Andy
L’eco del battito del mio cuore è così
frastornante che mi fa venire mal di testa.
C’è desolazione. C’è vuoto. C’è buio.
Non vedo, non tocco, non sento. Ci sono solo io e il mio respiro irregolare che
a volte rallenta e a volte scappa, indeciso su cosa fare perché c’è qualcosa
che mi sta inseguendo e non so cos’è.
Forse è la mia ombra.
Ma non è facile distinguerla tra tutte
le altre.
Buffo.
Un tempo volevo che fossi io a non
distinguermi tra tutti gli altri. Poi ho pensato che sarebbe stato meglio
essere diverso. Più facile. Più spontaneo. Meno impegnativo. Meno pressante.
Invece mi sono reso conto che anche se
vuoi essere l’unico hai delle responsabilità. Ci si aspetta qualcosa da te
anche se sei un ribelle, anche se sei un terrorista, anche se sei un martire,
anche se sei una persona normale. C’è sempre qualcuno che sceglie per te
un’etichetta e in un cassetto ha nascosto un vademecum che non conosci, che non
sapevi neanche esistesse, e quando non ti ci attieni c’è chi si incazza, c’è
chi si meraviglia, c’è chi ti ammira, c’è chi ti odia.
Io sono il tipo che mi odia.
Mi guardo allo specchio e vedo qualcuno
che conosco, ma che non sono io.
Vedo il me stesso che vorrei essere.
Vedo il me stesso che vedono gli altri. Vedo l’aspirazione delle ragazzine, il
figlio unico di cui andare orgoglioso, il fidanzato e promesso sposo di una
cantante vincitrice di uno dei più famosi talent canori, il frontman di una
band che sta ascendendo al successo, un corpo tatuato che racconta più storie
della voce, un bel ragazzo dagli occhi blu e la bocca che fa impazzire uomini e
donne. Mi vedo. Mi guardo. Mi scruto. Mi cerco.
Cosa c’è di me in quest’immagine? Quanto
c’è di me in quest’immagine?
Cosa è vero?
Ci sono giorni in cui mi sveglio e mi
sento dio che cammina tra i mortali.
Ci sono giorni in cui mi sveglio e mi
chiedo cosa c’è di sbagliato.
Quand’è che il mio percorso si è
trasformato in un bivio? Da quando ho deciso di imboccare entrambe le entrate?
Non lo so. Non me lo ricordo. Non me ne sono accorto.
Probabilmente ho fatto finta di niente.
A dieci anni ero un asociale che non
stava mai zitto e che pur di esprimersi parlava col gatto, con la tastiera, con
la finestra, con la carta, da solo.
A quattordici anni ero un emarginato dal
taglio pesante che amava le poesie, quelle senza troppo senso, banali,
scontate, dozzinali, prive di metrica, ma che mi aiutavano a comunicare. A dire
qualcosa.
A diciassette anni ero un eversivo che
camminava a passo lento per accertarsi che nessuno gli stesse tendendo un
agguato per pestarlo a tradimento, che suonava in una band, che alimentava
sogni di gloria, determinato.
Sono sempre stato determinato.
Ho sempre saputo cosa volessi.
Almeno credevo.
Ne ero convinto. Sinceramente.
Ingenuamente.
Volevo essere qualcuno. Volevo
fare la differenza, essere un punto di riferimento, un termine di paragone, un
archetipo. Volevo un rispetto che derivava dalla bravura, dal carisma, dal
fascino, dalla temperanza. Volevo che tutti al mondo si accorgessero che non
ero uno qualunque, che ero capace di lottare e vincere, di conquistare e
mantenere, e soprattutto di meritare.
Volevo meritare quel rispetto, quella
gloria, quel successo. Con le mie forze, con le mie cadute, col mio ardimento,
con quello che sapevo e quello che avrei imparato, volevo essere all’altezza
dei miei sogni.
Volevo essere felice.
Non ho mai saputo spiegare bene il
preciso perché delle mie aspirazioni. Dovrei parlare di un argomento vasto, infinito,
ramificato e intrecciato, e nonostante ci abbia provato più volte non sono
ancora riuscito a trovare una base logica.
