capitolo 51
Capitolo LI
Nodi
su Nodi
La camera
degli interrogatori era una stanza con le pareti in pietra, poche
finestre, pavimentazione maleodorante e sporca: Tavington si trovava
lì.
Aveva
lasciato Banastre sul campo a contenere l’invasione e fare
una censita dei morti e feriti.
Lui, invece,
aveva preso alcuni ribelli, che erano rimasti in vita, e stava
procedendo alla loro interrogazione.
“Non
credo di aver capito bene, soldato” disse, freddo, Tavington.
“Non
vi dirò niente” urlò, l’altro.
“Altre
dieci” ordinò il Colonnello, all’uomo
barbuto che faceva da esecutore in quel momento.
L’uomo
agitò in aria la frusta e la fece cadere pesante sulla
schiena nuda del ribelle.
“Aah!”
ruggì l’uomo, mentre sopportava
l’ennesima frustata del giorno.
“In
un modo o nell’altro, scoprirò cosa state tramando
e troverò il vostro Fantasma” esclamò,
atono, Tavington.
Un’altra
frustata, la schiena si stava decorando con lunghe linee perfette
rosse, sebbene fosse sotto tortura da ore, ancora non si accingeva a
spifferare alcun dettaglio.
“Anche
l’altra volta a Savannah lo avevate detto” lo
sfidò, quasi in fin di vita “eppure, eccoci
qua!”
Tavington
rise, si avvicinò con passo felpato al ribelle
“riguardo questo piccolo dettaglio, non farò lo
stesso errore due volte” poi, afferrò la spada che
si trovava sul tavolo.
Senza dire
niente, afferrò la testa dell’uomo e poi gli
staccò il capo.
Fu veloce,
freddo, silenzioso, non volle accompagnare il suo atto da qualche
giustificazione, non volle addolcire la pillola.
William
durante l’inizio della guerra, aveva mostrato
brutalità incommensurabili: sotto il Generale Wentworth
aveva brillato. Il vecchio era debole, sebbene il Colonnello si fosse
guadagnato la terribile nomea del macellaio,
lui non lo aveva giudicato. Anzi, lo aveva aiutato a salire di
gerarchia, già, perché William gliene aveva fatto
vincere di battaglie!
Era venuto
nelle colonie per dimenticarsi di Scarlett, lei era stata una profonda
delusione, era stata la prima volta per lui di aprirsi con una donna,
si era donato completamente e lei lo aveva tradito e non con una
persona qualunque: Banastre.
William aveva
scelto di seguire Wentworth proprio per evitare di avere rapporti con
il suo ormai ex migliore amico, ogni volta che lo guardava in faccia,
non poteva non ricordarsi quella
scena: lui e Carly.
“Portatemene
un altro” ordinò, cercando di far sparire dalla
sua mente i ricordi passati.
Il Tenente
Kent buttò per terra un uomo: era paffuto, sguardo chino.
Provò ad alzarsi, ma barcollava, non era ferito, eppure non
si reggeva in piedi, sembrava molto teso.
“Colonnello,
io vi supplico…” lo pregò
l’uomo, senza che l’altro avesse ancora dato inizio
veramente alla tortura.
“Ah ah ah”
si beffò di lui Tavington “mi
supplichi?” ripeté, prendendosi gioco
dell’uomo.
“Sì,
ho famiglia” proseguì, sperando di far breccia
nell’animo del Colonnello.
“Non
puoi neanche immaginare quante volte io abbia sentito questo”
gli rispose, quasi scocciato “legatelo”
ordinò ai suoi uomini.
Così,
i militi fecero come avevano fatto per gli altri dieci uomini prima di
lui: lo fecero alzare e, poi, lo adagiarono su un tavolo di legno.
“Sai,
cos’è questo?” domandò,
Tavington.
L’uomo
sudava freddo, ma si lasciò porre ugualmente sopra quella
fredda lastra, era molto terrorizzato “n-no”
biascicò, in un misto tra paura e confusione.
I soldati
tornarono ai loro posti, contro le pareti.
