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Autore: EffieSamadhi    29/07/2014    13 recensioni
{Su YouTube è disponibile il trailer della storia: http://www.youtube.com/watch?v=diyTY0QZwSA}
Contrariamente a quanto pensa la gente, la vita di un rocker non è tutta 'sesso, droga & rock'n'roll': ci sono momenti in cui, come ogni persona normale, ci sentiamo stanchi e solitari e stufi del mondo, e se a volte ci capita di sembrare scostanti e scontrosi è solo perché vogliamo andare a casa, perché vogliamo infilarci sotto una doccia bollente o perché vogliamo spalmarci sul divano a guardare un programma trash in tv. [...] Mi chiamo Shannon Leto, ho quarantatré anni e mezzo e non vedo l'ora di andarmene a letto.
Tutti hanno bisogno di tempo per se stessi, e nessuno lo sa meglio di Shannon, che così preso dalla ricerca di un attimo di respiro si trova coinvolto in qualcosa che di privato e personale ha ben poco. Ma alla fine di tutto, Shannon si accorgerà che a volte la pace non si trova soltanto nella solitudine e nel buio, ma anche nella luce degli occhi di chi ci sta accanto.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Shannon Leto, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Direzioni ostinate e contrarie.'
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Portagioie di tristezza | 1
Ad una delle mie migliori amiche piace definirmi 'crudele', e dice che sarei un ottimo serial killer – questo perché, secondo lei, sono bravissima ad uccidere senza alcuna pietà le aspettative e i sogni della gente. Se questo si rivelasse vero, allora potrei avere un futuro come giudice nei talent show. In realtà, io credo che la mia carriera di serial killer avrebbe breve futuro, perché appena compiuto l'atto me ne pento, e sento l'irresistibile desiderio di confessare. Perdonate la digressione, ma sento che mi è necessaria per arrivare al nocciolo della questione: il punto è che quando ho scritto l'introduzione al precedente capitolo, sapevo già che questo capitolo, il ventunesimo, sarebbe stato l'ultimo. So che con questa confessione probabilmente mi starò alienando le simpatie e il favore di mezzo mondo, ma era qualcosa che non potevo più tenere nascosto.
Tengo moltissimo a ringraziare le persone che hanno recensito fino a questo punto, le persone che, in modi o tempi diversi, sono state accanto a Shannon e Daria in questo percorso, e soprattutto le persone che sono rimaste al mio fianco in questo viaggio. Un sincero grazie a tutti coloro che hanno classificato la storia come 'preferita' o 'da ricordare', e un grazie anche a tutti coloro che hanno seguito in silenzio, senza dare pareri o giudizi, perché in fondo già il fatto che abbiate letto le mie parole è per me un traguardo.
Spero che questo capitolo vi soddisfi, e più di tutto spero di poter contare sul vostro sostegno anche in ogni progetto futuro – perché sì, di progetti ne ho a bizzeffe. Non vi libererete tanto presto di me.
Con infinita gratitudine,
EffieSamadhi





Portagioie di tristezza





Capitolo ventunesimo
E ipotizzo di non averti mai conosciuto,
ipotizzo che non ci siamo mai innamorati,
ipotizzo di non averti mai permesso
di baciarmi così dolcemente e teneramente.1


