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Capitolo
4: Alleanze
Una lunga spirale di fumo
saliva verso il cielo pallido, indicando il luogo dove si trovavano i cadaveri.
Alla piccola e stanca compagnia di cacciatori esso era parso un cattivo
presagio, e i loro cuori ne erano stati turbati ancora prima di sapere che cosa
preannunciava. Ora, mentre cercavano di farsi strada tra gli spaventosi resti
del campo di battaglia, i loro cuori erano pieni di fredda disperazione.
I Cavalieri avevano già
esaminato i corpi, separando gli uomini dagli orchi, e stavano lavorando per
erigere sopra i loro compagni caduti un tumulo di rocce, detriti e zolle d’erba.
Al di là dei resti incandescenti della barricata giaceva un cumulo di orchi, in
attesa di essere divorati dalle fiamme. Anche i cavalli uccisi sarebbero stati
bruciati, ma sulle colline, dove il loro fumo non si sarebbe mischiato col
fetore degli orchi, e dove avrebbero ricevuto i dovuti onori.
Merry seguì docilmente
Legolas e Gimli, ma i suoi occhi continuavano a correre verso gli Uomini di
Rohan, fieri e belli, intenti al loro mesto lavoro. Alti e dagli occhi severi,
gli ricordavano Boromir e Aragorn, e Merry si sentiva rincuorato dalla loro
vicinanza. Capì che desiderava restare con loro, ascoltare le parole del loro
capitano, assaporando l’accento del Sud nella sua voce profonda, come se potesse
trovare qualche traccia dei suoi amici nelle sue parole e nei suoi gesti. Era
l’unica cosa che lo faceva sentire vicino a loro, e per quanto piccola, era pur
sempre un conforto in mezzo all’orrore di quel luogo.
Legolas balzò con grazia
sulla barricata, fermandosi sopra un tronco inclinato. Merry esitò un momento,
poi si arrampicò seguendo l’elfo. I suoi occhi percorsero il campo di battaglia
oltre la palizzata, dove i Cavalieri erano finalmente riusciti a intrappolare
gli orchi e li avevano sterminati, e Merry rabbrividì.
La radura era come una
ferita aperta nella foresta, scavata dalle asce degli orchi per costruire le
loro fortificazioni. Al centro restava solo un albero di una certa grandezza,
ormai ridotto a un ammasso fumante di corteccia annerita e contorta. Tutto ciò
che rimaneva degli orchi era un cumulo disgustoso di corpi e rottami.
Merry alzò lo sguardo verso
Legolas, chiedendosi quali fossero i suoi pensieri al di là del suo viso
impassibile. L’elfo osservò tranquillamente il mucchio di orchi, senza alcun
segno di emozione, poi si voltò e chiamò Gimli.
“Dobbiamo controllare tra i
morti, tu ed io. Questo non è un lavoro adatto ai mezzuomini.”
“D’accordo”, rispose il nano
con un borbottio.
Gimli aggirò la barricata,
non avendo né l’agilità né l’altezza necessaria per scavalcarla, mentre invece
Pipino decise di arrampicarsi su di essa con Merry. I due hobbit ridiscesero
insieme nella radura, e cominciarono a gironzolare senza meta, raccogliendo qua
e là pezzi di armatura e cianfrusaglie lasciate cadere dagli orchi. Guardavano
l’elfo e il nano con aria afflitta, desiderando di avere la forza o il coraggio
di aiutarli nel loro mesto compito, e restavano in silenzio. Quello non era
luogo adatto alla conversazione, c’era troppa morte nell’aria.
Un rumore sordo di zoccoli
annunciò l’arrivo di un cavaliere. Merry si voltò, e vide
Éomer oltrepassare al galoppo leggero la barricata,
fino alla radura. Fermò il cavallo accanto all’albero bruciato, e scese
agilmente di sella. Legolas e Gimli lasciarono il loro lavoro e gli andarono
incontro per salutarlo.
“Avete trovato
traccia dei prigionieri che cercavate?”
Legolas scosse
la testa. “No, soltanto orchi.”