“Come,
no?”
replicò William, sardonico “è il mio
giocattolo preferito” gli rivelò, pacato, mentre
accarezzava dolcemente il legno.
Lo strumento
di tortura era una tavola equipaggiata di corde che, una volta legate
ai piedi e alle mani della persona predestinata, diventava una sorte di
gioco elastico.
“Te
lo spiegherò molto velocemente” il Colonnello si
avvicinò all’uomo, il quale alzò lo
sguardo verso di lui, sempre più angosciato.
“Vedi,
io fra poco ordinerò di tirare quelle leve”
rivelò, indicando le due grosse ruote poste agli antipodi
del tavolo “le leve faranno tirare le corde che sono
attaccate al tuo corpo e poi… splash!”
Non
c’era bisogno che spiegasse cosa sarebbe successo
esattamente, era chiaro: le corde avrebbero fatto allungare il corpo
dell’uomo fino a che non si fossero spaccate, lentamente: le
ossa, i muscoli e ogni parte del suo corpo.
“Perché
lo fate?” domandò, agitato, l’uomo,
quando finalmente capì cosa avrebbe sopportato.
“Perché
voi non mi date scelta” gli illustrò
“non siete per niente collaborativi, dopotutto, io non vi
chiedo molto” si rattristò, ironicamente.
“Io”
balbettò “vi voglio aiutare, Colonnello, vi prego
lasciatemi andare” dichiarò.
Tavington
rise “avete visto?” si rivolse ai suoi compagni
“non ho ancora incominciato l’interrogatorio e
già mi prega:
fantastico!”
Gli altri
soldati risero insieme al loro gerarca.
“Non
sto s-scherzando, Colonnello” continuò
l’uomo “io sono un servitore di Sua
Maestà” rincarò la dose.
Tavington lo
guardò, canzonatore “lo vedo, oh, sì
che lo vedo!” constatò, allargando le mani per
evidenziare il fatto che, se l’uomo si trovava lì,
un motivo c’era!
“Io
non volevo, vi supplico” rimbeccò.
“Alle
leve” ordinò Tavington, e così i suoi
uomini iniziarono a poggiare le mani sulle grosse ruote.
“Vi
prego!” urlò.
William
ignorò le preghiere e le grida e fece cenno, con la mano, di
girare le leve.
Il corpo
dell’uomo iniziò a torcersi: i tendini tiravano, i
muscoli dolevano.
“Aahh!”
latrò il ribelle “io lo sapevo…
aaahh…” disse, in preda a lacrime e dolori
lancinanti “lo sapevo, lo sapevo, Gabriel, che tu sia
dannato!”
Tavington
colse un nome che gli ricordava molto qualcosa,
“fermatevi” ordinò e loro fecero come
ordinato.
“Che
cosa hai detto?” inquisì il Colonnello.
L’uomo
era terrorizzato, aveva parlato troppo, senza volerlo
“io” biascicò
“niente”.
Tavington lo
prese per il colletto della camicia, bastò alzarlo di pochi
centimetri per farlo urlare nuovamente di dolore “ripeti
quello che hai detto” scandì, lentamente, con tono
minaccioso.
“Io
mi stavo sfogando, Colonnello” si spiegò.
William prese
lo stiletto, poggiato sul tavolo, e lo avvicinò alla gola
dell’uomo “io posso rendere la tua morte veloce e
indolore o lenta e agognante” gli riferì, atono.
Il ribelle
mandò giù rumorosamente “lo
so”.
“Quindi,
sta a te la scelta” si rivolse ancora Tavington.
L’americano
diede uno sguardo vitreo alla stanza delle torture, osservò
gli aguzzini inglesi con le mani sempre sulle leve, da un momento
all’altro tutto sarebbe incominciato daccapo.
“Io
non volevo unirmi al loro gruppo” raccontò.
William lo
liberò dalla sua stretta “bene” disse,
mentre si sedeva sul tavolo accanto a lui “questo
è un inizio”.
Era notte.
William era
stanco, aveva interrogato diversi ribelli, la maggior parte erano stati
fallimentari, aveva solo perso tempo.