Parigi, 27 novembre 2013

    Per tutto il viaggio di ritorno verso l'albergo nessuno dei due dice una parola. Il braccio di Shannon mi cinge teneramente le spalle, la mia testa riposa sul suo petto, e il silenzio è così perfetto che non ci serve altro. Respiro a fondo il suo odore, che è lo stesso della sera che ci siamo incontrati: sento il sudore, sì, ma riesco a sentire anche tutto il resto – l'aroma del caffè che tracanna come fosse acqua, lo zenzero contenuto nel suo shampoo, e contemporaneamente riesco a sentire anche gli odori che caratterizzano me, l'aroma del mio shampoo, una traccia del profumo che ho messo prima di uscire. È come se condividere questi ultimi due giorni ci avesse unito, facendoci diventare una sola persona, e mi chiedo se sia una cosa che succede ad ogni coppia, o se siamo noi gli unici fortunati. Mi tornano in mente i primi versi di She's the one di Robbie Williams: I was her, she was me, we were one, we were free. Sarebbe tutto così semplice, se potessimo mantenere le cose in questo stato – se potessimo restare per sempre sospesi in questa settimana, per sempre sospesi in questo attimo di eterno che sembra così... perfetto.
    L'auto si ferma davanti all'hotel e scendiamo, ringraziando Sébastien per la cortesia; mentre richiudo lo sportello colgo il suo sorriso e lo ricambio, comprendendo che mi sta augurando tutta la fortuna del mondo – perché lo so, so che in qualche modo ha intuito i miei dubbi, e so che con quel breve sorriso mi sta dicendo di non preoccuparmi, perché tutto si sistemerà. Ma forse è proprio questo il mio problema: io non so stare tranquilla in un angolo ad aspettare che il destino sistemi ogni cosa, forse perché niente nella mia vita si è mai aggiustato da sé – andiamo, lo sanno tutti che niente si aggiusta mai da sé.
    Ritiriamo la chiave e saliamo in ascensore sempre senza dire una parola, e senza mutare le nostre posizioni. È solo quando arriviamo in camera, come è già successo, che la situazione si scioglie – è come se entrambi ci sentissimo completamente al sicuro soltanto quando siamo completamente soli, certi che quell'istante sia solo nostro, sicuri che quel momento appartenga soltanto a noi. Shannon chiude la porta e in un attimo è davanti a me, sopra di me, intorno a me – me ne sto premuta tra il suo torace e la porta, e per la prima volta nella vita la sensazione di sentirmi in trappola non solo mi piace, ma mi sembra anche l'unica possibilità di salvezza. Le sue labbra cercano le mie con foga, proprio come se stessero tentando di divorarmi, e le sue mani non perdono tempo: cercano i bottoni del cappotto alla cieca, trovandoli senza difficoltà, e prima di rendermene conto la giacca cade a terra, seguita dalla sua sciarpa e dal suo berretto. Improvvisamente mi sento come se non avessi freni, come se non fossi mai stata una timida ragazzina che sogna l'amore e lo cerca nei posti sbagliati – in questo momento mi sento una donna adulta, mi sento cresciuta come non lo sono mai stata, come se in quest'ultimo mese avessi percorso tutte le strade che una donna deve percorrere prima di essere ritenuta tale2.
    All'improvviso, Shannon si ferma. Le sue mani sono ancora sui miei fianchi, la sua bocca è ancora a pochi millimetri dalla mia, ma nessuno dei due si muove né dice una parola. Apro gli occhi e trovo il suo sguardo fisso sul mio volto, esattamente come la prima volta che siamo stati insieme – solo che questa volta non sono io ad avere paura, ma lui. Glielo leggo chiaramente negli occhi: è come se improvvisamente fossi io quella forte, e lui il ragazzino confuso. «Va tutto bene?» sussurro, accarezzandogli il viso. Sono le prime parole che diciamo dopo un lunghissimo silenzio, forse il più lungo che ci siamo mai concessi.
    «Va tutto bene» risponde, accennando un sorriso. «Stavo solo... stavo solo immagazzinando i ricordi. Sai, per quando... per quando sarò solo. Voglio ricordarmi tutto. Voglio ricordarmi tutto» ripete, ricominciando a baciarmi. Le nostre mani ricominciano le loro esplorazioni, superando confini e barriere che ormai conosciamo a memoria: mentre gli sbottono la camicia, mi rendo conto di conoscere il suo corpo quasi meglio di quanto conosca il mio – e poi le sue dita si infilano sotto il mio maglioncino, e ogni pensiero si perde nel calore del suo palmo premuto contro il mio seno, proprio all'altezza del cuore. Lo aiuto a spogliarmi, e per un altro lunghissimo istante rimaniamo immobili a fissarci. Quando riprendiamo a toccarci, lo facciamo di nuovo senza un fiato, limitandoci a godere delle sensazioni di cui riusciamo a farci dono. Quasi senza che me ne accorga, mi solleva tra le braccia e mi porta sul letto, senza smettere di sovrastarmi. Lo aiuto a togliersi la camicia, poi lo attiro ancora su di me. Con le mani cerco il suo collo, e di lì faccio risalire le dita tra i suoi capelli, approfittando di quel gesto per sfiorare la triad che ha disegnata dietro l'orecchio. A quel contatto sospira profondamente, facendomi intuire la sua piena soddisfazione; le sue labbra lasciano le mie per scendere di nuovo sul mio seno, e a quel punto approfitto della posizione delle mie mani per trattenerlo il più a lungo possibile contro di me. Scende ancora, torturandomi lentamente, e con pochi, misurati gesti mi sfila i jeans, con la stessa naturalezza con cui si siede su quel suo seggiolino e inizia a percuotere i tamburi. Risale il mio corpo in una lenta carezza, soltanto sfiorandomi – mi sfiora con la punta delle dita, mi sfiora con il naso, mi sfiora con le labbra socchiuse e con il suo respiro caldo –, come se mi stesse soltanto assaggiando, come si fa con un piatto mai provato prima. Mi piace questo suo indugiare su di me, quasi stesse raccogliendo il coraggio necessario per toccarmi davvero.
    Finalmente la sua bocca si posa sul mio ombelico, baciandolo languidamente. Le sue mani mi convincono ad inarcare la schiena, permettendogli di sfilarmi il reggiseno. Approfitto della sua guardia abbassata per spingerlo via, capovolgere le posizioni e mettermi a cavalcioni su di lui. Con le mani indugio per un po' nei dintorni della sua cintura, come se fossi indecisa sul da farsi. Mi mordicchio il labbro, giocando a fare l'insicura, mentre in realtà so perfettamente quali saranno le mie prossime mosse. Abbasso lenta la zip, lasciando che le mie dita scivolino in avanti quasi con timidezza; quando finalmente stringo la sua erezione, per reazione Shannon serra le mani sui miei glutei, spingendomi verso di lui. «Se la tua missione è quella di farmi impazzire, sappi che ci stai riuscendo benissimo» sussurra, senza staccare gli occhi dai miei.
    «Volevi dei bei ricordi, no?» rispondo, scivolando piano lungo le sue gambe. Senza dire altro mi abbasso su di lui, lasciando che le mie labbra si impegnino in tutt'altro tipo di conversazione. La sua testa si rovescia all'indietro, il respiro si fa più accelerato e pesante, e quando la sua mano mi afferra i capelli, assecondando i miei movimenti, capisco che è qualcosa di cui si ricorderà.