“Ed è tutto
quello che troverete. Non abbandoneremmo mai degli uomini in mezzo a queste
carogne, nemmeno degli stranieri o dei nemici. Ve lo garantisco, non ci sono
uomini qui”.
“Ma sono
stati qui”, insistette Legolas, “di questo siamo certi. Alcuni orchi devono
averli portati nella foresta”.
“È probabile.
Hanno avuto molte ore di oscurità a disposizione in cui fuggire, e quando
abbiamo preso la barricata abbiamo trovato solo questi”.
Gimli diede un
colpetto col piede al corpo più vicino e disse, “Questi non sono gli stessi
orchi che abbiamo combattuto ad Amon Hen. Sembrano più simili agli orchi di
Moria”.
“Infatti. Le
montagne ne sono infestate”. Èomer indicò verso ovest. “Le Montagne Nebbiose
terminano laggiù, a Nan Curunìr, dove si trova Isengard, e i grandi speroni di
roccia che circondano la vallata sono percorsi dai cunicoli degli orchi di
montagna. C’è chi sostiene che lo stregone che vive là sorvegli i nostri
confini, impedendo loro il passaggio. Altri dicono che sia lui stesso a
comandarli”.
Il viso di
Éomer si indurì, e suoi occhi grigi lampeggiarono di rabbia.
“Qualunque sia
la verità, aumentano giorno dopo giorno, e ci temono sempre meno. E ora hanno
osato spingersi fino alle pianure di Rohan, portando guerra e morte”.
“Non lasciarti
ingannare,” disse Gimli, “è Saruman che li manda. Gli orchi che hanno preso i
nostri compagni sono stati creati nelle fornaci di Isengard, e marciano agli
ordini dello stregone. Saruman non è vostro alleato, Éomer del Mark”.
“Lo so”. Le
semplici parole erano piene di amarezza e rabbia.
Legolas si
volse nuovamente verso la catasta di cadaveri, con la mente rivolta al destino
dei suoi amici.
“Se a
combattere sono rimasti soltanto questi, significa che gli orchi più grandi sono
fuggiti ad ovest, portando con sè Aragorn e Boromir.”
Éomer sollevò
di scatto il capo, fissando Legolas. “Boromir? Di quale Boromir state parlando?”
“Boromir di
Gondor, figlio di Denethor. Egli ti è noto?”
“Ahimè!”
L’uomo parve colpito, e i suoi occhi si volsero verso l’oscurità della foresta,
pieni di disperazione. “Ahimè, mastro Elfo, porti notizie funeste! Se avessimo
saputo che il figlio di Denethor era prigioniero avremmo lottato fino all’ultimo
uomo per liberarlo!”
Merry si
avvicinò al biondo straniero, osservandolo con nuovo interesse. “Sei un suo
amico?”
“Non sono così
fortunato da potermi definire suo amico, ma lo conosco. E ho combattuto al suo
fianco”.
Merry
raddrizzò le spalle, orgogliosamente. “Anche io.”
Èomer si girò
verso di lui, guardandolo con curiosità. “Tu hai combattuto a fianco del
Capitano di Gondor? Devi essere considerato un grande guerriero presso il tuo
popolo”.
“Beh…non so se
qualcuno del mio popolo possa essere definito guerriero… ma ho ucciso un orco o
due con la mia piccola spada. Ed è stato Boromir che mi ha insegnato ad usarla”.
“Dunque è tuo
amico?”
“Sì.”
Merry sentì le
lacrime pungergli gli occhi, ma si sforzò di trattenerle, e sostenne con
orgoglio lo sguardo di Èomer.
"Sì, è mio
amico, e lo seguirò fino ai sotterranei di Isengard. Gli devo la vita”.
Èomer si
inginocchiò per essere alla stessa altezza di Merry. Il suo viso, benché severo,
era tuttavia gentile, e il suo sorriso era cordiale ma triste.
“Ti auguro un
viaggio veloce, e fortuna nella tua impresa, piccolo guerriero.”
“Ci farebbe
comodo una spada in più, quando assaliremo le mura,” osservò Pipino in tono
pratico.
