Portagioie di tristezza | 1
Ad una
delle mie migliori amiche piace definirmi 'crudele', e dice che sarei
un ottimo serial killer – questo perché, secondo lei, sono
bravissima ad uccidere senza alcuna pietà le aspettative e i sogni
della gente. Se questo si rivelasse vero, allora potrei avere un
futuro come giudice nei talent show. In realtà, io credo che la mia
carriera di serial killer avrebbe breve futuro, perché appena
compiuto l'atto me ne pento, e sento l'irresistibile desiderio di
confessare. Perdonate la digressione, ma sento che mi è necessaria
per arrivare al nocciolo della questione: il punto è che quando ho
scritto l'introduzione al precedente capitolo, sapevo già che questo
capitolo, il ventunesimo, sarebbe stato l'ultimo. So che con questa
confessione probabilmente mi starò alienando le simpatie e il favore
di mezzo mondo, ma era qualcosa che non potevo più tenere nascosto.
Tengo
moltissimo a ringraziare le persone che hanno recensito fino a questo
punto, le persone che, in modi o tempi diversi, sono state accanto a
Shannon e Daria in questo percorso, e soprattutto le persone che sono
rimaste al mio fianco in questo viaggio. Un sincero grazie a
tutti coloro che hanno classificato la storia come 'preferita' o 'da
ricordare', e un grazie anche a tutti coloro che hanno seguito in
silenzio, senza dare pareri o giudizi, perché in fondo già il fatto
che abbiate letto le mie parole è per me un traguardo.
Spero
che questo capitolo vi soddisfi, e più di tutto spero di poter
contare sul vostro sostegno anche in ogni progetto futuro – perché
sì, di progetti ne ho a bizzeffe. Non vi libererete tanto presto di
me.
Con
infinita gratitudine,
EffieSamadhi
Portagioie di tristezza
Capitolo ventunesimo
E ipotizzo di non
averti mai conosciuto,
ipotizzo che non ci
siamo mai innamorati,
ipotizzo di non averti
mai permesso
di baciarmi così
dolcemente e teneramente.1
Parigi, 27 novembre 2013
Per tutto
il viaggio di ritorno verso l'albergo nessuno dei due dice una
parola. Il braccio di Shannon mi cinge teneramente le spalle, la mia
testa riposa sul suo petto, e il silenzio è così perfetto che non
ci serve altro. Respiro a fondo il suo odore, che è lo stesso della
sera che ci siamo incontrati: sento il sudore, sì, ma riesco a
sentire anche tutto il resto – l'aroma del caffè che tracanna come
fosse acqua, lo zenzero contenuto nel suo shampoo, e
contemporaneamente riesco a sentire anche gli odori che
caratterizzano me,
l'aroma del mio shampoo,
una traccia del profumo che ho messo prima di uscire. È come se
condividere questi ultimi due giorni ci avesse unito, facendoci
diventare una sola persona, e mi chiedo se sia una cosa che succede
ad ogni coppia, o se siamo noi gli unici fortunati. Mi tornano in
mente i primi versi di She's the one
di Robbie Williams: I was her, she was me,
we were one, we were free. Sarebbe tutto
così semplice, se potessimo mantenere le cose in questo stato – se
potessimo restare per sempre sospesi in questa settimana, per sempre
sospesi in questo attimo di eterno che sembra così... perfetto.
L'auto si
ferma davanti all'hotel e scendiamo, ringraziando Sébastien per la
cortesia; mentre richiudo lo sportello colgo il suo sorriso e lo
ricambio, comprendendo che mi sta augurando tutta la fortuna del
mondo – perché lo so,
so che in qualche modo ha intuito i miei dubbi, e so che con quel
breve sorriso mi sta dicendo di non preoccuparmi, perché tutto si
sistemerà. Ma forse è proprio questo il mio problema: io non so
stare tranquilla in un angolo ad aspettare che il destino sistemi
ogni cosa, forse perché niente nella mia vita si è mai aggiustato
da sé – andiamo, lo sanno tutti che niente
si aggiusta mai da sé.
Ritiriamo
la chiave e saliamo in ascensore sempre senza dire una parola, e
senza mutare le nostre posizioni. È solo quando arriviamo in camera,
come è già successo, che la situazione si scioglie – è come se
entrambi ci sentissimo completamente al sicuro soltanto quando siamo
completamente soli, certi che quell'istante sia solo nostro, sicuri
che quel momento appartenga soltanto a noi. Shannon chiude la porta e
in un attimo è davanti
a me, sopra di
me, intorno a
me – me ne sto premuta tra il suo torace e la porta, e per la prima
volta nella vita la sensazione di sentirmi in trappola non solo mi
piace, ma mi sembra anche l'unica
possibilità di salvezza. Le sue labbra cercano le mie con foga,
proprio come se stessero tentando di divorarmi, e le sue mani non
perdono tempo: cercano i bottoni del cappotto alla cieca, trovandoli
senza difficoltà, e prima di rendermene conto la giacca cade a
terra, seguita dalla sua sciarpa e dal suo berretto. Improvvisamente
mi sento come se non avessi freni, come se non fossi mai stata una
timida ragazzina che sogna l'amore e lo cerca nei posti sbagliati –
in questo momento mi sento una donna adulta, mi sento cresciuta come
non lo sono mai stata, come se in quest'ultimo mese avessi percorso
tutte le strade che una donna deve percorrere prima di essere
ritenuta tale2.