    Sembrano passare secoli, prima che ritrovi la forza di farle alzare la testa. «Vieni qui» sussurro, mettendomi a sedere mentre la attiro verso di me. La bacio a lungo, tenendole il viso tra le mani come per impedirle di fuggire. Appena la sento abbassare le difese e allacciarmi le braccia al collo ho di nuovo la meglio su di lei, e torno a prendermi la posizione di comando che tanto mi si addice. Percorro di nuovo il suo corpo in un'unica, lentissima carezza, dal collo fino al ventre, mentre le sue unghie giocano a seguire il profilo dei muscoli della mia schiena e delle spalle. Quando inizio a concederle tutte le attenzioni che merita, improvvisamente il silenzio pare spezzarsi: questa volta, a differenza di tutte le altre, non tenta nemmeno per un secondo di zittirsi, di reprimere i gemiti, di mantenere un respiro regolare... è come se questa volta fosse finalmente pronta per lasciarsi andare. I nostri sguardi si incrociano per un attimo, e sento che tutto quello di cui ho bisogno per essere felice è qui, in questa stanza.
    Mi sollevo appena, facendomi scivolare via dalle gambe i jeans e la biancheria, poi torno a stendermi su di lei, vincendola con il mio peso. Restiamo immobili a sfiorarci per qualche minuto, poi sento la sua mano farsi strada verso il mio inguine. Comprendendo quale richiesta si celi dietro quel gesto, mi scosto appena. «Aspetta» le sussurro, «devo andare a...»
    «Mi fido di te» mi interrompe, senza alzare il tono della voce oltre il fruscio del vento. «Io mi fido di te» ripete, calcando il tono. La guardo negli occhi e capisco dove vuole arrivare: sta dicendo che si fida di me completamente – sa che da quando l'ho conosciuta sono diventato monogamo, sa di essere l'unica persona della mia vita, e soprattutto sa che non la metterò nei guai. Ma soprattutto, sa che anche io mi fido di lei: con qualunque altra ragazza prenderei precauzioni, a prescindere dal suo grado di fiducia in me, ma con lei... con lei mi sento al sicuro. So che lei non mi tradirà, so che lei non mi ferirà, so che lei non mi trascinerà mai a fondo.



*



Parigi, 27 novembre 2013

    «E tu che ci fai ancora qui?»
    Seduto al centro del proprio camerino, con la chitarra in grembo e una matita stretta tra i denti, Jared alza gli occhi su Emma. «Che cosa ci fai tu ancora qui, piuttosto. Pensavo di averti dato il resto della serata libero.»
    «Sì, ma lo sai che da quando lavoro per te sono diventata paranoica. Alle due di notte sono passata alla reception per controllare che ci foste tutti, e la tua chiave era ancora lì appesa. Mi sono preoccupata, sai?» aggiunge, prendendo una sedia pieghevole e aprendola proprio davanti a lui. «Che stai facendo?»
    «Provavo una cosa. Una cosa nuova» specifica, e a quella parola Emma spalanca gli occhi, quasi incredula: mai una volta nella vita Jared ha fatto accenno ad una nuova canzone prima che fosse completa. «Vuoi sentirla?» Quella domanda spiazza Emma ancora di più, perché se già è strano sentirlo parlare di una nuova canzone, sentirsi proporre di sentirla in anteprima è ancora più bizzarro.
    «Chi sei tu, e che cosa ne hai fatto di Jared Leto?»
    «Lo so, non è da me.»
    «No, per niente.»
    «Penso... credo di doverla far sentire a qualcuno, oppure rischio di esplodere.»
    «Avete ancora davanti un sacco di mesi di tour. Meglio evitare la dipartita del frontman, che dici?»
    «Quindi la vuoi sentire?»
    «Tu che dici?»
    «Non è ancora completa, quindi non fare caso a...»
    «Jared, suona» lo interrompe lei. «Se vuoi suonare, suona e basta.» Stranamente ubbidiente, Jared posa la matita e imbraccia meglio la chitarra, scaldandosi con un paio di accordi. Un'ultima occhiata alla ragazza che gli sta di fronte, poi inizia a suonare. Seduta davanti a lui con le braccia conserte, Emma si rende conto sin dal primo istante che quello che sta ascoltando in anteprima è probabilmente uno dei pezzi più belli che abbia mai sentito, e che lanciato come singolo scalerebbe le classifiche nel tempo di uno starnuto. Ignora le imprecisioni e le incertezze, ascolta e basta, senza dire nulla, senza lasciar trapelare alcuna emozione, e l'unica cosa che le passa per la testa è che Jared non ha mai scritto una canzone per una ragazza. Eppure, si rende conto continuando ad ascoltare, nonostante sia un pezzo dedicato ad una persona in particolare, non è una canzone d'amore: è una celebrazione, un canto di ringraziamento, probabilmente il solo modo che gli sia venuto in mente per ringraziare il cielo, Dio o chissà chi altro per aver messo Daria sulla strada di Shannon – che poi, come in milioni di altri casi, coincide con la sua.