Èomer
considerò quelle parole con serietà.
“Vorrei con
tutto il cuore potervi offrire la mia spada e quelle del mio èored, ma il
dovere viene prima di tutto, e in questo momento mi impone di tornare dal mio
Re. Deve essere informato di ciò che è accaduto qui, e avvertito del tradimento
di Saruman”.
“Forse il tuo
Re ci potrebbe aiutare?”
L’Uomo non
disse nulla, e dalla sua espressione tesa gli hobbit capirono che avevano
affrontato un argomento pericoloso. Pipino esitò un istante, poi prontamente
cambiò discorso.
“Non mi
piacciono questi boschi. Scommetto che qui vivono cose peggiori degli orchi.”
“Cose più
antiche, certamente,” mormorò Legolas, scrutando la foresta circostante col suo
sguardo acuto.
Èomer si alzò
in piedi e si diresse verso il suo cavallo.
“Se volete il
mio consiglio, non avventuratevi dentro Fangorn. Ha una fama sinistra”.
“Ma non lo
sembra,” rispose Legolas. “E comunque non ha importanza, perché dove sono andati
gli orchi anche noi andremo. Tu non ti rendi conto dell’urgenza della nostra
missione, uomo di Rohan”.
L’uomo scrollò
le spalle, come a indicare che non si sarebbe aspettato niente di meno dalle sue
nuove conoscenze, poi montò in sella.
“Andranno a
ovest verso le pendici delle Montagne nebbiose, ma saperlo non vi aiuterà se vi
perderete nelle ombre impenetrabili di Fangorn. Se mai doveste ripensarci e
riuscirete a tornare vivi dalla foresta, allora venite a Meduseld alla Sala di
Re Thèoden. Dovete promettermi sul vostro onore che vi presenterete al Signore
del Mark e chiederete il suo permesso per attraversare le sue terre”.
“Hai la nostra
parola, sul nostro onore”.
“Allora
addio.” Voltò il suo cavallo e si fermò per guardare Merry, con un sorriso.
“Buona caccia.” Poi partì al galoppo, lasciando i quattro viaggiatori soli in
mezzo ai corpi dei caduti.
A mezzogiorno
i quattro cacciatori erano ormai nel profondo della foresta. Seguivano il corso
dell’Entalluvio, restando sulla riva orientale, dove Legolas poteva trovare le
impronte degli orchi nel fango. Si muovevano in una tetra, grigia oscurità.
Tutto attorno a loro gravava un opprimente senso di disagio, quasi rabbioso, che
sembrava alitare sui loro colli mentre passavano.
Legolas teneva
il passo più veloce che il calore soffocante e l’aria sottile della foresta gli
consentivano. L’urgenza della caccia li sosteneva, e ogni ora che passava
aumentava la loro risolutezza, ma le loro forze diminuivano. Gli hobbit stavano
già barcollando per la stanchezza, e il nano era sprofondato in un cupo
silenzio, quando a un tratto Legolas gridò.
“Guardate! Il
sole ha trovato la strada per salutarci!”
Gli altri
alzarono lo sguardo, e videro uno splendente raggio si sole che passava
attraverso il fitto fogliame della foresta davanti a loro, a ovest. A quella
vista, Merry sentì il suo spirito risollevarsi.
“Andiamo da
quella parte,” propose. “Vorrei tanto poter sentire il sole sulla faccia ancora
una volta!”
“E io vorrei
respirare liberamente, senza tutti questi alberi che mi osservano,” disse
Pipino.
L’elfo e il
nano non si opposero, e la compagnia lasciò il fiume per immergersi nella
penombra della foresta. Ci volle un po’ di tempo perché raggiungessero il loro
obiettivo, ma finalmente lasciarono le ombre per uscire nella luce calda e
limpida del primo pomeriggio. Si trovarono ai piedi di una ripida collina che
saliva verso l’aria aperta. Molti alberi affollavano la sua base, come se
lottassero tra di loro per avere un po’ di luce, ma le pendici della collina
erano nude e rocciose, coperte solo di arbusti e radi cespugli.