Qualcuno li
aveva addestrati bene e non poteva essere un semplice contadino, come
aveva previsto all’inizio. Non conosceva ancora il nome del
fantomatico Fantasma, eppure, aveva acquisito informazioni molto
interessanti.
Si trovava
nella piazza principale, vagliò la struttura: la cancellata
era abbattuta, sul suolo c’erano cadaveri senza nome, sangue
ovunque, la pace, che aveva regnato il giorno precedente, era stata
spazzata via dall’assedio subito quell’oggi.
“Banastre”
lo chiamò, William.
Il Colonnello
dai capelli rossi stava smistando gli uomini per la notte, si
girò verso Tavington “dimmi” rispose,
distrattamente, mentre continuava a lavorare.
“Devo
parlarti” asserì.
“Adesso?”
domandò l’uomo.
William
annuì, mentre si avvicinava a lui “che
fai?”
“Voglio
che ripariate la cinta” riferì al suo secondo
“e voglio che mandi una ventina di uomini al di fuori della
cintura” imperò.
L’altro
fece un cenno di capo “ai comandi, Colonnello” e
poi sparì.
“Sto
sistemando quello che si può sistemare” rispose al
collega, sbuffando “ho fatto una cazzata, William”
continuò, girandosi verso il suo amico.
Tavington
fece una smorfia di assenso neutra, non era ravvisabile alcun
sentimento in lui “già ma, ormai, non possiamo
cambiare le cose” alzò le spalle.
“Io
ancora non mi capacito di quello che è successo”
si sfogò “e, dov’è
Cornwallis, perché non ha dato ordini?”
William rise,
amaramente “mio caro amico” gli diede una spacca
sulle spalle “siamo soli”.
Banastre lo
guardò con un cipiglio incredulo “che vuoi
dire?”
Tavington gli
tese una busta “leggi” ordinò.
L’altro
si appoggiò alla colonna, e fece come detto, lesse
velocemente la missiva che conteneva all’interno.
William,
intanto, si massaggiò i muscoli del collo dolenti, si
sentiva uno schifo: aveva bisogno di riposare il corpo, la mente, aveva
un odore acre addosso.
Vide una
lucciola e cercò di catturarla tra le sue mani, era piccola
e luminosa, e risplendeva nella penombra.
Oh, Beatrice, dove sei?,
pensò.
La ragazza le
mancava, lui aveva cercato di non pensarci troppo quella giornata,
altrimenti non avrebbe risolto niente, eppure, lei era un pensiero
costante. Avrebbe voluto stringerla tra le sue braccia, inspirare il
suo dolce odore e poi addormentarsi con la sua piccola strega.
“Che
cosa vuol dire ho
nominato O’Hara come mio successore?”
gli fece l’eco Ban.
William
lasciò stare la lucciola, ritornando dal suo compagno
“vuol dire che, la nostra faida è servita a ben
poco, amico” si sporse “non è servito a
niente che ci siamo fatti guerra per risplendere a suoi
occhi” fece una smorfia “lui aveva già
scelto” concluse.
Tarleton
stracciò il foglio, che reggeva tra le mani “vuol
dire che ho leccato il culo al vecchio perché poi lui
lasciasse le redini a O’Hara?” sbraitò,
furioso.
William gli
fece segno di calmarsi “non c’è bisogno
di usare parole tante colorite, mio caro collega, a quanto pare i
nostri sforzi in guerra sono stati vani, non ha scelto nessuno dei
due” affermò, alzando le spalle.
Ban scosse la
testa “io sono senza parole, sono…”
temporeggiò “indignato!”
William
annuì “già, non fa piacere ma, almeno
io, non ho rinunciato alla mia dignità per arruffianarmi il
vecchio” lo derise l’uomo.
Tarleton
rise, ma senza ironia “ah,
ah, divertente, William. Tu di certo sai come consolare
una persona” ammise, alla fine.
I due si
avvicinarono all’ingresso del Forte “comunque sia,
Cornwallis non è stato magnanimo nei nostri
confronti” proseguì “ma, non sono questi
i veri problemi,
adesso” lo avvisò, pacato.