*



Parigi, 27 novembre 2013

    «Penserai che sia un cliché dei più abusati, ma... è stato meraviglioso» sussurro prima di premere le labbra contro il suo sterno. «Non so quali altre parole usare, mi dispiace.»
    «Non ti devi dispiacere» sussurra a sua volta, prendendomi il volto tra le mani per costringermi a guardarla. «Anche per me è stato meraviglioso.» Solleva appena la testa dal cuscino e mi bacia, trattenendo le labbra contro le mie per qualche secondo. «Così... è questo che fai dopo ogni concerto, di solito?» mi prende in giro.
    «Non è mai... così. Non è mai stato così. Tanto per cominciare, raramente sono nella mia stanza.»
    «Di solito ti apparti nel tuo camerino?» insiste, continuando a sorridere.
    «Di solito andiamo da lei.»
    «Oh... sei un amante a domicilio, quindi?»
    Scoppio a ridere, accarezzandole i capelli. «Così è più semplice» spiego. «Insomma, così quando sei stanco te ne vai. Non c'è... l'imbarazzo di dover cacciare via la ragazza.» Dai capelli scendo al viso, seguendo con un dito il profilo della guancia. «Ma immagino sia un problema che non mi riguarda più.»
    «Parla per te. D'ora in poi ogni volta che non saremo insieme penserò che sei a casa di qualche ragazza sconosciuta a spassartela.»
    «Non potrei mai, lo sai» replico, veramente convinto di quello che sto dicendo.
    «Sì, lo so» risponde, tenendo la voce bassa e gli occhi fissi nei miei. «E comunque potrei sempre domandare ad Emma di tenerti d'occhio. Ha l'aria di essere un bel mastino.»
    «Oh, lo è. Ma non avrai bisogno di farmi seguire da nessuno. Non farò che pensare a te.»



*



Parigi, 27 novembre 2013

    «Jared, io... io non so che dire. È semplicemente... è stupenda, ecco. Vorrei trovare parole meno banali, ma... non ci riesco.»
    «Beh, non è finita. Quindi non puoi dare un giudizio vero.»
    «Sfido chiunque a dire che non sia bella, anche non finita. Tu... tu l'hai scritta per lei, vero?»
    Jared gonfia le guance come un bambino indeciso, pensando alla risposta più opportuna. «Sì, ma... non è solo per lei. È anche per lui. Insomma, per... per celebrare il loro incontro. So che probabilmente sembra una cosa idiota e senza senso, ma... quello che stanno vivendo è importante. Nessuno dei due ha mai vissuto un'esperienza così, e... e io mi sento fiero di farne parte, in qualche modo.»
    «Non sembra una cosa idiota e senza senso, Jay.» L'ombra di un sorriso gli increspa le labbra, perché Emma non l'ha mai chiamato Jay, ma sempre e solo Jared, oppure smisurato rompicoglioni – e l'improvviso uso di quel nomignolo affettuoso, quello che di solito usano soltanto Shannon e Constance, gli fa capire che è riuscito a dire quello che aveva paura di non riuscire a comunicare. «Quello che hai fatto è... è una cosa molto bella. Sono sicura che Shannon lo apprezzerà, quando lo scoprirà. E così farà Daria.»
    «Non glielo dire, per favore. Insomma, vorrei... vorrei restasse un segreto, per adesso. Voglio dirglielo, ma soltanto quando sarà finita.»
    «Ho le labbra cucite» gli sorride lei. «Va bene, adesso me ne torno in albergo a dormire. E dovresti andarci anche tu. Domani alle tre hai quell'intervista per Vogue France. Non voglio che debbano usare un chilo di correttore per eliminare le occhiaie.»
    «Va bene, mamma. Finisco di sistemare due cose e me ne vado.»
    «Ho il taxi fuori. Ti aspetto?»
    «No, vai tranquilla. Non farò tardi, lo giuro.»



*



Parigi, 27 novembre 2013

    Facciamo l'amore ancora due volte, nutrendoci l'uno dell'altra come un albero si nutre della luce del sole. Come sempre, ogni volta ci comportiamo come se fosse la prima e insieme anche l'ultima, assaporando ogni carezza e ogni bacio come se ogni minimo contatto dovesse bastarci per l'eternità. Alla fine, troppo stanchi persino per parlare, ci stendiamo uno accanto all'altra, in assoluto silenzio. Davanti ai miei occhi vedo l'isola bianca della sua schiena, liscia e perfetta come nessuna delle cose che abbiano mai attraversato la mia vita. Con la punta dell'indice percorro i quattro simboli che porta tatuati sulla schiena, che mai come in questo momento mi sembrano un atto di fede, una promessa d'amore non soltanto nei confronti della band e della nostra musica, ma anche nei miei. Ripeto quel gesto non so quante volte, finché non sento il suo respiro mutare e farsi regolare, sommesso, segno che sta dormendo – e anche dopo quel momento continuo a ripeterlo, finché non sono i miei occhi a chiudersi.



