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Autore: beanazgul    19/01/2005    3 recensioni
di PlasticChevy traduzione di: beanazgul aka Adûnaphel Nota: Questa è la traduzione della storia originale in inglese “The Captain and the King”, scritta da PlasticChevy, un’autrice di fanfiction dotata di grande talento. E' ispirata al mondo del Signore degli Anelli, ma si tratta di un’ AU, cioè una versione alternativa del testo di Tolkien, i cui eventi prendono una strada diversa ad Amon Hen....se vi è sempre dispiaciuto vedere Boromir morire alla fine del primo libro/film, allora questa storia fa per voi! Se avrete la pazienza di avventurarvi in questa miriade di capitoli vi assicuro che non ve ne pentirete: vi lascerà senza fiato! PlasticChevy mi ha gentilmente dato il permesso di tradurla e io ho cercato di fare del mio meglio per rendere giustizia alla sua bravura, anche se è un lavoro molto impegnativo perché la storia è molto complessa e mi rendo conto che una traduzione non è mai all’altezza dell’originale! Disclaimer: Il Signore degli Anelli e tutti i suoi personaggi sono proprietà di J.R.R. Tolkien e dei suoi eredi. Li sto utilizzando solo per divertimento, non per vendita o profitto.
Genere: Drammatico, Azione, Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Aragorn, Boromir, Merry, Saruman
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Capitolo 4: Alleanze

 

Una lunga spirale di fumo saliva verso il cielo pallido, indicando il luogo dove si trovavano i cadaveri. Alla piccola e stanca compagnia di cacciatori esso era parso un cattivo presagio, e i loro cuori ne erano stati turbati ancora prima di sapere che cosa preannunciava. Ora, mentre cercavano di farsi strada tra gli spaventosi resti del campo di battaglia, i loro cuori erano pieni di fredda disperazione.

I Cavalieri avevano già esaminato i corpi, separando gli uomini dagli orchi, e stavano lavorando per erigere sopra i loro compagni caduti un tumulo di rocce, detriti e zolle d’erba. Al di là dei resti incandescenti della barricata giaceva un cumulo di orchi, in attesa di essere divorati dalle fiamme. Anche i cavalli uccisi sarebbero stati bruciati, ma sulle colline, dove il loro fumo non si sarebbe mischiato col fetore degli orchi, e dove avrebbero ricevuto i dovuti onori.

Merry seguì docilmente Legolas e Gimli, ma i suoi occhi continuavano a correre verso gli Uomini di Rohan, fieri e belli, intenti al loro mesto lavoro. Alti e dagli occhi severi, gli ricordavano Boromir e Aragorn, e Merry si sentiva rincuorato dalla loro vicinanza. Capì che desiderava restare con loro, ascoltare le parole del loro capitano, assaporando l’accento del Sud nella sua voce profonda, come se potesse trovare qualche traccia dei suoi amici nelle sue parole e nei suoi gesti. Era l’unica cosa che lo faceva sentire vicino a loro, e per quanto piccola, era pur sempre un conforto in mezzo all’orrore di quel luogo.

Legolas balzò con grazia sulla barricata, fermandosi sopra un tronco inclinato. Merry esitò un momento, poi si arrampicò seguendo l’elfo. I suoi occhi percorsero il campo di battaglia oltre la palizzata, dove i Cavalieri erano finalmente riusciti a intrappolare gli orchi e li avevano sterminati, e Merry rabbrividì.

La radura era come una ferita aperta nella foresta, scavata dalle asce degli orchi per costruire le loro fortificazioni. Al centro restava solo un albero di una certa grandezza, ormai ridotto a un ammasso fumante di corteccia annerita e contorta. Tutto ciò che rimaneva degli orchi era un cumulo disgustoso di corpi e rottami.

Merry alzò lo sguardo verso Legolas, chiedendosi quali fossero i suoi pensieri al di là del suo viso impassibile. L’elfo osservò tranquillamente il mucchio di orchi, senza alcun segno di emozione, poi si voltò e chiamò Gimli.

“Dobbiamo controllare tra i morti, tu ed io. Questo non è un lavoro adatto ai mezzuomini.”

“D’accordo”, rispose il nano con un borbottio.