“Lo
so, il problema è stare alle direttive di
quell’irlandese” fece una smorfia, Tarleton.
Tavington
sbuffò “Ban, finiscila” lo
redarguì “non so, se hai notato che abbiamo il
Forte sottosopra”.
“Sì,
sì” disse l’altro, come un bambino
sgridato da un adulto “è solo che mi dà
fastidio!”
William lo
prese per le spalle e lo scosse con vigore “ritorna in te!
Non sei nel tuo mondo fantasioso, come ieri notte” gli
lanciò una frecciatina amara.
Il ragazzo
ripensò alla sera precedente
“già…” pian piano
ricordò ogni dettaglio, allora si immobilizzò
“Wellsie!” affermò, digrignando i denti.
“Che
c’entra mia sorella, adesso?” domandò
Tavington.
Banastre
sorrise, con un leggero imbarazzo “ehm…
è un po’ complessa la cosa, Will” gli
confidò.
William mosse
lievemente i muscoli del collo tesi, mentre il puzzle si stava
completando poco a poco. Staccò le mani dal compagno e lo
guardò, glaciale “io” disse
“ti ammazzo!”
“Williaaaaaaaam”
si sentì in lontananza, entrambi gli uomini si voltarono
verso il Capitano Bordon e Wellsie.
La fanciulla
lasciò le mani del Capitano e poi corse verso suo fratello,
William non respinse l’affettuosità,
ricambiò l’abbraccio, tenendola contro di
sé.
“Oh,
William!” disse lei, piangendo a dirotto “quanto mi
sei mancato!”
“Dove
sei stata?” chiese, un po’ burbero.
Lei si
staccò dal suo corpo, guardandolo con gli occhi bassi dalla
vergogna “io…” biascicò
“sono stata via!”
“Sei
stata via?” ripeté lui “dove?”
Wellsie
aggrovigliò le mani, in ansia, allora Tavington
sbottò “mi spiegate cosa avete oggi tutti
quanti?” domandò, senza specificare la platea cui
si rivolgeva.
“Posso
spiegarti tutto, William” si offrì Tarleton.
“Tu
sta’ zitto” lo interruppe il Colonnello
“mi dovete dare spiegazioni, ma non ora”.
William si
massaggiò le tempie, la testa stava scoppiando, ironico il
fatto che fosse così tranquillo in battaglia, sebbene
lì ci fosse davvero una guerra; mentre gli intrighi che lo
circondavano, lo rendevano teso come una corda di violino.
“Basta”
concluse alla fine “sono stanco di tutti voi, andate a
dormire” li congedò.
Lasciò
il gruppo e fece per entrare nella struttura ma, appena prima di aprire
il grande portone, si rivolse alla compagine di nuovo
“dormite bene, perché domani, tutti voi”
li indicò, minaccioso “mi renderete conto di un
bel po’ di cosette” e, così dicendo, se
ne andò.
Non si
preoccupò di salutare nessuno, girò la maniglia e
se ne andò nel suo appartamento.
Era stufo di
tutto e di tutti, sapeva che c’erano diverse cose da
sistemare e lui, di certo, non si sarebbe tirato indietro. Ma, in quel
momento, non aveva voglia di pensare a niente: né Tarleton,
né Wellsie, né Cornwallis e nemmeno quella
dannata guerra!
Entrò
nella loro
stanza, quella che avevano condiviso quei pochi giorni a Beaufort.
Inutile
dirlo, che l’unica persona che realmente mancava a William
fosse la sua Beatrice.
Si sciolse il
nodo alla cravatta e si tolse la giubba rossa.
Andò
verso lo scrittoio, sul quale c’era un bicchiere vuoto e,
lì vicino, dello Scotch. Ne versò copiosamente,
voleva addormentarsi subito e, l’alcol, faceva al caso suo.
La stanza era
rimasta così come l’aveva lasciata: per terra
c’era la vestaglia che la Contessa Cornwallis aveva donato
alla fanciulla.
William
raccolse l’indumento e mandò giù un
po’ di Scotch.
Dio,
pensò, ha il
suo odore!