*



Parigi, 28 novembre 2013

    Senza nemmeno aprire gli occhi, allungo un braccio verso l'altra metà del letto – ma quando per ben due volte le mie dita stringono il vuoto, le palpebre si sollevano con uno scatto. Impiego qualche secondo per abituarmi alla luce del sole già alto, mentre mi metto a sedere con una rapidità che non avevo mai sperimentato prima d'ora. La parte razionale del mio cervello, già eccezionalmente attiva, mi induce a pensare che Daria sia in bagno, oppure che sia scesa a fare colazione, ma l'altra parte di me – quella istintiva e passionale, quella a cui di solito do ascolto, quella che in genere non mi delude mai – pensa subito al peggio. Balzo in piedi e mi infilo i jeans, ignorando la biancheria, e mentre li allaccio mi guardo intorno, scoprendo con orrore che ogni traccia di lei è scomparsa dalla camera – come se in questi ultimi due giorni queste pareti avessero protetto soltanto me. Improvvisamente il cuore accelera i battiti, il respiro sembra mancare, e tutto ciò che riesco a fare è aprire l'armadio, frugare tra i cassetti, controllare il bagno... ma niente, di lei non è rimasto nulla – niente vestiti nell'armadio, niente spazzolino accanto al lavandino, niente scarpe allineate dietro la porta. Tutto ciò che resta è una traccia del suo profumo nell'aria, così flebile che ad ogni respiro temo di distruggerla. È allora che noto, appoggiato sul mio comodino, il mio libro – quello che le ho consegnato al termine di quel magico pomeriggio a Torino, quello che ero sicuro avrebbe custodito per sempre con la massima cura. Mentre lo prendo la mano mi trema, trema come non è successo nemmeno la prima volta che ho suonato davanti ad un pubblico immenso, e trema anche quando lo apro un po' prima della metà, nel punto in cui sono incastrati due fogli piegati. Guardo la pagina e vedo una sottolineatura a matita, così leggera da sembrare quasi invisibile. «Le lacrime del mondo sono immutabili» leggo con un filo di voce. «Non appena qualcuno si mette a piangere un altro, chi sa dove, smette.3» Muovo qualche passo per la stanza, indeciso sulla direzione da prendere, e alla fine mi lascio scivolare a terra, la schiena appoggiata contro il letto disfatto, mentre spiego i due fogli fitti di parole e mi preparo a leggere l'addio di Daria.



*



Torino, 28 novembre 2013

    Quando il cellulare squilla e sul display compare il numero di Daria, il primo pensiero di Alice è che l'amica voglia parlare di quanto è successo il giorno prima con Francesca. Per questo non è assolutamente preparata alla domanda che si sente rivolgere. «Sono a Grenoble. Tra quattro ore dovrei arrivare a Torino. Mi verresti a prendere in stazione?»



*



Parigi, 28 novembre 2013

    Shannon e Daria non si sono visti né a colazione né a pranzo, e per quanto l'istinto gli suggerisca che stiano sfruttando il tempo a loro disposizione nel modo loro più conveniente, Jared non resiste all'impulso di andare a bussare per verificare che sia tutto a posto. Bussa una volta e non riceve risposta. Aspetta trenta secondi e bussa di nuovo. Quando dall'interno sente un flebile «Chi è?» si identifica, aspettandosi di essere mandato al diavolo. Invece, incredibilmente, sente dire: «Entra».
    Jared apre la porta con un po' di timore, pur sapendo che non avrebbe avuto il permesso di entrare se ci fosse stato il pericolo di incappare in una situazione scomoda. La scena che si trova davanti, però, lo destabilizza più di quanto non sarebbe successo se avesse trovato la coppia nuda: Shannon è seduto a terra, con le mani infilate tra i capelli scarmigliati e gli occhi rossi e gonfi di chi abbia appena finito di piangere. Non ha mai visto Shannon piangere, e sinceramente non si sarebbe mai aspettato di vederlo accadere. Si guarda attorno, sperando che Daria possa dargli una spiegazione, ma la stanza è vuota – completamente vuota, fatta eccezione per le cose di Shannon, e per il libro e i fogli appoggiati davanti ai suoi piedi nudi. «Che succede?» domanda, pur se in cuor suo intuisce già la risposta.
    «Se n'è andata» sussurra suo fratello, con una voce tanto flebile che sembra davvero provenire da Marte. «Stanotte, mentre dormivo, lei... lei ha preso le sue cose e se n'è andata.»
    «Ma... ma come... perché?»
    Shannon distoglie lo sguardo, ancora troppo frastornato per parlare. Tutto ciò che può fare è porgergli la lettera, sperando che Jared capisca da sé.