È come se io fossi una lente, e tutto
ciò che provo, che sento, che assimilo viene rinfranto come se all’interno di
un prisma, e poi acuito, rimandato, ampliato, lievitato fino a che non mi vedo
costretto ad aprire una valvola di sfogo per far sì che non mi consumi
dall’interno.
E questa valvola di sfogo è il canto. La
scrittura, la musica, le note, i concerto, i Black Veil Brides.
È una vocazione. È una missione. Sono io.
Sono nato per questo.
La mia non è una passione, né un
passatempo, né un lavoro. È ossigeno. È ciò che mi serve per vivere, senza il
quale morirei, morirei di consunzione, di depressione, di frustrazione, di
dolore, d’inedia.
È una consapevolezza che avverto, che
percepisco, che distinguo nitida e cocente ogni momento della giornata, è il
motore che muove le mie azioni, è un’inclinazione della mia anima,
un’attitudine naturale, piantata così a fondo del mio spirito che l’una non può
esistere senza l’altro e viceversa.
Ho sempre saputo di essere nato per
cantare. Per raccontare, per scrivere, per urlare e sussurrare al mondo, per
narrare la grandezza, l’immensità, l’infinito universo di sensazioni, emozioni
e sentimenti che si evolvono, che sfociano, che sbocciano, che scappano, che
scoppiano. Questo ero io. Volevo essere la voce di un popolo, l’emblema dei
gruppi, il cavaliere di un regno.
Volevo.
Adesso?
Lo voglio ancora.
Ma sono rimasto invischiato.
Non mi ero accorto che per essere la
voce sarei dovuto crescere così in fretta.
Non mi ero accorto che per essere
emblema avrei dovuto stare al passo con un universo dove il tempo scorre senza
ordine.
Non mi ero accorto che per essere
cavaliere avrei dovuto sacrificare qualcosa di tanto prezioso.
Me stesso.
Eppure so di esserci. So di essere io.
So di essere da qualche parte.
Dicono che le tre di notte siano il
momento in cui il sonno si avvicina di più alla morte. Buffo. Io alle tre mi
sveglio.
O forse muoio.
È il momento in cui mi sento gridare
senza corde vocali. Grido, grido forte come se avessi bisogno di distruggere,
di attirare l’attenzione, di annientarmi, grido fino a stordirmi e sfiancarmi,
un grido che dura l’istante che serve per passare dal torpore alla veglia e di
cui già ho dimenticato l’origine, e rimango con un’ondata di tristezza
devastante che mi paralizza, che mi toglie il fiato, che mi dissocia luna dopo
luna sempre più dalla realtà.
Non so qual è il problema.
Non so se è soltanto uno.
No.
Non lo so.
So che mi sto dividendo.
Ho ventitre anni e mi rendo conto di
essermi perso. Mi sto perdendo.
Sono una miscela di olio e acqua, due
densità incompatibili hanno scisso la mia anima e si allontanano, si dirigono a
poli apposti ostentando silenzio, un silenzio assordante, un silenzio che ha la
stessa brutalità lacerante del grido con cui mi sveglio e che viene da entrambe
le parti, in alternanza.
So cosa voglio.
Credevo di saperlo.
Credevo di averlo sempre saputo.
Non è vero.
Voglio essere lo stendardo che marchierà
la società in difesa di tutti coloro che non possono alzare la testa, voglio
essere il liberatore di chi vive ogni giorno nell’apnea dell’incomprensione,
voglio essere il volto da associare a quando si desidera cambiare le cose, sì.
Ma non in questa maniera.
Non come l’Andy Biersack che appare nei
video. Non come l’Andy Biersack che non sorride mai. Non come l’Andy Biersack
che si rende protagonista al posto degli altri.
Non come l’Andy Biersack che tutti
conoscono.
Sono così falso.
Così impreciso.
Così automatico.
Il mio agire è in funzione di meccanismi
che ho appreso inconsciamente e che adopero ormai in qualunque attimo della mia
vita, sono un predefinito che si è costruito il proprio schema e vi si agita
all’interno perché troppo piccolo, mi sono rinchiuso in una gabbia e ho
dimenticato dov’è l’uscita. Sono diventato come gli altri, alla fine.