All'improvviso,
Shannon si ferma. Le sue mani sono ancora sui miei fianchi, la sua
bocca è ancora a pochi millimetri dalla mia, ma nessuno dei due si
muove né dice una parola. Apro gli occhi e trovo il suo sguardo
fisso sul mio volto, esattamente come la prima volta che siamo stati
insieme – solo che questa volta non sono io ad avere paura, ma lui.
Glielo leggo chiaramente negli occhi: è come se improvvisamente
fossi io quella forte, e lui il ragazzino confuso. «Va
tutto bene?»
sussurro, accarezzandogli il viso. Sono le prime parole che diciamo
dopo un lunghissimo silenzio, forse il più lungo che ci siamo mai
concessi.
«Va
tutto bene» risponde, accennando un sorriso. «Stavo solo... stavo
solo immagazzinando i ricordi. Sai, per quando... per quando sarò
solo. Voglio ricordarmi tutto. Voglio ricordarmi tutto»
ripete, ricominciando a baciarmi. Le nostre mani ricominciano le loro
esplorazioni, superando confini e barriere che ormai conosciamo a
memoria: mentre gli sbottono la camicia, mi rendo conto di conoscere
il suo corpo quasi meglio di quanto conosca il mio – e poi le sue
dita si infilano sotto il mio maglioncino, e ogni pensiero si perde
nel calore del suo palmo premuto contro il mio seno, proprio
all'altezza del cuore. Lo aiuto a spogliarmi, e per un altro
lunghissimo istante rimaniamo immobili a fissarci. Quando riprendiamo
a toccarci, lo facciamo di nuovo senza un fiato, limitandoci a godere
delle sensazioni di cui riusciamo a farci dono. Quasi senza che me ne
accorga, mi solleva tra le braccia e mi porta sul letto, senza
smettere di sovrastarmi. Lo aiuto a togliersi la camicia, poi lo
attiro ancora su di me. Con le mani cerco il suo collo, e di lì
faccio risalire le dita tra i suoi capelli, approfittando di quel
gesto per sfiorare la triad
che ha disegnata dietro l'orecchio. A quel contatto sospira
profondamente, facendomi intuire la sua piena soddisfazione; le sue
labbra lasciano le mie per scendere di nuovo sul mio seno, e a quel
punto approfitto della posizione delle mie mani per trattenerlo il
più a lungo possibile contro di me. Scende ancora, torturandomi
lentamente, e con pochi, misurati gesti mi sfila i jeans, con la
stessa naturalezza con cui si siede su quel suo seggiolino e inizia a
percuotere i tamburi. Risale il mio corpo in una lenta carezza,
soltanto sfiorandomi
– mi sfiora con la punta delle dita, mi sfiora con il naso, mi
sfiora con le labbra socchiuse e con il suo respiro caldo –, come
se mi stesse soltanto assaggiando,
come si fa con un piatto mai provato prima. Mi piace questo suo
indugiare su di me, quasi stesse raccogliendo il coraggio necessario
per toccarmi davvero.
Finalmente la sua bocca si
posa sul mio ombelico, baciandolo languidamente. Le sue mani mi
convincono ad inarcare la schiena, permettendogli di sfilarmi il
reggiseno. Approfitto della sua guardia abbassata per spingerlo via,
capovolgere le posizioni e mettermi a cavalcioni su di lui. Con le
mani indugio per un po' nei dintorni della sua cintura, come se fossi
indecisa sul da farsi. Mi mordicchio il labbro, giocando a fare
l'insicura, mentre in realtà so perfettamente quali saranno le mie
prossime mosse. Abbasso lenta la zip, lasciando che le mie dita
scivolino in avanti quasi con timidezza; quando finalmente stringo la
sua erezione, per reazione Shannon serra le mani sui miei glutei,
spingendomi verso di lui. «Se la tua missione è quella di farmi
impazzire, sappi che ci stai riuscendo benissimo» sussurra, senza
staccare gli occhi dai miei.
«Volevi dei bei ricordi,
no?» rispondo, scivolando piano lungo le sue gambe. Senza dire altro
mi abbasso su di lui, lasciando che le mie labbra si impegnino in
tutt'altro tipo di conversazione. La sua testa si rovescia
all'indietro, il respiro si fa più accelerato e pesante, e quando la
sua mano mi afferra i capelli, assecondando i miei movimenti, capisco
che è qualcosa di cui si ricorderà.
Sembrano passare secoli,
prima che ritrovi la forza di farle alzare la testa. «Vieni qui»
sussurro, mettendomi a sedere mentre la attiro verso di me. La bacio
a lungo, tenendole il viso tra le mani come per impedirle di fuggire.