*



Torino, 28 novembre 2013

    Mentre le va incontro quasi di corsa sulla banchina della stazione, Alice sente di non aver bisogno di fare domande – che sia accaduto qualcosa di terribile è chiaro, maledettamente chiaro. Abbraccia Daria con tutta la forza che ha in corpo, lasciando che le lacrime dell'amica le inzuppino la sciarpa, e sperando che nel suo abbraccio i suoi singhiozzi trovino finalmente un porto sicuro. Le accarezza la testa con dolcezza, sussurrandole di non avere paura, perché andrà tutto bene, anche se per la prima volta in vita sua non è sicura che andrà così. Se la tiene stretta come farebbe una madre, se la tiene stretta nel brusio della stazione affollata, e sente che le cose non saranno mai più come prima.



*



Parigi, 28 novembre 2013

    Jared si è lasciato scivolare a terra, alla destra di Shannon, e per la seconda volta legge la lettera di Daria, senza riuscire a convincersi che si tratti della realtà. Quella grafia tonda e ordinata lo ipnotizza, catturando i suoi occhi come una fiamma attira la falena, e nel contempo quelle parole lo feriscono come una spada affilata, riducendo in piccoli frammenti sanguinanti anche il suo cuore.

Caro Shannon,

se stai leggendo questa lettera significa che sei sveglio, e che il primo pensiero della giornata lo hai rivolto a me. Questo mi lusinga, ma allo stesso tempo mi ferisce, perché avrei voluto condividere quell'istante con te, e godere della magnifica sensazione del tuo sguardo su di me, delle tue mani che mi accarezzano il viso, e delle tue labbra che infine sfiorano le mie.

Mi hai fatta sentire amata, forse per la prima volta nella mia vita, e questo è qualcosa che non può essere cancellato. Quando ci siamo incontrati ero sola, smarrita, ferita dal tempo e dalla vita, e contro ogni previsione tu sei riuscito a farmi provare di nuovo tutte quelle sensazioni che credevo perse per sempre: mi hai dato la speranza, mi hai dato l'allegria, mi hai dato la felicità che scaturisce dal sapere che al mondo esiste almeno una persona che vive e respira per te, e questo è qualcosa che ricorderò per sempre, e per cui ti sarò sempre grata.

Quando ti ho incontrato ho capito dal primo istante che saresti stato importante, ma non avevo previsto che mi saresti arrivato sotto la pelle fino a questo punto, fino a toccarmi l'anima, fino ad intossicarmi il cuore. Ti ho mostrato la parte più nascosta di me, quella che pochi hanno avuto il privilegio (o la disgrazia) di vedere, e l'ho fatto perché mi sono fidata di te... e ti ho spiegato quanto sia difficile per me fidarmi del prossimo. A te mi sono mostrata completamente nuda, senza difese, e a te ho concesso la libertà di fare di me ciò che più ti aggradava.

E tu mi hai fatta innamorare.

No, di più: tu hai fatto sì che io ti amassi, che ti amassi e che avessi bisogno di te così come non era mai successo prima, e forse per questo dovrei odiarti.

Ti amo, non l'ho detto mai a nessuno prima di te – e forse, chissà, ci vorranno altri ventitré anni prima che trovi il coraggio di dirlo di nuovo. Basta un filo di voce per dirlo, ma quanto tempo occorre per trovarne la forza?

Mi piace pensare di non essere stata la sola a dare tutta se stessa in questa nostra storia: credo – anzi, ne sono convinta – che tu ti sia aperto quanto me, che tu ti sia mostrato più di quanto abbia mai fatto nella vita, e questa consapevolezza (o convinzione, chiamala come vuoi) mi ferisce ancora di più, considerando che sto facendo le valigie e ti sto lasciando. Forse ti sembrerà impossibile e anche un po' egoista da parte mia dire così, ma ti assicuro che in questo momento sto soffrendo molto più di te – perché sì, anche quello che lascia può soffrire, e a volte anche più intensamente di chi viene lasciato.

Mi hai regalato un mese meraviglioso, un tempo che non potrà essere cancellato né sostituito, ricordi che mi resteranno per sempre, e per i quali ti sarò per sempre immensamente grata... ma sappiamo entrambi che non è questo il destino che ci attende. Potremmo continuare a fingere per un altro mese, forse due, forse sei, forse mille, ma alla fine è con questo che ci troveremmo a fare i conti – e per quanto mi ferisca, per quanto ti ferisca, chiuderla qui è l'unica soluzione possibile. Non occorre che te ne spieghi i motivi, non occorre che sprechi tempo e spazio per dire quello che entrambi sappiamo, e che forse in questo mese abbiamo tenuto nascosto a noi stessi. In questo momento probabilmente ti senti ferito, ingannato, tradito e arrabbiato con il mondo e soprattutto con me, ma sono certa che tra poco inizierai a riflettere sulle mie parole, e capirai che è meglio finirla qui, prima che entrambi finiamo con il farci del male.

Sei stato importante, Shannon, e mi hai fatta sentire amata per la prima volta in vita – l'ho già detto, vero? Lo so, ma non mi importa. Non fa mai male ripetere la verità.