Gimli aggirò la barricata, non avendo né l’agilità né l’altezza necessaria per scavalcarla, mentre invece Pipino decise di arrampicarsi su di essa con Merry. I due hobbit ridiscesero insieme nella radura, e cominciarono a gironzolare senza meta, raccogliendo qua e là pezzi di armatura e cianfrusaglie lasciate cadere dagli orchi. Guardavano l’elfo e il nano con aria afflitta, desiderando di avere la forza o il coraggio di aiutarli nel loro mesto compito, e restavano in silenzio. Quello non era luogo adatto alla conversazione, c’era troppa morte nell’aria.

Un rumore sordo di zoccoli annunciò l’arrivo di un cavaliere. Merry si voltò, e vide Éomer oltrepassare al galoppo leggero la barricata, fino alla radura. Fermò il cavallo accanto all’albero bruciato, e scese agilmente di sella. Legolas e Gimli lasciarono il loro lavoro e gli andarono incontro per salutarlo.

“Avete trovato traccia dei prigionieri che cercavate?”

Legolas scosse la testa. “No, soltanto orchi.”

“Ed è tutto quello che troverete. Non abbandoneremmo mai degli uomini in mezzo a queste carogne, nemmeno degli stranieri o dei nemici. Ve lo garantisco, non ci sono uomini qui”.

“Ma sono stati qui”, insistette Legolas, “di questo siamo certi. Alcuni orchi devono averli portati nella foresta”.

“È probabile.  Hanno avuto molte ore di oscurità a disposizione in cui fuggire, e quando abbiamo preso la barricata abbiamo trovato solo questi”.

Gimli diede un colpetto col piede al corpo più vicino e disse, “Questi non sono gli stessi orchi che abbiamo combattuto ad Amon Hen. Sembrano più simili agli orchi di Moria”.

“Infatti. Le montagne ne sono infestate”. Èomer indicò verso ovest. “Le Montagne Nebbiose terminano laggiù, a Nan Curunìr, dove si trova Isengard, e i grandi speroni di roccia che circondano la vallata sono percorsi dai cunicoli degli orchi di montagna. C’è chi sostiene che lo stregone che vive là sorvegli i nostri confini, impedendo loro il passaggio. Altri dicono che sia lui stesso a comandarli”.

Il viso di Éomer si indurì, e suoi occhi grigi lampeggiarono di rabbia.

“Qualunque sia la verità, aumentano giorno dopo giorno, e ci temono sempre meno. E ora hanno osato spingersi fino alle pianure di Rohan, portando guerra e morte”.

“Non lasciarti ingannare,” disse Gimli, “è Saruman che li manda. Gli orchi che hanno preso i nostri compagni sono stati creati nelle fornaci di Isengard, e marciano agli ordini dello stregone. Saruman non è vostro alleato, Éomer del Mark”.

“Lo so”. Le semplici parole erano piene di amarezza e rabbia.

Legolas si volse nuovamente verso la catasta di cadaveri, con la mente rivolta al destino dei suoi amici.

“Se a combattere sono rimasti soltanto questi, significa che gli orchi più grandi sono fuggiti ad ovest, portando con sè  Aragorn e Boromir.”

Éomer sollevò di scatto il capo, fissando Legolas. “Boromir? Di quale Boromir state parlando?”

“Boromir di Gondor, figlio di Denethor. Egli ti è noto?”

“Ahimè!” L’uomo parve colpito, e i suoi occhi si volsero verso l’oscurità della foresta, pieni di disperazione. “Ahimè, mastro Elfo, porti notizie funeste! Se avessimo saputo che il figlio di Denethor era prigioniero avremmo lottato fino all’ultimo uomo per liberarlo!”

Merry si avvicinò al biondo straniero, osservandolo con nuovo interesse. “Sei un suo amico?”

“Non sono così fortunato da potermi definire suo amico, ma lo conosco. E ho combattuto al suo fianco”.

Merry raddrizzò le spalle, orgogliosamente. “Anche io.”

Èomer si girò verso di lui, guardandolo con curiosità. “Tu hai combattuto a fianco del Capitano di Gondor? Devi essere considerato un grande guerriero presso il tuo popolo”.

“Beh…non so se qualcuno del mio popolo possa essere definito guerriero… ma ho ucciso un orco o due con la mia piccola spada. Ed è stato Boromir che mi ha insegnato ad usarla”.

“Dunque è tuo amico?”

“Sì.”