Appena la sento abbassare le difese e allacciarmi le braccia al collo
ho di nuovo la meglio su di lei, e torno a prendermi la posizione di
comando che tanto mi si addice. Percorro di nuovo il suo corpo in
un'unica, lentissima carezza, dal collo fino al ventre, mentre le sue
unghie giocano a seguire il profilo dei muscoli della mia schiena e
delle spalle. Quando inizio a concederle tutte le attenzioni che
merita, improvvisamente il silenzio pare spezzarsi: questa volta, a
differenza di tutte le altre, non tenta nemmeno per un secondo di
zittirsi, di reprimere i gemiti, di mantenere un respiro regolare...
è come se questa volta fosse finalmente pronta per lasciarsi andare.
I nostri sguardi si incrociano per un attimo, e sento che tutto
quello di cui ho bisogno per essere felice è qui, in questa stanza.
Mi sollevo appena,
facendomi scivolare via dalle gambe i jeans e la biancheria, poi
torno a stendermi su di lei, vincendola con il mio peso. Restiamo
immobili a sfiorarci per qualche minuto, poi sento la sua mano farsi
strada verso il mio inguine. Comprendendo quale richiesta si celi
dietro quel gesto, mi scosto appena. «Aspetta» le sussurro, «devo
andare a...»
«Mi fido di te» mi
interrompe, senza alzare il tono della voce oltre il fruscio del
vento. «Io mi fido di te» ripete, calcando il tono. La
guardo negli occhi e capisco dove vuole arrivare: sta dicendo che si
fida di me completamente – sa che da quando l'ho conosciuta
sono diventato monogamo, sa di essere l'unica persona della mia vita,
e soprattutto sa che non la metterò nei guai. Ma soprattutto, sa che
anche io mi fido di lei: con qualunque altra ragazza prenderei
precauzioni, a prescindere dal suo grado di fiducia in me, ma con
lei... con lei mi sento al sicuro. So che lei non mi tradirà, so che
lei non mi ferirà, so che lei non mi trascinerà mai a fondo.
*
Parigi, 27 novembre 2013
«E
tu che ci fai ancora qui?»
Seduto
al centro del proprio camerino, con la chitarra in grembo e una
matita stretta tra i denti, Jared alza gli occhi su Emma. «Che cosa
ci fai tu ancora qui,
piuttosto. Pensavo di averti dato il resto della serata libero.»
«Sì,
ma lo sai che da quando lavoro per te sono diventata paranoica. Alle
due di notte sono passata alla reception per controllare che ci foste
tutti, e la tua chiave era ancora lì appesa. Mi sono preoccupata,
sai?» aggiunge, prendendo una sedia pieghevole e aprendola proprio
davanti a lui. «Che stai facendo?»
«Provavo
una cosa. Una cosa nuova» specifica, e a quella parola Emma spalanca
gli occhi, quasi incredula: mai una volta nella vita Jared ha fatto
accenno ad una nuova canzone prima che fosse completa. «Vuoi
sentirla?» Quella domanda spiazza Emma ancora di più, perché se
già è strano sentirlo parlare
di una nuova canzone, sentirsi proporre di sentirla in
anteprima è ancora più
bizzarro.
«Chi
sei tu, e che cosa ne hai fatto di Jared Leto?»
«Lo
so, non è da me.»
«No,
per niente.»
«Penso...
credo di doverla far sentire a qualcuno, oppure rischio di
esplodere.»
«Avete
ancora davanti un sacco di mesi di tour. Meglio evitare la dipartita
del frontman, che dici?»
«Quindi
la vuoi sentire?»
«Tu
che dici?»
«Non
è ancora completa, quindi non fare caso a...»
«Jared,
suona» lo interrompe lei. «Se vuoi suonare, suona e basta.»
Stranamente ubbidiente, Jared posa la matita e imbraccia meglio la
chitarra, scaldandosi con un paio di accordi. Un'ultima occhiata alla
ragazza che gli sta di fronte, poi inizia a suonare. Seduta davanti a
lui con le braccia conserte, Emma si rende conto sin dal primo
istante che quello che sta ascoltando in anteprima è probabilmente
uno dei pezzi più belli che abbia mai sentito, e che lanciato come
singolo scalerebbe le classifiche nel tempo di uno starnuto. Ignora
le imprecisioni e le incertezze, ascolta e basta, senza dire nulla,
senza lasciar trapelare alcuna emozione, e l'unica cosa che le passa
per la testa è che Jared non ha mai scritto una canzone per
una ragazza. Eppure, si rende
conto continuando ad ascoltare, nonostante sia un pezzo dedicato ad
una persona in particolare, non è una canzone d'amore: è una
celebrazione, un canto di ringraziamento, probabilmente il solo modo
che gli sia venuto in mente per ringraziare il cielo, Dio o chissà
chi altro per aver messo Daria sulla strada di Shannon – che poi,
come in milioni di altri casi, coincide con la sua.
*
Parigi, 27 novembre 2013
«Penserai che sia un
cliché dei più abusati, ma... è stato meraviglioso»
sussurro prima di premere le labbra contro il suo sterno. «Non so
quali altre parole usare, mi dispiace.»
«Non ti devi dispiacere»
sussurra a sua volta, prendendomi il volto tra le mani per
costringermi a guardarla. «Anche per me è stato meraviglioso.»