Ti chiedo soltanto una cosa, e spero che riuscirai ad obbedire, in nome del sentimento che ci ha legati, anche se per così poco: non cercarmi. Non chiamarmi, non scrivere, e non fare un'altra pazzia come venire a casa mia. Fingi di non avermi mai incontrato, fingi di non essere mai stato attratto da me, fingi di non avermi mai baciata, fingi che la mia presenza non abbia mai toccato la tua vita.

Finiamola così, come abbiamo cominciato: nel buio, e nel silenzio.

Addio,

Daria


    Jared abbassa i fogli, sentendo gli occhi farsi lucidi e brucianti: chi avrebbe mai pensato che una simile ragazzina potesse fare tanti danni al cuore di un uomo? Guarda Shannon, e comprende immediatamente la ragione dell'aspetto devastato di suo fratello: chi non si sentirebbe a terra, vedendosi strappare dalle mani l'unica occasione di felicità che sia mai riuscito a stringere? Sta per parlare, quando davanti alla porta ancora spalancata transita a passo veloce Tomo, che poi torna indietro e si ferma, guardando la scena. «Eccovi qui, vi stavo giusto cercando. Ma che succede?»
    «Daria se n'è andata» risponde Shannon. «Ha lasciato una lettera. Puoi leggerla, se vuoi.»
    Tomo prende i fogli dalle mani di Jared e si siede a terra con loro, alla sinistra del batterista. Quando finisce anche la seconda pagina, apre e richiude la bocca senza dire niente per un paio di volte. «Che cosa hai intenzione di fare?»
    «Che cosa dovrei fare?»
    «Non hai intenzione di precipitarti da lei per impedirle di lasciarti?» chiede Jared, in verità un po' sorpreso che suo fratello non stia già preparando i bagagli per Torino.
    «Mi ha chiesto di non farlo.»
    «E da quando sei uno che fa quello che gli viene ordinato?» replica stupito Tomo, restituendogli la lettera.
    «Glielo devo» sussurra Shannon. «Sono stato il primo a darle quello di cui aveva bisogno» aggiunge. «Aveva bisogno di sentirsi amata, e io le ho dato amore.» Guarda ancora i fogli che tiene fra le mani. «Le ho dato quello di cui aveva bisogno, e ora non posso negarle quello che vuole.»
    «Non credo di capire» sussurra Jared, sorpreso di vedere un lato così dimesso e intimo di suo fratello.
    «Vuole che la lasci sola, e non posso negarglielo. Lei mi ha sempre rispettato, mi ha dato fiducia, e se adesso io... ignorassi la sua richiesta la tradirei. Per quanto la tentazione sia... irresistibile, io non... non lo posso fare.» Deglutisce, tenendo gli occhi bassi, e i due amici capiscono quanto a ferirlo non siano le parole o l'abbandono, ma piuttosto la consapevolezza che restare immobile a sanguinare sia l'unica soluzione possibile per rimanere coerente con le promesse fatte.
    Restano immobili e in silenzio per quelli che forse sono dieci minuti, o forse secoli, e all'improvviso Shannon rialza la testa, guardando Tomo: «Hai detto che ci stavi cercando, poco fa. Che cosa volevi dirci?»
    «Oh, è vero, io... ma forse non è il caso, visto quello che sta succedendo.»
    «No, dai, parla» lo incalza, disposto a fare di tutto pur di non pensare ai suoi problemi.
    «Beh, sembra... sembra che Vicki e io ce l'abbiamo fatta. Questa mattina presto ha fatto un test, e... beh, sembra che sia positivo» conclude con un timido sorriso, quasi non riuscisse a convincersene.
    «Congratulazioni, sono davvero molto felice per voi» sorride Shannon, pensando che probabilmente questa sia l'unica notizia in grado di risollevargli l'umore, anche se per poco.
    «Era quello che volevate, no? Congratulazioni» aggiunge Jared, davvero felice per l'amico.
    «Sì, era proprio quello che desideravamo. Domani prenderemo un aereo e torneremo a Los Angeles. Vuole vedere il suo medico il prima possibile, per... beh, per le solite cose. Ma se volete che resti, io posso anche...»
    «Non c'è alcun bisogno che resti, non ti preoccupare» lo rassicura Shannon. «Anzi, forse potrei tornare anch'io a casa prima. Tanto qui non c'è bisogno di me, no?»
    «No, ma... sei sicuro di voler restare solo?» gli domanda il fratello.
    «Ma io non sono mai solo» risponde l'altro, guardandolo con due occhi che esprimono tutta la sua gratitudine per avere un fratello come lui, sempre pronto ad aiutarlo e stargli accanto. «Non hai un'intervista, a proposito?»
    «Posso rimandarla, se...»
    «Non è il caso, tranquillo. Io starò bene. E tu vai da tua moglie, avete molto di cui festeggiare» aggiunge, dando di gomito a Tomo.
    Recalcitranti, Jared e Tomo si alzano e lasciano la stanza, guardandosi indietro mille volte, sperando che Shannon sia sincero, e che non stia soltanto recitando una parte per evitare di coinvolgerli nel suo dolore. Lo salutano e gli promettono di tornare presto da lui, ricevendo in cambio un sorriso così spontaneo da illuderli che il cielo sia veramente sereno.