Sulla roccia
davanti a loro si inerpicava una sorta di rozza scalinata, che conduceva a una
sporgenza dalla quale si poteva avere un’ampia visuale della foresta
sottostante, e che forniva un ottimo posto per riposare. I viaggiatori non
fecero caso alla squallida desolazione della collina, o ai cardi che crescevano
a fatica lungo i suoi fianchi. Vedevano solo il cielo aperto e la promessa di
una sosta nella loro caccia. Sorridendo nonostante la stanchezza e le
preoccupazioni, salirono i gradini irregolari fino a giungere alla sporgenza. Là
gettarono i loro zaini e si lasciarono cadere a terra, guardando il cielo come
se non lo avessero mai visto prima d’allora.
Merry consumò
una magra porzione di lembas e acqua, e stava già cominciando a
sonnecchiare al sole, quando un sibilo d’avvertimento di Legolas lo riportò
bruscamente alla realtà. Si alzò faticosamente in piedi e corse al limite della
sporgenza dove stava Legolas, osservando le ombre al di sotto degli alberi.
L’elfo aveva una freccia già incoccata al suo arco.
“Cosa succede,
Mastro Elfo?” domandò Gimli.
Legolas indicò
con un cenno del capo verso gli alberi ai piedi della collina. “Là, qualcosa si
sta muovendo verso di noi. Vedi?”
In quel
momento, una figura uscì dagli alberi e si fermò alla base della scalinata. Era
un uomo, curvo per gli anni, vestito di grigi stracci, che si appoggiava a un
bastone. Il suo viso era nascosto da un grande cappuccio e dalla falda del
cappello. Quando sollevò la testa per guardarli, Merry vide solo la punta del
suo naso e una lunga barba grigia. Nessuno si mosse né parlò, come se lo
straniero li tenesse sotto un qualche incantesimo, e l’arco di Legolas rimase
inutilizzato.
“Ben trovati,
amici miei,” disse il vecchio, con una voce gentile e potente allo stesso tempo.
“Desidero
parlarvi. Scenderete voi o dovrò salire io stesso?” Senza attendere risposta,
cominciò a salire.
Con grande
sforzo Gimli si liberò dell’incantesimo, e mentre il vecchio si avvicinava, gli
andò incontro con l’ascia in mano. “Fermati, straniero! Non avvicinarti oltre, o
assaggerai la mia lama!”
“È così che
accogliete un vecchio che desidera solo fare un po’ di conversazione?” L’uomo si
fermò, guardando il nano con occhi scintillanti da sotto il suo cappuccio.
“Metti via la
tua arma, mio buon nano. Non ne avrai bisogno.”
Gimli arretrò
inciampando, con la sorpresa e la confusione dipinte sul suo volto. La sua ascia
scivolò a terra ai suoi piedi. I quattro cacciatori non poterono fare altro che
osservare, sbigottiti, mentre il vecchio saliva d’un balzo gli ultimi gradini,
raggiungendoli con le braccia aperte in segno di benvenuto. Con un gesto si
scrollò di dosso il logoro mantello e rimase in piedi di fronte a loro, vestito
interamente di bianco scintillante, con il capo scoperto e il viso in piena
luce. I suoi occhi sorridevano loro da sotto le folte sopracciglia.
“Di nuovo, ben
trovati!”
“Aiee!”
Legolas proruppe in un alto grido e lasciò partire una freccia verso l’alto. Il
dardo scomparve in una fiammata.
“Mithrandir!
Mithrandir!”
Merry udì il
nome e capì, ma non riusciva a muoversi. I suoi piedi erano come inchiodati al
suolo e le sue membra erano intorpidite per lo stupore. Guardando la creatura
splendente e sorridente che era ritornata dalla morte, lacrime di gioia
cominciarono a scendergli dagli occhi, eppure era ancora come paralizzato. Poi i
suoi occhi si posarono su di lui, e un sorriso li illuminò.
“Mio caro
Merry.”
