che aveva su metà volto.
«S-shinichi»,
risi mentre, poi, si mise a gattonare verso di me con sguardo furbo. La voglia
di ridere era troppo forte, così che cercai in ogni modo di soffocarla. E lui mi
aiutò, baciandomi entusiasta.
Le mie mani,
come mosse da un’altra entità, si ancorarono ai suoi fianchi, accarezzandoli
delicatamente.
«Ora mi sembra
che a surriscaldarti sia tu», gli bisbigliai all’orecchio, quando sentii il suo
volto bollente appoggiarsi al mio collo. Parve non gradire quella battuta,
perché poggiò le mani alle mia schiena e bruscamente si girò, facendo finire me
sopra di lui.
«Baka», mi
lasciai sfuggire, dandogli un pugnetto leggerlo sul petto. Sogghignò.
«Se non stai
zitta, ti infilo un calzino in bocca», cantilenò. Feci una smorfia.
«Chissà da
quanto non te li lavi, io non te li levo».
«Impertinente!», soffiò e con una spinta tornò sopra di me. Scossi la testa.
«Guarda che
chiamo papà», lo minacciai.
«Provaci», mi
sfidò, accarezzandomi lentamente la pancia.
«Ci provo?»,
cercai di resistere alle sue mani che salivano e scendevano intorno al mio
ombelico.
«Così ti giochi
tutto, e ti becchi un mio calzino in bocca».
«Che schifo,
no!».
Con un sorriso
riprese a baciarmi con vigore e, decisamente insicuro e titubante, posò le mani
sui miei jeans. Nascondendo il mio volto scarlatto nel suo petto, deglutii
quando piano me li sfilò. In quel momento, penso che la voglia di ridere e
scherzare si dissolse in un lampo, e il desiderio dei suoi baci e delle sue
carezza divenne un peso insostenibile. Sospirando impaziente, mi baciò ancora
facendomi stordire, fino a quando non mi aggrappai ai suoi pantaloni, per poi
toglierli con mani tremanti. Il calore su tutto il mio corpo a contatto col suo
mi frastornò così tanto da farmi chiudere gli occhi con foga, mentre mi baciava
la pancia. Poi non riuscii più a formulare nessun pensiero: in un attimo,
ancorata al suo collo, dopo avermi levato gli ultimi indumenti, riuscii solo a
dirgli che l’amavo.
***
«Allora, fate
attenzione».
Yukiko Kudo
guardò suo figlio e suo marito, mentre si infilavano i giacconi pesanti e
ricambiavano il suo sguardo stranamente preoccupato con un sorriso tiepido. Poco
lontano da loro, Eri Kisaki guardava sulle spine Kogoro, che le lanciava
occhiate titubanti.
«Andrà tutto
bene», la rassicurò suo marito, abbracciandola dolcemente. Aggrappandosi a lui,
cercò di auto convincersi. Dopo quello che le sembrò veramente poco tempo, si
ritrovò lontana da lui.
«Mamma».
Yukiko si voltò
verso Shinichi, il quale si avvicinò stanco a lei. «Fammi un favore, ti prego»,
le mormorò in un orecchio. Lei alzò un sopracciglio.
«Dopo va in
camera mia», le diede le sue chiavi. «E fa in modo che Eri non si accorga di
niente».
Confusa, Yukiko
guardò il figlio senza capire. Lui sorrise appena.
«Grazie»,
bisbigliò, dopo averle dato un fugace bacio sulla guancia. Poi, stanco e con gli
occhi circondati da occhiaie pesanti, affiancò Heiiji, che salutava per
l’ennesima volta una Kazuha che non faceva che ricordargli di tenere il loro
amuleto proprio sul cuore.
«Te lo devi
tenere lì! E non la in basso!», ripeté esasperante, facendolo sbuffare.
«Se è lungo lo
spago come faccio a tenerlo lì?!».
«Te lo tieni
con una mano!».
«Mi sembra
logico, con un matto alle spalle pronto ad ammazzarmi io mi tengo questo diavolo
di coso sul cuore!».
Shinichi scosse
la testa, per poi guardare di soppiatto Kogoro al suo fianco.
«Ran non è
venuta a salutarci…», notò con disappunto. Shinichi sospirò, aprendo la porta
per uscire
«E’ solo
stanca», mormorò, ma lui non lo sentì. Quindi, col cuore in gola, si buttò in
quella mattina fredda. Sarebbe sopravvissuto? Non lo sapeva. Ma almeno aveva il
profumo di Ran impregnato addosso ad addolcirgli quella pericolosa giornata. |