*



Parigi, 28 novembre 2013

    Appena tornata a casa, senza dire una parola e senza nemmeno disfare i bagagli, Daria ha chiuso ogni ricordo di Shannon in una vecchia scatola da scarpe: la maglietta che lui le ha regalato, il fiore di stoffa usato per decorare il vassoio quella mattina che le ha portato la colazione in bagno, i novanta post-it che le ha sparso per l'appartamento, i preservativi dimenticati sulla scrivania, il biglietto da visita di Emma, una copia di tutte le fotografie che ha di lui, anche delle più recenti, che scarica rapidamente sul portatile e stampa mentre vaga per la stanza raccogliendo tutto ciò che non vuole più incontrare sul suo cammino. Alice resta immobile in cima alle scale che conducono in camera, guardandola senza dire una parola sul fatto che nascondere Shannon alla vista non lo cancellerà dal cuore, e che in qualche modo il passato tornerà a far sentire il suo morso. La guarda cancellare il numero dalla rubrica, senza trascriverlo da nessuna parte, e poi la guarda infilare anche i cd nella scatola. «Perché anche i cd?» domanda a quel punto, con un filo di voce.
    «Perché... sentirei soltanto Christine.» Alice annuisce, tornando a rinchiudersi nel proprio mutismo. Vorrebbe dirsi d'accordo con quella decisione, ma in cuor suo sa che è un'idea cretina – solo, vuole troppo bene a Daria per metterle sulle spalle ancora un altro dolore. «Fatto» sussurra Daria, mettendo il coperchio sulla scatola. «Puoi tenerla tu per me?» le domanda, porgendole il pacco.
    «La terrò io per te» sorride Alice, sfilandole il peso dalle mani.
    «Hai detto a qualcuno che venivi a prendermi?»
    «No.»
    «Neanche a Francesca?»
    «A nessuno.»
    «Potresti mantenere il segreto? Mi terrò nascosta fino a sabato, poi... non so, a papà racconterò che sono tornata a casa in anticipo perché ho finito il budget. Mi crederà. A Marco non è il caso di raccontare nulla. Gli dirò che mi sono divertita, questo gli basterà.»
    «Manterrò il segreto, ma... Daria, vorresti solo spiegarmi che cosa stai facendo?»
    L'altra ragazza alza la testa, gli occhi resi ancora più azzurri dalle lacrime che sta furiosamente cercando di trattenere. «Sto facendo la cosa giusta, tutto qui.»
    «Anche se ti fa soffrire come un cane?»
    «Nessuno ha mai detto che fare la cosa giusta fosse indolore.»



*



Parigi, 28 novembre 2013

    Rassicurati gli amici, chiusa la porta, Shannon resta solo. Appoggia la schiena al pannello e chiude gli occhi, cercando di convincersi che quando li riaprirà non sentirà dolore. Non sentirà dolore, non soffrirà, anche se quella pressione che sente all'altezza del cuore somiglia proprio ad un coltello piantato a tradimento – piantato e rigirato nella ferita più e più volte, come a ricordargli che è mortale, che è un essere umano, e come ogni essere umano deve soffrire, prima di trovare la sua pace.



1E ipotizzo di non averti mai incontrato, ipotizzo che non ci siamo mai innamorati, ipotizzo di non averti mai permesso di baciarmi così dolcemente e teneramente. | Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone Fidelity di Regina Spektor, contenuta nell'album Begin To Hope, pubblicato nel 2006.
2Mi sento cresciuta come non lo sono mai stata, […] prima di essere ritenuta tale. | Questa dev'essere la settimana delle Citazioni Sgraffignate. Dopo aver attinto alla filmografia di Martin Scorsese, sconfino nel campo della musica e rubo una frase alla mitica Blowin' in the wind, incisa da Bob Dylan nel 1962, e inserita poi nel disco The Freewheelin' Bob Dylan, uscito nel 1963. Ecco la frase originale: “How many roads must a man walk down before you call him a man?”, ovvero “Quante strade deve percorrere un uomo prima di essere chiamato uomo?”.
3Le lacrime del mondo sono immutabili. Non appena qualcuno si mette a piangere un altro, chi sa dove, smette. | La citazione è tratta da Aspettando Godot , opera teatrale in due atti scritta dall'autore anglo-irlandese Samuel Beckett nel 1952. Si tratta di una delle più importanti opere appartenenti al teatro dell'assurdo, un non-movimento letterario nato in Europa negli anni del secondo dopoguerra. Si tende a definirlo un non-movimento in quanto, a differenza di altre correnti (Romanticismo, Futurismo eccetera) non originò mai né manifesti, né progetti, né scuole – si tratta semplicemente di un termine coniato da un critico dell'epoca, che trovando molti punti comuni tra le opere di diversi autori (Beckett, Ionesco e altri) volle tentare di raggrupparle in un unico insieme. Personalmente, amo questo tipo di opere, Aspettando Godot su tutte – se non l'avete mai letto, vi consiglio di farlo. Se non altro per farvi un paio di sane, grasse risate.

   
 
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