Merry sentì le lacrime pungergli gli occhi, ma si sforzò di trattenerle, e sostenne con orgoglio lo sguardo di Èomer.

"Sì, è mio amico, e lo seguirò fino ai sotterranei di Isengard. Gli devo la vita”.

Èomer si inginocchiò per essere alla stessa altezza di Merry. Il suo viso, benché severo, era tuttavia gentile, e il suo sorriso era cordiale ma triste.

“Ti auguro un viaggio veloce, e fortuna nella tua impresa, piccolo guerriero.”

“Ci farebbe comodo una spada in più, quando assaliremo le mura,”  osservò Pipino in tono pratico.

Èomer considerò quelle parole con serietà.

“Vorrei con tutto il cuore potervi offrire la mia spada e quelle del mio èored, ma il dovere viene prima di tutto, e in questo momento mi impone di tornare dal mio Re.  Deve essere informato di ciò che è accaduto qui, e avvertito del tradimento di Saruman”.

“Forse il tuo Re ci potrebbe aiutare?”

L’Uomo non disse nulla, e dalla sua espressione tesa gli hobbit capirono che avevano affrontato un argomento pericoloso. Pipino esitò un istante, poi prontamente cambiò discorso.

“Non mi piacciono questi boschi. Scommetto che qui vivono cose peggiori degli orchi.”

“Cose più antiche, certamente,” mormorò Legolas, scrutando la foresta circostante col suo sguardo acuto.

Èomer si alzò in piedi e si diresse verso il suo cavallo.

“Se volete il mio consiglio, non avventuratevi dentro Fangorn. Ha una fama sinistra”.

“Ma non lo sembra,” rispose Legolas. “E comunque non ha importanza, perché dove sono andati gli orchi anche noi andremo. Tu non ti rendi conto dell’urgenza della nostra missione, uomo di Rohan”.

L’uomo scrollò le spalle, come a indicare che non si sarebbe aspettato niente di meno dalle sue nuove conoscenze, poi montò in sella.

“Andranno a ovest verso le pendici delle Montagne nebbiose, ma saperlo non vi aiuterà se vi perderete nelle ombre impenetrabili di Fangorn. Se mai doveste ripensarci e riuscirete a tornare vivi dalla foresta, allora venite a Meduseld alla Sala di Re Thèoden. Dovete promettermi sul vostro onore che vi presenterete al Signore del Mark e chiederete il suo permesso per attraversare le sue terre”.

“Hai la nostra parola, sul nostro onore”.

“Allora addio.” Voltò il suo cavallo e si fermò per guardare Merry, con un sorriso. “Buona caccia.” Poi partì al galoppo, lasciando i quattro viaggiatori soli in mezzo ai corpi dei caduti.

 

A mezzogiorno i quattro cacciatori erano ormai nel profondo della foresta. Seguivano il corso dell’Entalluvio, restando sulla riva orientale, dove Legolas poteva trovare le impronte degli orchi nel fango. Si muovevano in una tetra, grigia oscurità. Tutto attorno a loro gravava un opprimente senso di disagio, quasi rabbioso, che sembrava alitare sui loro colli mentre passavano.

Legolas teneva il passo più veloce che il calore soffocante e l’aria sottile della foresta gli consentivano. L’urgenza della caccia li sosteneva, e ogni ora che passava aumentava la loro risolutezza, ma le loro forze diminuivano. Gli hobbit stavano già barcollando per la stanchezza, e il nano era sprofondato in un cupo silenzio, quando a un tratto Legolas gridò.

“Guardate! Il sole ha trovato la strada per salutarci!”

Gli altri alzarono lo sguardo, e videro uno splendente raggio si sole che passava attraverso il fitto fogliame della foresta davanti a loro, a ovest.  A quella vista, Merry sentì il suo spirito risollevarsi.

“Andiamo da quella parte,” propose. “Vorrei tanto poter sentire il sole sulla faccia ancora una volta!”

“E io vorrei respirare liberamente, senza tutti questi alberi che mi osservano,” disse Pipino.

L’elfo e il nano non si opposero, e la compagnia lasciò il fiume per immergersi nella penombra della foresta. Ci volle un po’ di tempo perché raggiungessero il loro obiettivo, ma finalmente lasciarono le ombre per uscire nella luce calda e limpida del primo pomeriggio. Si trovarono ai piedi di una ripida collina che saliva verso l’aria aperta. Molti alberi affollavano la sua base, come se lottassero tra di loro per avere un po’ di luce, ma le pendici della collina erano nude e rocciose, coperte solo di arbusti e radi cespugli.