Quelle parole
lo liberarono. Il suo corpo ritornò a rispondere ai suoi comandi, e senza
chiedersi che cosa stesse succedendo, Merry lasciò cadere la spada e corse
incontro allo stregone, abbracciandolo. “Gandalf, Gandalf! Sei tornato!”
*** *** ***
Gandalf sedeva
con la testa abbassata, ascoltando Gimli che raccontava della loro caccia
attraverso i campi di Rohan, con il viso in ombra sotto l’ampia falda del suo
cappello. Quando il nano ebbe terminato il suo racconto, il mago posò lo sguardo
sui quattro restanti membri della Compagnia, con il viso teso e carico di
dolore. Per alcuni momenti non disse nulla, ma gli altri rimasero in attesa,
sperando che egli avrebbe avuto qualche parola saggia per loro, qualche
consiglio.
Poi Gandalf
sospirò e disse, “Ahimè, questo è davvero un male. L’Erede di Isildur è un’arma
che non possiamo permetterci di perdere, e il mio cuore soffre nel sapere che
uomini così valorosi sono caduti nelle mani del Nemico.”
Gimli strinse
l’impugnatura dell’ascia e ringhiò, “Ma non li abbiamo ancora perduti! Abbiamo
giurato di liberarli e li libereremo, anche se dovessimo inseguirli per tutta la
Terra di Mezzo!”
“La vostra
caccia è finita, mio buon nano. Ormai gli orchi saranno vicini alle montagne e
al riparo delle caverne. Raggiungeranno Isengard. Non potete impedirlo.”
“Non possiamo
nemmeno abbandonare i nostri amici!” Protestò Merry.
“Certo che no.
Ma se volete aiutarli dovrete trovare un altro modo. Un piano che abbia qualche
possibilità di riuscire”.
Legolas si
agitò inquieto, guardando tra il fitto fogliame della foresta come se sperasse
di scorgere qualche traccia degli orchi al di sotto di esso. “E tu cosa vedi,
Gandalf, che noi non riusciamo a vedere?” Si voltò a guardare Gandalf, e i suoi
occhi erano cupi per la disperazione, la loro luce elfica oscurata.
“Anche senza
speranza, noi dobbiamo andare avanti”.
Lo stregone
increspò le labbra pensierosamente, mentre sotto le sue folte sopracciglia i
suoi occhi scintillavano. “E noi andremo avanti, Legolas, fino alle mura di
Isengard! Ma non da soli! Non da soli”.
“E chi verrà
con noi?” chiese Pipino. “I Cavalieri?”
“Sì, se
riusciremo a far comprendere a Re Thèoden il pericolo che corre. Ma i Rohirrim
sono solo uno dei problemi di Saruman. Egli ha dimenticato i suoi altri
vicini di casa: molto più vecchi, saggi e potenti di qualsiasi razza di Uomini…
e se interpreto bene i sussurri degli alberi, ben presto egli si troverà
circondato da ogni parte”.
“Parli per
enigmi,” lo rimproverò Legolas sorridendo.
Gandalf rise.
“La risposta a questi enigmi è tutta attorno a te, mastro Elfo. Saruman ha
risvegliato l’antico potere che dormiva accanto a lui. Ha risvegliato l’ira di
Fangorn.”
“La foresta?”,
chiese Pipino.
“Fangorn è
molto più di quello che tu vedi attorno a te, Pipino. Fangorn è il pastore degli
alberi e il guardiano della foresta. È il più vecchio degli Ent”.
Legolas gli
lanciò un’occhiata incredula. “Gli Ent! Dunque gli Onodrim vivono ancora nella
Terra di Mezzo? Questo è davvero un giorno di prodigi!”
“Più di quanto
tu creda. Fangorn è lento all’ira e ancor più lento all’azione, ma il tradimento
di Saruman ha fatto ribollire la sua rabbia. E presto traboccherà, scorrendo
come una marea verso Orthanc. E allora saranno guai per Saruman, i suoi orchi e
le loro asce!”