Solleva appena la testa dal cuscino e mi bacia, trattenendo le labbra
contro le mie per qualche secondo. «Così... è questo che fai dopo
ogni concerto, di solito?» mi prende in giro.
«Non è mai... così.
Non è mai stato così. Tanto per cominciare, raramente sono
nella mia stanza.»
«Di solito ti apparti nel
tuo camerino?» insiste, continuando a sorridere.
«Di solito andiamo da
lei.»
«Oh... sei un amante a
domicilio, quindi?»
Scoppio a ridere,
accarezzandole i capelli. «Così è più semplice» spiego.
«Insomma, così quando sei stanco te ne vai. Non c'è... l'imbarazzo
di dover cacciare via la ragazza.» Dai capelli scendo al viso,
seguendo con un dito il profilo della guancia. «Ma immagino sia un
problema che non mi riguarda più.»
«Parla per te. D'ora in
poi ogni volta che non saremo insieme penserò che sei a casa di
qualche ragazza sconosciuta a spassartela.»
«Non potrei mai, lo sai»
replico, veramente convinto di quello che sto dicendo.
«Sì, lo so» risponde,
tenendo la voce bassa e gli occhi fissi nei miei. «E comunque potrei
sempre domandare ad Emma di tenerti d'occhio. Ha l'aria di essere un
bel mastino.»
«Oh, lo è. Ma non avrai
bisogno di farmi seguire da nessuno. Non farò che pensare a te.»
*
Parigi, 27 novembre 2013
«Jared,
io... io non so che dire. È semplicemente... è stupenda, ecco.
Vorrei trovare parole meno banali, ma... non ci riesco.»
«Beh,
non è finita. Quindi non puoi dare un giudizio vero.»
«Sfido
chiunque a dire che non sia bella, anche non finita. Tu... tu l'hai
scritta per lei, vero?»
Jared
gonfia le guance come un bambino indeciso, pensando alla risposta più
opportuna. «Sì, ma... non è solo per lei. È anche per lui.
Insomma, per... per celebrare
il loro incontro. So che probabilmente sembra una cosa idiota e senza
senso, ma... quello che stanno vivendo è importante. Nessuno dei due
ha mai vissuto un'esperienza così,
e... e io mi sento fiero di farne parte, in qualche modo.»
«Non
sembra una cosa idiota e senza senso, Jay.» L'ombra di un sorriso
gli increspa le labbra, perché Emma non l'ha mai chiamato Jay,
ma sempre e solo Jared,
oppure smisurato rompicoglioni –
e l'improvviso uso di quel nomignolo affettuoso, quello che di solito
usano soltanto Shannon e Constance, gli fa capire che è riuscito a
dire quello che aveva paura di non riuscire a comunicare. «Quello
che hai fatto è... è una cosa molto bella. Sono sicura che Shannon
lo apprezzerà, quando lo scoprirà. E così farà Daria.»
«Non
glielo dire, per favore. Insomma, vorrei... vorrei restasse un
segreto, per adesso. Voglio dirglielo, ma soltanto quando sarà
finita.»
«Ho
le labbra cucite» gli sorride lei. «Va bene, adesso me ne torno in
albergo a dormire. E dovresti andarci anche tu. Domani alle tre hai
quell'intervista per Vogue France.
Non voglio che debbano usare un chilo di correttore per eliminare le
occhiaie.»
«Va
bene, mamma. Finisco di sistemare due cose e me ne vado.»
«Ho
il taxi fuori. Ti aspetto?»
«No,
vai tranquilla. Non farò tardi, lo giuro.»
*
Parigi, 27 novembre 2013
Facciamo
l'amore ancora due volte, nutrendoci l'uno dell'altra come un albero
si nutre della luce del sole. Come sempre, ogni volta ci comportiamo
come se fosse la prima e insieme anche l'ultima, assaporando ogni
carezza e ogni bacio come se ogni minimo contatto dovesse bastarci
per l'eternità. Alla fine, troppo stanchi persino per parlare, ci
stendiamo uno accanto all'altra, in assoluto silenzio. Davanti ai
miei occhi vedo l'isola bianca della sua schiena, liscia e perfetta
come nessuna delle cose che abbiano mai attraversato la mia vita. Con
la punta dell'indice percorro i quattro simboli che porta tatuati
sulla schiena, che mai come in questo momento mi sembrano un atto di
fede, una promessa d'amore non soltanto nei confronti della band e
della nostra musica, ma anche nei miei.
Ripeto quel gesto non so quante volte, finché non sento il suo
respiro mutare e farsi regolare, sommesso, segno che sta dormendo –
e anche dopo quel momento continuo a ripeterlo, finché non sono i
miei occhi a chiudersi.