Rarefatto, condizionato, insofferente.
Non soffro nulla.
Ho cominciato a preoccuparmi quando mi
sono accorto che l’unica sensazione che mi fa sentire me stesso è il dolore.
Mi desto quasi ogni mattina accanto alla
ragazza che amo, e la felicità che provo è sbiadita, priva di contorni,
difficile da mettere a fuoco.
Ho una coppia di genitori meravigliosi
che per realizzare i miei sogni hanno modificato i loro, e la gratitudine che
percepisco è latente, flebile, incorporea.
Passo le mie giornate con i migliori
amici che avrei mai potuto trovare sulla faccia della Terra e l’entusiasmo è
soffocato, smorzato, tremante come una fiammella sotto un alito di vento.
Sono la persona peggiore che conosco.
Sono la persona che ha bisogno di
analizzare quel che non va nella mia vita unicamente per darmi energia, per
trovare un appiglio, per creare un alibi per il sottoscritto in modo da fingere
di stare bene pur sapendo che ho la necessità di stare male. È orribile.
Ho l’impressione che più le mie due
parti si distanzieranno e più non riuscirò a far coincidere il mio interno dal
mio esterno. Fingerò. Fingo già. Fingo di essere un uomo mentre sono un
ragazzino. Fingo di essere felice mentre non lo sono. Fingo di amarmi, mentre
non è vero. Fingo di sapere cosa voglio mentre non ne ho davvero idea. Fingo di
adorare la compagnia delle persone che mi circondano mentre in realtà vorrei
stare da solo.
Solo.
Solo con me stesso.
Vorrei fare pace con me stesso.
Chiedermi scusa.
Dirmi che il successo che mi ha
trasformato in un manichino può andare anche in direzione contraria. Dirmi che
c’è ancora la possibilità di diventare il modello che io desideravo essere e
non quello che gli altri si aspettavano diventassi. Dirmi che mi basterebbe
voler cambiare per farlo veramente.
Vorrei essere capace di convincermi.
Vorrei essere capace di cambiare le cose.
Vorrei averne il coraggio.
Non ho paura di morire. Ho paura di non
riuscire a salvarmi.
Ho paura che, una volta solo, mi
scoprissi insignificante quanto avevo il terrore di essere al liceo.
Alla fin fine mi riduco a questo.
Sono un venduto.
Sono una marionetta.
Sono uno tra i tanti.
E non faccio la differenza.
Sono caduto nella stessa ragnatela dove
prima di me sono caduti altri, molti altri, dove stanno ancora, sguazzando in
una penombra che riluce di tanto in tanto per illuminarli con una misericordia
di scherno, quindici minuti di gloria per una vita di niente.
Il vecchio me non guardava in faccia a
nessuno, insultava chi desiderava insultare, non si curava del giudizio degli
altri, dimostrava le proprie emozioni. Il me di adesso pensa allo showbiz, a
fare bella figura, a trovare l’outfit adeguato al personaggio, a rispettare le
regole implicite del mondo della musica.
Il vecchio me agiva d’istinto,
rispettava il proprio ego, non pensava al domani. Il me di adesso riflette
prima di fare, di dire, di cantare, si comporta in funzione di terzi e non di
sé.
Il vecchio me considerava la musica una
dimensione estrinseca, mentre quella intima era rappresentata dalla famiglia,
dagli amici, dalla dignità, dalla tranquillità, dalle piccole cose quotidiane
che fanno stare in pace. Il me di adesso ha perso i paletti.
Dove sono i confini? Dove sono i limiti?
Dov’è la linea che definisce cosa è da me e cosa non lo è?
Mi sento un riflesso. Un riverbero
confuso dall’identica cornice ma dalla sostanza evanescente, mi segue ovunque, mi
fissa come se fosse lui a voler focalizzare me al punto da costringermi a
chiedermi se non sono io quello privo di essenza.
Sento rabbia.
Una rabbia caliginosa e impolverata che
si leva e si posa come una marea cinerea, imprevista e autonoma, alimentata
dalle sensazioni che mi ribollono dentro e di cui mi sforzo di ricordare i nomi.