Ogni traccia
di vecchiaia e di stanchezza scomparve dal volto di Gandalf, che balzò in piedi
allargando le braccia per abbracciare i suoi compagni, e annunciò, “Questo è il
momento, amici miei! Il nemico sta allungando la mano per afferrare la preda di
Saruman, proprio ora mentre parliamo, e non abbiamo tempo di aspettare saggi
consigli. Dobbiamo risvegliare l’ira degli Ent e degli Uomini, incitarli alla
guerra, e assalire insieme le mura di Isengard!”
Gimli brandì
la sua ascia, alzandola al cielo, e ruggì, “A Isengard!”
“A Isengard”,
fecero eco gli altri, balzando in piedi.
“Ma prima,
dobbiamo andare dagli Ent,” disse Gandalf, ammiccando. “Venite”.
Rinfoderando
le armi, i membri superstiti della compagnia si avvolsero nei mantelli elfici e
seguirono Gandalf nelle ombre di Fangorn.
*** *** ***
Aragorn stava
in piedi appoggiato con la schiena ad una di pietra grezza di fronte all’unica
porta della stanza. Ai lati della porta ardevano due torce accese, il cui fumo
acre saliva fino al soffitto, dove rimaneva ad aleggiare come un’ombra vivente,
agitandosi ad ogni spostamento d’aria. Il Ramingo era vestito soltanto di un
pezzo di stoffa grezza ai suoi fianchi, ma a causa del calore soffocante dei
sotterranei il sudore scorreva lungo il suo corpo seminudo. La ferita alla gamba
sinistra pulsava e bruciava dolorosamente, e sangue scuro fuoriusciva dalle
escoriazioni. Il dolore era terribile, ma almeno dava ad Aragorn qualcosa su cui
concentrarsi in quel pauroso incubo soffocante. Faceva sì che la sua mente
restasse lucida, ricordandogli quanto reale e grave fosse la sua situazione.
Da quando era
uscito dalle buie caverne ai piedi delle Montagne Nebbiose per giungere nella
valle di Isengard, Aragorn aveva perso completamente il senso della realtà. La
vallata, un tempo verde e rigogliosa, ora era una distesa arida, percorsa da
fuoco e abissi, dominata dalla tetra torre di Orthanc. Fumo, vapore e voli di
neri uccelli costellavano il cielo, e le grida degli orchi si mescolavano allo
stridere del metallo e al gracchiare degli uccelli. Nulla ormai viveva più
attorno a Isengard, e il cuore di Aragorn piangeva per quella dissacrazione.
Gli orchi
avevano portato i loro prigionieri nelle viscere della terra attraverso caverne
che sembravano pulsare al calore delle fiamme, tunnel scavati nella roccia e
illuminati da file di torce gocciolanti, fonderie, armerie, fornaci, canali di
scolo e depositi di rifiuti che puzzavano di corruzione. Aragorn aveva visto
creature e congegni che superavano ogni sua immaginazione – gruppi di schiavi
frustati da orchi che controllavano il loro lavoro, macchine che cigolavano ed
emettevano un fetore orribile - e ovunque dominava l’odore di bruciato.
Quando
finalmente erano giunti alla sua cella, Aragorn si era sentito momentaneamente
sollevato nel vedere la porta di legno chiudersi, separandolo dagli orrori del
regno di Saruman. Poi avevano portato via Boromir, e per la prima volta dalla
loro cattura, Aragorn si era trovato completamente solo.
In tutti gli
anni che aveva trascorso come un Ramingo e un vagabondo, Aragorn non aveva mai
provato un senso di isolamento così terribile. Era abbastanza coraggioso da
ammettere la sua paura, e abbastanza saggio da riconoscere che era la sua
amicizia con Boromir che lo rendeva così vulnerabile. Non aveva paura per sé
stesso, anche se sapeva che lo attendeva una sofferenza come mai ne aveva
provata. Temeva per il suo amico, e per la pressione che Saruman avrebbe
esercitato su di lui per sfruttare il legame di amicizia che li univa. E in
quella cella, incatenato al muro mani e piedi, immobilizzato e inerme, Aragorn
conobbe una solitudine e un terrore più terribili di qualunque dolore fisico.