*
Parigi, 28 novembre 2013
Senza
nemmeno aprire gli occhi, allungo un braccio verso l'altra metà del
letto – ma quando per ben due volte le mie dita stringono il vuoto,
le palpebre si sollevano con uno scatto. Impiego qualche secondo per
abituarmi alla luce del sole già alto, mentre mi metto a sedere con
una rapidità che non avevo mai sperimentato prima d'ora. La parte
razionale del mio cervello, già eccezionalmente attiva, mi induce a
pensare che Daria sia in bagno, oppure che sia scesa a fare
colazione, ma l'altra parte di me – quella istintiva e passionale,
quella a cui di solito do ascolto, quella che in genere non mi delude
mai – pensa subito al peggio. Balzo in piedi e mi infilo i jeans,
ignorando la biancheria, e mentre li allaccio mi guardo intorno,
scoprendo con orrore che ogni traccia di lei è scomparsa dalla
camera – come se in questi ultimi due giorni queste pareti avessero
protetto soltanto me.
Improvvisamente il cuore accelera i battiti, il respiro sembra
mancare, e tutto ciò che riesco a fare è aprire l'armadio, frugare
tra i cassetti, controllare il bagno... ma niente, di lei non è
rimasto nulla – niente vestiti nell'armadio, niente spazzolino
accanto al lavandino, niente scarpe allineate dietro la porta. Tutto
ciò che resta è una traccia del suo profumo nell'aria, così
flebile che ad ogni respiro temo di distruggerla. È allora che noto,
appoggiato sul mio comodino, il mio libro – quello che le ho
consegnato al termine di quel magico pomeriggio a Torino, quello che
ero sicuro avrebbe custodito per sempre con la massima cura. Mentre
lo prendo la mano mi trema, trema come non è successo nemmeno la
prima volta che ho suonato davanti ad un pubblico immenso, e trema
anche quando lo apro un po' prima della metà, nel punto in cui sono
incastrati due fogli piegati. Guardo la pagina e vedo una
sottolineatura a matita, così leggera da sembrare quasi invisibile.
«Le lacrime del mondo sono immutabili»
leggo con un filo di voce. «Non appena qualcuno si mette a
piangere un altro, chi sa dove, smette.3»
Muovo qualche passo per la stanza, indeciso sulla direzione da
prendere, e alla fine mi lascio scivolare a terra, la schiena
appoggiata contro il letto disfatto, mentre spiego i due fogli fitti
di parole e mi preparo a leggere l'addio di Daria.
*
Torino, 28 novembre 2013
Quando
il cellulare squilla e sul display compare il numero di Daria, il
primo pensiero di Alice è che l'amica voglia parlare di quanto è
successo il giorno prima con Francesca. Per questo non è
assolutamente preparata alla domanda che si sente rivolgere. «Sono a
Grenoble. Tra quattro ore dovrei arrivare a Torino. Mi verresti a
prendere in stazione?»
*
Parigi, 28 novembre 2013
Shannon
e Daria non si sono visti né a colazione né a pranzo, e per quanto
l'istinto gli suggerisca che stiano sfruttando il tempo a loro
disposizione nel modo loro più conveniente, Jared non resiste
all'impulso di andare a bussare per verificare che sia tutto a posto.
Bussa una volta e non riceve risposta. Aspetta trenta secondi e bussa
di nuovo. Quando dall'interno sente un flebile «Chi è?» si
identifica, aspettandosi di essere mandato al diavolo. Invece,
incredibilmente, sente dire: «Entra».
Jared
apre la porta con un po' di timore, pur sapendo che non avrebbe avuto
il permesso di entrare se ci fosse stato il pericolo di incappare in
una situazione scomoda. La scena che si trova davanti, però, lo
destabilizza più di quanto non sarebbe successo se avesse trovato la
coppia nuda: Shannon è seduto a terra, con le mani infilate tra i
capelli scarmigliati e gli occhi rossi e gonfi di chi abbia appena
finito di piangere. Non ha mai visto Shannon piangere, e sinceramente
non si sarebbe mai aspettato di vederlo accadere. Si guarda attorno,
sperando che Daria possa dargli una spiegazione, ma la stanza è
vuota – completamente vuota,
fatta eccezione per le cose di Shannon, e per il libro e i fogli
appoggiati davanti ai suoi piedi nudi. «Che succede?» domanda, pur
se in cuor suo intuisce già la risposta.
«Se
n'è andata» sussurra suo fratello, con una voce tanto flebile che
sembra davvero provenire da Marte. «Stanotte, mentre dormivo, lei...
lei ha preso le sue cose e se n'è andata.»
«Ma...
ma come... perché?»
Shannon distoglie lo
sguardo, ancora troppo frastornato per parlare. Tutto ciò che può
fare è porgergli la lettera, sperando che Jared capisca da sé.
*
Torino, 28 novembre 2013
Mentre
le va incontro quasi di corsa sulla banchina della stazione, Alice
sente di non aver bisogno di fare domande – che sia accaduto
qualcosa di terribile è chiaro, maledettamente chiaro. Abbraccia
Daria con tutta la forza che ha in corpo, lasciando che le lacrime
dell'amica le inzuppino la sciarpa, e sperando che nel suo abbraccio
i suoi singhiozzi trovino finalmente un porto sicuro. Le accarezza la
testa con dolcezza, sussurrandole di non avere paura, perché andrà
tutto bene, anche se per la prima volta in vita sua non è sicura che
andrà così. Se la tiene stretta come farebbe una madre, se la tiene
stretta nel brusio della stazione affollata, e sente che le cose non
saranno mai più come prima.