Rabbia verso chi non si accorge che sono
diverso, che sono cambiato, che sono finto, rabbia verso chi continua ad
assecondarmi in questa discesa nella disgiunzione, rabbia verso chi mi ha
condotto in un labirinto da cui non so uscire.
Rabbia verso le persone che mi amano.
Rabbia verso le persone che amo.
Perché non se ne sono accorte.
Perché non mi tendono la mano.
Perché non si fermano, non mi guardano,
non comprendono.
Io non sono io.
Io sono un debole.
Sono fragile.
Ho ancora bisogno di un abbraccio quando
mi sento spaesato.
Ho ancora bisogno di affetto quando mi
sento sopraffatto.
Ho ancora bisogno di un incoraggiamento
quando mi sento avvilito.
Ho ancora bisogno di attenzioni quando
mi sento dimenticato.
Ho ancora bisogno di una carezza prima
di addormentarmi.
Ho ancora bisogno che qualcuno asciughi
le mie lacrime quando stare solo con me stesso mi spezza il cuore.
Ho ancora bisogno di qualcuno che mi dia
forza quando io non ne ho.
Dove sono, tutti quanti?
Perché credono alla facciata che mi sono
costruito?
Perché non mi scuotono le spalle e non
mi dicono che sono cambiato?
Perché non mi prendono a schiaffi finché
non confesso cosa c’è che non va?
Perché non ho il coraggio di fare il
primo passo?
Perché ho paura.
Ho talmente paura di essere rifiutato da
non riuscire a stare sulle gambe.
Ma forse sono io a fare la vittima.
Forse sono io a non capire come funzionano le dinamiche. Forse sono io a essere
incapace di adeguarmi a un sistema che mi vuole così, artificiale, plastico,
perfetto, forse sono io a non essere bravo a gestire la differenza tra verità e
immagine, forse ho combinato un casino cui non riesco a rimediare.
Vorrei essere in grado di chiedere l’aiuto
che mi serve.
Vorrei cadere ai piedi di Juliet e
supplicarla di piantarla di trattarmi come se fossi il meglio le sarebbe potuto
capitare.
Vorrei gettarmi tra le braccia di mia
madre e rimanere lì a piangere fino a che non sarò troppo stanco per stare sveglio.
Vorrei tornare indietro nel tempo a
quando mio padre mi spettinava i capelli e faceva insulse raccomandazione da
genitore perché voleva proteggermi.
Vorrei interrompere un concerto e
ordinare ai fan di non guardarmi come se fossi una divinità.
Vorrei dire a Jake, a Jinxx, a CC, a
Ashley che non è mai mia intenzione eclissare la loro presenza a ogni evento
cui partecipiamo insieme.
Vorrei parlare con Ash per sentire di
nuovo la sua voce quando assume quel tono gentile che ha smesso di usare con me.
Ash.
Ashley Purdy.
Il primo che mi abbia davvero guardato.
Il primo che mi abbia davvero visto. Il primo che mi abbia davvero
ascoltato. Il primo che mi abbia davvero sentito.
Tanti, tutti pensano che il membro dei
BVB a cui sono più legato è Jinxx, perché è il più grande, il più eclettico, il
fratello maggiore.
A Jinxx voglio bene, un bene sconfinato.
Ma il mio fratello maggiore è Ash. È sempre stato Ash.
Fin da quando ero un ragazzino emo col
trucco da Halloween, fin da quando mi sono fermato in mezzo a un marciapiede di
Santa Monica facendo inciampare una signora che mi ha lanciato una serie di
bestemmie, fin da quando sono rimasto folgorato dalla sua immagine nella
locandina che pubblicizzava il concerto della sua band al Galaxy il ventitre
marzo di troppi anni fa.
Ashley, un paradosso inspiegabile, tanto
superficiale quanto interiore, volutamente frivolo nel suo mantenere una
barriera divisoria tra sé e il resto del mondo.
Era la mia guida. Il mio modello. Una
mano, una spalla, un sorriso. Ammetto di non aver mai avuto buongusto nello
scegliermi gli idoli.