Non poteva
fare altro che attendere. Si appoggiò al muro, sollevando il peso dalla gamba
ferita, e piegò la testa. Ad un osservatore esterno sarebbe potuto apparire
sconfitto, spaventato, fiaccato nello spirito, ma in realtà stava raccogliendo
le forze, cercando dentro di sé l’energia per affrontare sia Saruman che
l’Oscuro Signore. Tutte le sofferenze che aveva sopportato durante la marcia,
tutti gli insulti, i maltrattamenti e le privazioni erano state solo un
assaggio, e doveva essere pronto.
Infine
arrivarono gli orchi, accompagnati dal rumore degli stivali ferrati sulla pietra
grezza del tunnel, con le torce che gettavano profonde ombre lungo i muri.
Aragorn non sollevò lo sguardo al loro arrivo, ma si limitò ad aspettare,
immobile. Poco lontano da lui, un fagotto fu gettato al suolo. Aprendosi, rivelò
al suo interno il suo equipaggiamento e i suoi abiti, tagliati e strappati nella
foga della perquisizione. Aragorn vide la furia e la frustrazione di Saruman in
ogni taglio e in ogni strappo.
“Aragorn,
figlio di Arathorn”.
La voce sembrò
riempire la stanza col suo timbro profondo e melodioso, e fece scattare la testa
di Aragorn nella sua direzione. Si ritrovò a fissare due occhi scuri e senza
fondo come la voce, occhi penetranti che scintillavano, e che versavano il
balsamo della pietà sulle sue ferite, intimorendolo con la loro saggezza.
“A lungo ho
desiderato la tua venuta, Erede di Gondor. A lungo ho atteso che il Re
ascoltasse i consigli di Saruman il Saggio”.
La splendente
figura sulla porta mosse un passo verso il prigioniero, allontanandosi dalle
guardie al suo fianco, e mentre camminava, la luce rossastra delle torce
scivolava sui suoi abiti, facendoli brillare di una miriade di colori. In mano
aveva un bastone, la cui sommità era una replica in miniatura delle guglie di
Orthanc, e su un dito di quella mano, indossava un anello. Vedendo quella mano
affusolata e pallida, Aragorn si ricordò di quello che Gandalf aveva detto al
Concilio di Elrond, di come Saruman avesse forgiato un anello di potere per sé,
a imitazione degli antichi orafi elfici. Il ricordo di Gandalf, suo amico e
guida, dissipò la magia della voce dello stregone e gli schiarì i pensieri.
Incontrò di nuovo quello sguardo compassionevole, ma stavolta senza traccia di
turbamento.
“Non sono
ancora Re, Saruman, e tu non sei il mio consigliere”.
“Ah, la follia
degli Uomini.” Aragorn non rispose, e Saruman sorrise freddamente. “È grazie a
questa follia che l’Oscuro Signore è tornato a risorgere, per minacciare tutta
la Terra di Mezzo con la sua Ombra”.
Aragorn non se
la sentì di controbattere. In lui era anche troppo vivo il senso di colpa per i
fallimenti della sua razza. Aveva ereditato il trono di Isildur, ma anche le
conseguenze della sua follia, e finché non avesse rimediato a quest’ultima, non
avrebbe potuto rivendicare il trono. Quello era il conflitto che segnava la sua
vita, riassunto da Saruman il traditore in una sola frase.
“Ti offro ora
la possibilità di cancellare gli errori dei tuoi antenati e di rivendicare ciò
che è tuo, libero da macchie e da dubbi,” insistette Saruman, la sua voce
morbida come velluto e intessuta di potenza.
“Ti offro di
porre fine al tuo vagabondare, al tuo esilio, alla guerra e all’ombra. Guarda
nel tuo cuore, Aragorn, figlio di Arathorn, e ammetti che ti sto offrendo il tuo
più grande desiderio”.
Aragorn non
aveva bisogno di guardare nel suo cuore. Sapeva che Saruman diceva il vero, ma
sapeva anche che la verità nascondeva un inganno. “E qual è il prezzo del mio
desiderio?”
“Un’alleanza.”
Di nuovo, Aragorn non disse nulla, e il suo silenzio parve infondere nuova
eloquenza nello stregone.