Il Colonnello
aveva chiesto a Liza di portare via la ragazza, lui era a conoscenza
che la Contessa fosse già stata a Beaufort prima,
l’avrebbe tratta in salvo.
L’indomani
le avrebbe recuperate e avrebbe sistemato anche le altre cose lasciate
in sospeso.
Ingollò
un altro bicchiere di Scotch e poi si distese sul letto, chiuse gli
occhi, facendo finta di non essere solo.
***
“Liza”
chiamò la ragazza.
“Dimmi”
rispose l’altra.
“Non
stai dormendo?” chiese, cercando di tirare le catene che la
legavano al muro, per avvicinarsi alla donna.
La Contessa
rise “non credo di essere sonnambula”
rimbeccò, a bassa voce “quindi, credo che,
sì, sono sveglia, tesoro”.
Le donne
sentirono l’americano ronfare rumorosamente,
dall’altra parte della stanza.
Le aveva dato
da mangiare e poi si era coricato a letto, dopo aver illustrato il
piano che aveva riservato alle due sventurate.
“Secondo
te, ci sente?” domandò alla donna, tentando di
continuare a parlare a bassa voce.
“Non
credo” rispose la Contessa “ha il sonno
pesante” constatò, infine.
Loro
dormivano su un giaciglio improvvisato per terra: un po’ di
paglia e le aveva sistemate. Ovviamente, non si era dimenticato di
legarle al muro con una specie di catena, sembrava più uno
strumento per cani, ma sicuramente efficace. Beatrix aveva
già provato a tirare, graffiare, mordere, ma invano.
E poi, anche
se fosse riuscita a liberarsi, c’era Rusky, il cane a fare da
guardia.
Bea era una
ragazza spregiudicata, amava il pericolo, non aveva paura di
sperimentare qualcosa di nuovo ma, di una cosa, aveva il terrore: i cani. Non sapeva
spiegarne il motivo, ma aveva quella fobia, quindi, vedeva molto
lontana la sua scarcerazione.
Liza, invece,
era stata tranquilla, non aveva fatto nessuna scenata da baronetta, era
stata al suo gioco e aveva fatto tutto quello che l’americano
aveva detto.
“Non
dormi?” chiese la fanciulla.
Liza si
girò verso di lei e, contando sulla luce pallida della luna
che penetrava dalla finestra, osservò la giovane
“non riusciremo a evadere” le confidò,
un po’ affranta.
Beatrix si
avvicinò alla Contessa e poi prese le mani tra le sue
“abbi fede, Liza” la rincuorò
“sono sicura che William verrà a
prenderci!” le rivelò, serena.
La donna
sospirò, pesantemente “sono felice che tu non ti
stia deprimendo, piccola Beatrice, ma io sto perdendo le
speranze” scosse la testa.
“Non
devi” alzò il tono, la ragazza “lui si
accorgerà della nostra assenza e verrà a
prenderci” affermò, baldanzosa.
Liza
accarezzò le sue mani “devo dirti una cosa,
Beatrice”.
La ragazza le
sorrise, in attesa di sentire la novella “dimmi” la
esortò.
“Io
ti ho mentito stamattina” le rivelò.
“In
che senso?” domandò la fanciulla, sbigottita.
“William
mi ha chiesto un favore ieri, mentre eri nel letto non
cosciente” spiegò.
“Quale favore,
Liza?” indagò la ragazza.
La donna
aveva una cadenza inglese melodica, purtroppo, aveva un modo di parlare
che, a volte, faceva innervosire Beatrix. Ogni cosa che faceva, la
faceva con un atteggiamento laissez-faire,
era come se le cose bisognasse estrapolarle con le tenaglie:
snocciolava un discorso molto lentamente.
Beatrix,
invece, era abituata a essere un torrente in piena, quando aveva
qualcosa da dire, non si preoccupava di dire la cosa giusta, non si
apprestava a decorare con belle parole: diceva quello che voleva dire,
punto.
“Lui
voleva solo proteggerti, angelo” disse la donna.
Un altro
dettaglio, era esasperante “scusami, Liza, non sto capendo
niente. Prima di tutto” si rivolse
“perché non me l’hai detto prima? In che
senso, mi hai mentito? In positivo? In negativo? William sa dove
siamo?”