Avrei potuto ammirare l’integrità e
l’individualità di Jake. Avrei potuto adorare la dolcezza e la sensibilità di
Jeremy. Avrei potuto stimare l’originalità e la genuinità altrui di CC. Avrei
potuto prendere a esempio mio padre, Rob Cavallo, Jeff George, o un mucchio di
altre persone che conosco più o meno bene.
Invece, Ash.
Presuntuoso, ma in una maniera che non
si rende sgradevole. Imprevedibile, nel ventaglio completo delle accezioni che vanno
dal positivo al negativo. Narcisista, sicuro di sé e per questo pronto a
scherzarci sopra. Imperscrutabile, come solo le persone consapevoli della
propria integrità sanno essere. Solitario, senza la paura di rendersene conto. E
forte.
Ashley Purdy è l’uomo più forte che io
conosca. È come se non avesse paura di niente. Perché tutto gli è già accaduto.
Mai un cedimento. Mai una lacrima. Mai
un crisi di nervi. Mai una manifestazione di dolore, di amarezza, di tristezza,
di sofferenza.
Vorrei di essere capace di combattere
contro i miei fantasmi con la medesima temperanza con cui lo fa lui. Non li ho
mai conosciuti, i suoi fantasmi, ma so, sento che le loro catene sono
pesanti, stringono, feriscono, soffocano. Tuttavia è ancora qui. È ancora
vicino a me. Da allora, dal Galaxy, da quando quel ragazzo conciato come uno
dei Kiss mi ha sorriso e mi ha salvato il culo da una folla che di certo mi
avrebbe pestato fino a farmi sputare i denti.
Non si è lasciato sopraffare, non si è
lasciato intimorire, non si è lasciato sconfiggere. Resiste, lotta, tiene testa
a un passato di cui non sono mai riuscito a strappargli una cartolina e
continua a essere forte, continua a perseverare, continua a vivere.
Io no.
Io mi sono fermato.
Io mi sono arreso. E le conseguenze arriveranno.
Sento rabbia anche verso Ashley Purdy.
Soprattutto verso Ashley Purdy.
Perché vorrei che andasse oltre. Vorrei
che specchiasse la sua battaglia con la mia e creassimo una sola guerra. Vorrei
che mi leggesse negli occhi il vuoto che avverto. Vorrei che mi salvasse perché
è l’unico in grado di farlo. Vorrei che mi salvasse di nuovo.
Vorrei che la distanza che si è
cementata tra noi negli ultimi mesi si sgretolasse. Vorrei provare ancora la
sensazione di sentirmi compreso nell’interezza della mia identità. Vorrei che
tornasse a trattarmi come se mi amasse.
È colpa mia. Probabile.
Ha capito che non sono l’Andy Biersack
che ha conosciuto. Ha capito che mi sono trasformato. Ha capito che in me ci
sono cose che non funzionano più. Ha capito che la vicinanza degli esseri umani
mi fa male. Perché mi ricorda che sono apatico, arido, miserabile, bugiardo.
Ma non vorrei che se ne andasse. Vorrei
essere capace di chiedergli di salvarmi.
Non ci riesco.
Persino le mie canzoni mentono.
Non sono un salvatore. Non lo sono mai
stato.
Un giorno finirà.
Un giorno finirò.
Forse crollerò in ginocchio in un’arena
durante un concerto e farò una scenata pietosa di fronte agli spalti gremiti.
Forse darò di matto in studio strappando
il microfono dalla giraffa e scaraventandolo contro la vetrata della produzione
sperando di ucciderli tutti.
Forse esploderò sul bus-tour e litigherò
furiosamente con la band, griderò all’autista di fermarsi e scenderò nel mezzo
del deserto del Nevada.
Forse semplicemente spegnerò il me che
sono diventato. E scomparirò.
E nessuno si chiederà dov’è finito il
vecchio me.
«Tra quindici minuti in studio per il
sound check.»
Una voce che non è un mio pensiero.
Sbatto le palpebre, scruto il vuoto. Quello che ho dentro. Quello che si
illumina di una scintilla insignificante quando Ashley ritorna sul mio cammino.
Mi volto verso la porta. È fermo sulla
soglia.