*
Parigi, 28 novembre 2013
Jared
si è lasciato scivolare a terra, alla destra di Shannon, e per la
seconda volta legge la lettera di Daria, senza riuscire a convincersi
che si tratti della realtà. Quella grafia tonda e ordinata lo
ipnotizza, catturando i suoi occhi come una fiamma attira la falena,
e nel contempo quelle parole lo feriscono come una spada affilata,
riducendo in piccoli frammenti sanguinanti anche il suo
cuore.
Caro
Shannon,
se
stai leggendo questa lettera significa che sei sveglio, e che il
primo pensiero della giornata lo hai rivolto a me. Questo mi
lusinga, ma allo stesso tempo mi ferisce, perché avrei voluto
condividere quell'istante con te, e godere della magnifica
sensazione del tuo sguardo su di me, delle tue mani che mi
accarezzano il viso, e delle tue labbra che infine sfiorano le
mie.
Mi
hai fatta sentire amata, forse per la prima volta nella mia vita,
e questo è qualcosa che non può essere cancellato. Quando ci
siamo incontrati ero sola, smarrita, ferita dal tempo e dalla
vita, e contro ogni previsione tu sei riuscito a farmi provare di
nuovo tutte quelle sensazioni che credevo perse per sempre: mi
hai dato la speranza, mi hai dato l'allegria, mi hai dato la
felicità che scaturisce dal sapere che al mondo esiste almeno
una persona che vive e respira per te, e questo è qualcosa che
ricorderò per sempre, e per cui ti sarò sempre grata.
Quando
ti ho incontrato ho capito dal primo istante che saresti stato
importante, ma non avevo previsto che mi saresti arrivato sotto
la pelle fino a questo punto, fino a toccarmi l'anima, fino ad
intossicarmi il cuore. Ti ho mostrato la parte più nascosta di
me, quella che pochi hanno avuto il privilegio (o la disgrazia)
di vedere, e l'ho fatto perché mi sono fidata di te... e ti ho
spiegato quanto sia difficile per me fidarmi del prossimo. A te
mi sono mostrata completamente nuda, senza difese, e a te ho
concesso la libertà di fare di me ciò che più ti aggradava.
E tu
mi hai fatta innamorare.
No,
di più: tu hai fatto sì che io ti amassi, che ti amassi e che
avessi bisogno di te così come non era mai successo prima, e
forse per questo dovrei odiarti.
Ti
amo, non l'ho detto mai a nessuno prima di te – e forse,
chissà, ci vorranno altri ventitré anni prima che trovi il
coraggio di dirlo di nuovo. Basta un filo di voce per dirlo, ma
quanto tempo occorre per trovarne la forza?
Mi
piace pensare di non essere stata la sola a dare tutta se stessa
in questa nostra storia: credo – anzi, ne sono convinta – che
tu ti sia aperto quanto me, che tu ti sia mostrato più di quanto
abbia mai fatto nella vita, e questa consapevolezza (o
convinzione, chiamala come vuoi) mi ferisce ancora di più,
considerando che sto facendo le valigie e ti sto lasciando. Forse
ti sembrerà impossibile e anche un po' egoista da parte mia dire
così, ma ti assicuro che in questo momento sto soffrendo molto
più di te – perché sì, anche quello che lascia può
soffrire, e a volte anche più intensamente di chi viene
lasciato.
Mi
hai regalato un mese meraviglioso, un tempo che non potrà essere
cancellato né sostituito, ricordi che mi resteranno per sempre,
e per i quali ti sarò per sempre immensamente grata... ma
sappiamo entrambi che non è questo il destino che ci attende.
Potremmo continuare a fingere per un altro mese, forse due, forse
sei, forse mille, ma alla fine è con questo che ci troveremmo a
fare i conti – e per quanto mi ferisca, per quanto ti ferisca,
chiuderla qui è l'unica soluzione possibile. Non occorre che te
ne spieghi i motivi, non occorre che sprechi tempo e spazio per
dire quello che entrambi sappiamo, e che forse in questo mese
abbiamo tenuto nascosto a noi stessi. In questo momento
probabilmente ti senti ferito, ingannato, tradito e arrabbiato
con il mondo e soprattutto con me, ma sono certa che tra poco
inizierai a riflettere sulle mie parole, e capirai che è meglio
finirla qui, prima che entrambi finiamo con il farci del male.
Sei
stato importante, Shannon, e mi hai fatta sentire amata per la
prima volta in vita – l'ho già detto, vero? Lo so, ma non mi
importa. Non fa mai male ripetere la verità.
Ti
chiedo soltanto una cosa, e spero che riuscirai ad obbedire, in
nome del sentimento che ci ha legati, anche se per così poco:
non cercarmi. Non chiamarmi, non scrivere, e non fare un'altra
pazzia come venire a casa mia. Fingi di non avermi mai
incontrato, fingi di non essere mai stato attratto da me, fingi
di non avermi mai baciata, fingi che la mia presenza non abbia
mai toccato la tua vita.