La Contessa
fu sopraffatta dalle domande pungenti e continue della giovane
“comprendo che tu abbia tanti quesiti da pormi ma, ti
assicuro, che io e il Colonnello abbiamo agito in buona fede”
tossì “mi ha chiesto di portarti
sull’altura, per tenerti lontana dall’assedio del
Forte” le raccontò.
“Quindi,
lui sapeva del loro attacco?” chiese.
Liza scosse
la testa, un po’ dubbiosa “non penso, lui mi
accennava al fatto che doveva sistemare una cosa importante con
Tarleton e voleva che tu non fossi con lui” rivelò.
Beatrix si
alzò sulla schiena “in che senso, non mi voleva
tra i piedi?” domandò
“perché? Io non posso, e non voglio, stare
lontano da lui, Liza. Perché, non ha voluto che rimassi al
suo fianco?” la diga emozionale si ruppe.
La Contessa
si alzò, e la abbracciò, carezzando i suoi
capelli dolcemente “credimi, tutto quello che ha fatto, lo ha
fatto solo per il tuo bene. William è convinto che ci sia
una spia nel Forte” confessò “per quanto
mi possa ricordare, rammento che lui credeva che la spia
fosse…”
“Banastre”
concluse, svicia, la ragazza.
“Già,
non voleva semplicemente che tu fossi al centro della loro
faida” proseguì il racconto, la Contessa
“voleva sistemare quelle cose delicate e aveva paura che
Tarleton reagisse male, ferendo te” ammise.
Beatrix aveva
il capo contro il petto della donna, l’abbracciava forte.
Aveva ascoltato la sua rivelazione ed era rimasta colpita, William non
l’aveva avvisata sulle sue intenzioni ma, prima di tutto il
resto, aveva pensato a lei.
Beatrix
sorrise al suo pensiero “mi ama” disse.
“Certo
che ti ama, tesoro” controbatté la donna.
“Quando
ci viene a prendere?” domandò, curiosa, Bea.
Intanto, si
era staccata dalla Contessa ed erano così tornate sdraiate
sul giaciglio.
“Se
i piani non sono cambiati, domani mattina verrà a prenderci,
tesoro” la rassicurò.
Bea si
coprì con la coperta, che l’uomo le aveva concesso
“sapeva che avremmo passato la notte da sole?”
Liza
annuì “sì, qui vicino conoscevo un bel
posto per riposare, ma…” indicò la
stanza nella quale si trovavano “ma i piani sono cambiati, a
quanto pare”.
Tonf!
Una scarpa,
per poco, non colpì Beatrix.
“State
zitte!” grugnì il cavernicolo, con la voce
impastata.
La ragazza
sbuffò “lo odio, non vedo l’ora che sia
domani!” disse all’altra, a voce bassa.
“Anch’io”
rispose la donna, chiudendo gli occhi “buonanotte,
Beatrice”.
“Buonanotte,
Liza” disse la donna.
Beatrix
guardò la luna e pensò al suo William, poche ore
li dividevano e poi sarebbero stati di nuovo insieme.
N/A
A distanza di, quasi anno, torno a pubblicare un nuovo
capitolo, lo so, mi starete odiando in questo momento, finalmente sono
riuscita a prendermi un po' di tempo per dare giustizia a questa
storia. Spero che, la lunga attesa non vi abbia fatto amare meno
Beatrix e William :P
Mi rendo conto che dopo tutto questo tempo, non potevo tornare con un
capitolo che svelasse 'tutti' i misteri che avvolgono Ice Storm, questo
cap l'ho immaginato come transitorio, vi annuncio che un personaggio
-molto chiacchierato- tornerà e metterà in crisi
l'amore di Will e Bea! ^^
P.s. quest'ultimo mese ho revisionato ciascun capitolo, mi sono accorta
di alcune cosette che mi sono piaciute poco e ho cercato di sistemarla,
un po' per volta ripubblicherò i capitoli 'sistemati'.
Vi mando un bacio grosso,
Giulia :)
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