“Unisciti a
me. Porta il tuo vessillo alla testa del mio esercito, cosicché tutte le genti
dell’Ovest sappiano che il loro Re è tornato, e io ti guiderò alla vittoria
contro l’Ombra. Io posso farlo, Aragorn. Io posso metterti sul trono di Gondor,
e bandire Sauron dalla Terra di Mezzo per sempre!”
“Se io ti darò
l’Anello”.
Gli occhi di
Saruman lampeggiarono. “L’Anello. L’arma del Nemico. Quale modo migliore di
sconfiggerlo, se non usare la sua stessa arma contro di lui?”
Il suono
familiare di quelle parole e la fiera passione negli occhi dello stregone
mandarono un brivido lungo la schiena di Aragorn. Immaginò il viso di Boromir
nel momento in cui aveva tentato di prendere l’Anello a Frodo, e la vista del
tormento e del desiderio che l’Anello poteva infliggere lo atterrì, eppure tenne
nascosto il suo orrore e parlò con voce ferma.
“Io non ho
l’Anello”.
“Ma sai dove
si trova. Sai dove l’ha nascosto Gandalf”.
“Dirtelo
significherebbe tradire un amico”.
“Per il bene
delle Terra di Mezzo!”
Aragorn si
ritrasse per quanto gli era possibile dalle sue catene, nauseato dalle parole di
Saruman, eppure affascinato suo malgrado.
“E così ora
vorresti tradire Sauron, come tradisti il Consiglio Bianco prima di lui”.
“Se il male
viene annientato, cosa importa quale mezzo si usa? Preferiresti che consegnassi
l’Anello a lui?”
“Tu non hai
l’Anello, né da tenere, né da consegnare”.
“No, ma ho te,
e per Sauron tu sei importante quasi quanto l’Anello del Potere. Sa che i miei
schiavi ti hanno catturato. Presto, molto presto, i Nazgûl verranno a prenderti.
Gondor sarà privata del suo Re, del simbolo della sua antica gloria, e cadrà
nella disperazione”.
“A che servono
allora le tue promesse? Che vantaggio può darmi un’alleanza con Saruman, se sono
condannato a morire nelle prigioni di Sauron?”
Saruman
sorrise, come se provasse pietà per la diffidenza di Aragorn nei suoi confronti.
“I Nazgûl
vengono in cerca di un Erede, e un Erede avranno. E mentre loro se ne andranno
con la loro preda, noi andremo a recuperare l’Anello. Quando Sauron si accorgerà
di avere catturato un Sovrintendente invece di un Re, noi avremo già la vittoria
in pugno!”
Le sue parole
echeggiarono nel silenzio. Aragorn lo osservò impassibile, contemplando la
brama, l’avidità e i trionfo sul suo viso, celati a stento dalla sua apparente
calma. Saruman stava probabilmente pensando che il suo prigioniero stesse
valutando la sua offerta, tentato da essa, e Aragorn lasciò che sorridesse.
Infine parlò,
con voce sommessa e pericolosamente calma. “Così dovrei tradire due amici”.
“Il figlio di
Denethor non è tuo amico! È un uomo arrogante, orgoglioso e ambizioso, che non
si inchinerà mai di fronte ad alcun re”.
Nonostante
Aragorn fosse in catene, nudo e sudicio, e costretto ad ascoltare le infide
parole di Saruman, sorrise.
Nella sua
mente sentì di nuovo la voce dell'amico, un sussurro dall’oscurità, che lo
chiamava Re, e giurava di mandarlo a Gondor, al suo trono e alla sua gente, come
ultimo dono da parte del loro Capitano caduto. Rivide il dolore e il rimpianto
sul volto di Boromir, la sofferenza causata dalla sua debolezza, quando aveva
infranto il suo giuramento e tradito la Compagnia. E Aragorn capì che Saruman li
aveva sottovalutati entrambi.
“Non ti darò
l’Anello, Saruman, e non tradirò la fiducia dei miei amici. Non ci sarà
alleanza”.
Continua…
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