Finiamola
così, come abbiamo cominciato: nel buio, e nel silenzio.
Addio,
Daria
|
Jared abbassa i fogli,
sentendo gli occhi farsi lucidi e brucianti: chi avrebbe mai pensato
che una simile ragazzina potesse fare tanti danni al cuore di un
uomo? Guarda Shannon, e comprende immediatamente la ragione
dell'aspetto devastato di suo fratello: chi non si sentirebbe a
terra, vedendosi strappare dalle mani l'unica occasione di felicità
che sia mai riuscito a stringere? Sta per parlare, quando davanti
alla porta ancora spalancata transita a passo veloce Tomo, che poi
torna indietro e si ferma, guardando la scena. «Eccovi qui, vi stavo
giusto cercando. Ma che succede?»
«Daria
se n'è andata» risponde Shannon.
«Ha lasciato una lettera. Puoi leggerla, se vuoi.»
Tomo prende i fogli dalle
mani di Jared e si siede a terra con loro, alla sinistra del
batterista. Quando finisce anche la seconda pagina, apre e richiude
la bocca senza dire niente per un paio di volte. «Che cosa hai
intenzione di fare?»
«Che cosa dovrei fare?»
«Non hai intenzione di
precipitarti da lei per impedirle di lasciarti?»
chiede Jared, in verità un po' sorpreso che suo fratello non stia
già preparando i bagagli per Torino.
«Mi ha chiesto di non
farlo.»
«E da quando sei uno che
fa quello che gli viene ordinato?»
replica stupito Tomo, restituendogli la lettera.
«Glielo devo»
sussurra Shannon. «Sono stato il primo a darle quello di cui aveva
bisogno» aggiunge. «Aveva
bisogno di sentirsi amata, e io le ho dato amore.»
Guarda ancora i fogli che tiene fra le mani. «Le ho dato quello di
cui aveva bisogno, e ora non posso negarle quello che vuole.»
«Non credo di capire»
sussurra Jared, sorpreso di vedere un lato così dimesso e intimo di
suo fratello.
«Vuole che la lasci sola,
e non posso negarglielo. Lei mi ha sempre rispettato, mi ha dato
fiducia, e se adesso io... ignorassi la sua richiesta la
tradirei. Per quanto la tentazione sia... irresistibile, io
non... non lo posso fare.»
Deglutisce, tenendo gli occhi bassi, e i due amici capiscono quanto a
ferirlo non siano le parole o l'abbandono, ma piuttosto la
consapevolezza che restare immobile a sanguinare sia l'unica
soluzione possibile per rimanere coerente con le promesse fatte.
Restano immobili e in
silenzio per quelli che forse sono dieci minuti, o forse secoli, e
all'improvviso Shannon rialza la testa, guardando Tomo: «Hai detto
che ci stavi cercando, poco fa. Che cosa volevi dirci?»
«Oh, è vero, io... ma
forse non è il caso, visto quello che sta succedendo.»
«No, dai, parla»
lo incalza, disposto a fare di tutto pur di non pensare ai suoi
problemi.
«Beh, sembra... sembra che
Vicki e io ce l'abbiamo fatta. Questa mattina presto ha fatto un
test, e... beh, sembra che sia positivo»
conclude con un timido sorriso, quasi non riuscisse a convincersene.
«Congratulazioni, sono
davvero molto felice per voi»
sorride Shannon, pensando che probabilmente questa sia l'unica
notizia in grado di risollevargli l'umore, anche se per poco.
«Era quello che volevate,
no? Congratulazioni» aggiunge Jared,
davvero felice per l'amico.
«Sì,
era proprio quello che desideravamo. Domani prenderemo un aereo e
torneremo a Los Angeles. Vuole vedere il suo medico il prima
possibile, per... beh, per le solite cose. Ma se volete che resti, io
posso anche...»
«Non c'è alcun bisogno
che resti, non ti preoccupare» lo
rassicura Shannon. «Anzi, forse potrei tornare anch'io a casa prima.
Tanto qui non c'è bisogno di me, no?»
«No, ma... sei sicuro di
voler restare solo?» gli domanda
il fratello.
«Ma io non sono mai solo»
risponde l'altro, guardandolo con due occhi che esprimono tutta la
sua gratitudine per avere un fratello come lui, sempre pronto ad
aiutarlo e stargli accanto. «Non hai un'intervista, a proposito?»
«Posso rimandarla, se...»
«Non è il caso,
tranquillo. Io starò bene. E tu vai da tua moglie, avete molto di
cui festeggiare» aggiunge, dando
di gomito a Tomo.
Recalcitranti, Jared e Tomo
si alzano e lasciano la stanza, guardandosi indietro mille volte,
sperando che Shannon sia sincero, e che non stia soltanto recitando
una parte per evitare di coinvolgerli nel suo dolore. Lo salutano e
gli promettono di tornare presto da lui, ricevendo in cambio un
sorriso così spontaneo da illuderli che il cielo sia veramente
sereno.