I capelli lucidi, serici e neri, la
mascella affilata, iridi che mi hanno sempre ricordato bottoni antichi o
pietruzze preziose allo stato grezzo. La carnagione invitante, il fisico
scolpito, l’espressione distaccata.
Gli sono indifferente.
Ashley, che è legato a me da un filo
sottile come una ragnatela da cui vorrei essere imprigionato.
Ashley, che mi ha sempre sorretto.
Ashley, che mi ha sempre capito.
Ashley, che nonostante tutto seguita a
capirmi.
«Cosa c’è che non va?»
Lo guardo. Lo fisso. Lo imploro.
Ascoltami.
Aiutami.
Salvami.
Ho bisogno di te.
Ho un così disperato bisogno di te da
non riuscire a respirare.
Ho un così disperato bisogno di te da
desiderare di essere soltanto noi due.
Ma so di meritarmelo.
So che la responsabilità del mio
abbandono mi appartiene, è incollata alla mia pelle e mi erode, mi ingoia, mi
frantuma. Sono io a essere cambiato senza accorgermene. Sono io a essere stato
inetto.
Sono io ad aver sbagliato.
E mi vergogno. Mi rinnego, mi depreco,
mi detesto, mi affogo nei sensi di colpa, nell’imbarazzo della mia stupidità,
nell’onta di essere un mediocre.
Sono un fallimento.
E ho paura che loro sappiano.
Ho paura che se ne rendano conto.
Ho paura che il vero me sia ciò che Ash
odia di più al mondo.
Mi alzò con una mossa fluida e fingo che
il mio cuore non sanguini.
«Niente.» Niente, quello che sono,
quello che provo, quello che dico.
Sono una manciata di polvere negli occhi
dell’apparenza fatta per ingannarla e ingannarmi fino al giorno del giudizio.
«Ci vediamo là.»
Gli passo accanto con freddezza,
involontaria, autodifensiva. Non ricordo come si voglia bene. Non ricordo come
sia un sentimento vero. Non ricordo com’è il fremito di quando sono con Ash.
E mentre mi dirigo allo studio vorrei
fermarmi, vorrei tornare indietro, vorrei solo chiedergli «Se scomparissi, mi
verresti a cercare?»
_______________________________________________________________________
Buoooooooongiorno
lettori, e buon Ferragosto anche se un po’ in ritardo! ;)
Eccolo
qui il V° e ultimo capitolo di questa piccola raccolta di scatti introspettivi
che spero vi sia piaciuta.
Abbiamo
visto prima CC, tra vecchi rimpianti e l’attesa di un ritorno che forse non
arriverà mai; poi è arrivato Jinxx, disperato del finire di un matrimonio per
cui avrebbe sacrificato tutto; poi un Jake scienziato, un valutatore obiettivo
e discreto che nell’impossibilità di poter aiutare concretamente gli amici gli
sta accanto per ogni cosa. È arrivato poi Ashley, diviso tra due segreti che si
fondono in uno e da cui vorrebbe riuscire a scappare; e oggi è stato finalmente
il turno di Andy, immerso in una solitudine senza uscita.
Punti
di vista diversi, percezioni stesse delle proprie esistenze differenti, superfici
di specchi dove i protagonisti si vedono in un modo e il resto del mondo dall’altra
parte li vede in un altro.
Spero
che queste shot introspettive vi siano piaciute, e spero di aver reso giustizia
a questi cinque personaggi che sto continuando a maltrattare per diletto
personale! :P
Grazie
a tutti voi che avete letto, preferito, seguito, ricordato, grazie a chi ha
recensito e a chi mi ha scritto per dirmi che non vedeva l’ora di leggere l’ultimo
capitolo.
Grazie
a voi che avete apprezzato queste fotografie inventate (ma forse anche no) e
spero di sentire il vostro parere per quest’ultima. ;)
Non
mi resta che darvi appuntamento alla mia long-fiction Look Around se volete
godervi un’altra mia FF sui Black Veil Brides, e vi lancio tanti baci di
ringraziamento e d’affetto! :*
Alla
prossima!
My personal blog
Me on Twitter
Me on Facebook
Me on Google+
Me on Goodreads