*
Parigi, 28 novembre 2013
Appena
tornata a casa, senza dire una parola e senza nemmeno disfare i
bagagli, Daria ha chiuso ogni ricordo di Shannon in una vecchia
scatola da scarpe: la maglietta che lui le ha regalato, il fiore di
stoffa usato per decorare il vassoio quella mattina che le ha portato
la colazione in bagno, i novanta post-it che le ha sparso per
l'appartamento, i preservativi dimenticati sulla scrivania, il
biglietto da visita di Emma, una copia di tutte le fotografie che ha
di lui, anche delle più recenti, che scarica rapidamente sul
portatile e stampa mentre vaga per la stanza raccogliendo tutto ciò
che non vuole più incontrare sul suo cammino. Alice resta immobile
in cima alle scale che conducono in camera, guardandola senza dire
una parola sul fatto che nascondere Shannon alla vista non lo
cancellerà dal cuore, e che in qualche modo il passato tornerà a
far sentire il suo morso. La guarda cancellare il numero dalla
rubrica, senza trascriverlo da nessuna parte, e poi la guarda
infilare anche i cd nella scatola. «Perché anche i cd?»
domanda a quel punto, con un filo di voce.
«Perché...
sentirei soltanto Christine.»
Alice annuisce,
tornando a rinchiudersi nel proprio mutismo. Vorrebbe dirsi d'accordo
con quella decisione, ma in cuor suo sa che è un'idea cretina –
solo, vuole troppo bene a Daria per metterle sulle spalle ancora un
altro dolore. «Fatto»
sussurra Daria, mettendo il coperchio sulla scatola. «Puoi tenerla
tu per me?»
le domanda, porgendole il pacco.
«La
terrò io per te»
sorride Alice, sfilandole il peso dalle mani.
«Hai
detto a qualcuno che venivi a prendermi?»
«No.»
«Neanche
a Francesca?»
«A
nessuno.»
«Potresti
mantenere il segreto? Mi terrò nascosta fino a sabato, poi... non
so, a papà racconterò che sono tornata a casa in anticipo perché
ho finito il budget. Mi crederà. A Marco non è il caso di
raccontare nulla. Gli dirò che mi sono divertita, questo gli
basterà.»
«Manterrò
il segreto, ma... Daria, vorresti solo spiegarmi che cosa stai
facendo?»
L'altra
ragazza alza la testa, gli occhi resi ancora più azzurri dalle
lacrime che sta furiosamente cercando di trattenere. «Sto facendo la
cosa giusta, tutto qui.»
«Anche
se ti fa soffrire come un cane?»
«Nessuno
ha mai detto che fare la cosa giusta fosse indolore.»
*
Parigi, 28 novembre 2013
Rassicurati
gli amici, chiusa la porta, Shannon resta solo. Appoggia la schiena
al pannello e chiude gli occhi, cercando di convincersi che quando li
riaprirà non sentirà dolore. Non sentirà dolore, non soffrirà,
anche se quella pressione che sente all'altezza del cuore somiglia
proprio ad un coltello piantato a tradimento – piantato e rigirato
nella ferita più e più volte, come a ricordargli che è mortale,
che è un essere umano, e come ogni essere umano deve
soffrire, prima di trovare la sua pace.
1E
ipotizzo di non averti mai incontrato, ipotizzo che non ci siamo mai
innamorati, ipotizzo di non averti mai permesso di baciarmi così
dolcemente e teneramente. |
Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone Fidelity
di Regina Spektor,
contenuta nell'album Begin
To Hope,
pubblicato nel 2006.
2Mi
sento cresciuta come non lo sono mai stata, […] prima di essere
ritenuta tale. |
Questa dev'essere la settimana delle Citazioni Sgraffignate. Dopo
aver attinto alla filmografia di Martin Scorsese, sconfino nel campo
della musica e rubo una frase alla mitica Blowin'
in the wind,
incisa da Bob Dylan
nel 1962, e inserita poi nel disco The
Freewheelin' Bob Dylan,
uscito nel 1963. Ecco la frase originale: “How
many roads must a man walk down before you call him a man?”,
ovvero “Quante
strade deve percorrere un uomo prima di essere chiamato uomo?”.
3Le
lacrime del mondo sono immutabili. Non appena qualcuno si mette a
piangere un altro, chi sa dove, smette.
| La citazione è tratta da Aspettando
Godot
, opera teatrale in due atti scritta dall'autore anglo-irlandese
Samuel Beckett nel 1952. Si tratta di una delle più importanti opere
appartenenti al teatro dell'assurdo, un non-movimento letterario nato
in Europa negli anni del secondo dopoguerra. Si tende a definirlo un
non-movimento
in quanto, a differenza di altre correnti (Romanticismo, Futurismo
eccetera) non originò mai né manifesti, né progetti, né scuole –
si tratta semplicemente di un termine coniato da un critico
dell'epoca, che trovando molti punti comuni tra le opere di diversi
autori (Beckett, Ionesco e altri) volle tentare di raggrupparle in un
unico insieme. Personalmente, amo questo tipo di opere, Aspettando
Godot
su tutte – se non l'avete mai letto, vi consiglio di farlo. Se non
altro per farvi un paio di sane, grasse risate.
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