Sulla roccia davanti a loro si inerpicava una sorta di rozza scalinata, che conduceva a una sporgenza dalla quale si poteva avere un’ampia visuale della foresta sottostante, e che forniva un ottimo posto per riposare. I viaggiatori non fecero caso alla squallida desolazione della collina, o ai cardi che crescevano a fatica lungo i suoi fianchi. Vedevano solo il cielo aperto e la promessa di una sosta nella loro caccia. Sorridendo nonostante la stanchezza e le preoccupazioni, salirono i gradini irregolari fino a giungere alla sporgenza. Là gettarono i loro zaini e si lasciarono cadere a terra, guardando il cielo come se non lo avessero mai visto prima d’allora.

Merry consumò una magra porzione di lembas e acqua, e stava già cominciando a sonnecchiare al sole, quando un sibilo d’avvertimento di Legolas lo riportò bruscamente alla realtà. Si alzò faticosamente in piedi e corse al limite della sporgenza dove stava Legolas, osservando le ombre al di sotto degli alberi. L’elfo aveva una freccia già incoccata al suo arco.

“Cosa succede, Mastro Elfo?” domandò Gimli.

Legolas indicò con un cenno del capo verso gli alberi ai piedi della collina. “Là, qualcosa si sta muovendo verso di noi. Vedi?”

In quel momento, una figura uscì dagli alberi e si fermò alla base della scalinata. Era un uomo, curvo per gli anni, vestito di grigi stracci, che si appoggiava a un bastone.  Il suo viso era nascosto da un grande cappuccio e dalla falda del cappello. Quando sollevò la testa per guardarli, Merry vide solo la punta del suo naso e una lunga barba grigia. Nessuno si mosse né parlò, come se lo straniero li tenesse sotto un qualche incantesimo, e l’arco di Legolas rimase inutilizzato.

“Ben trovati, amici miei,” disse il vecchio, con una voce gentile e potente allo stesso tempo.

“Desidero parlarvi. Scenderete voi o dovrò salire io stesso?” Senza attendere risposta, cominciò a salire.

Con grande sforzo Gimli si liberò dell’incantesimo, e mentre il vecchio si avvicinava, gli andò incontro con l’ascia in mano. “Fermati, straniero! Non avvicinarti oltre, o assaggerai la mia lama!”

“È così che accogliete un vecchio che desidera solo fare un po’ di conversazione?” L’uomo si fermò,  guardando il nano con occhi scintillanti da sotto il suo cappuccio.

“Metti via la tua arma, mio buon nano. Non ne avrai bisogno.”

Gimli arretrò inciampando, con la sorpresa e la confusione dipinte sul suo volto. La sua ascia scivolò a terra ai suoi piedi. I quattro cacciatori non poterono fare altro che osservare, sbigottiti, mentre il vecchio saliva d’un balzo gli ultimi gradini, raggiungendoli con le braccia aperte in segno di benvenuto. Con un gesto si scrollò di dosso il logoro mantello e rimase in piedi di fronte a loro, vestito interamente di bianco scintillante, con il capo scoperto e il viso in piena luce. I suoi occhi sorridevano loro da sotto le folte sopracciglia.

“Di nuovo, ben trovati!”

“Aiee!” Legolas proruppe in un alto grido e lasciò partire una freccia verso l’alto. Il dardo scomparve in una fiammata.

“Mithrandir! Mithrandir!”

Merry udì il nome e capì, ma non riusciva a muoversi. I suoi piedi erano come inchiodati al suolo e le sue membra erano intorpidite per lo stupore. Guardando la creatura splendente e sorridente che era ritornata dalla morte, lacrime di gioia cominciarono a scendergli dagli occhi, eppure era ancora come paralizzato. Poi i suoi occhi si posarono su di lui, e un sorriso li illuminò.

“Mio caro Merry.”

Quelle parole lo liberarono. Il suo corpo ritornò a rispondere ai suoi comandi, e senza chiedersi che cosa stesse succedendo, Merry lasciò cadere la spada e corse incontro allo stregone, abbracciandolo. “Gandalf, Gandalf! Sei tornato!”

*** *** ***

Gandalf sedeva con la testa abbassata, ascoltando Gimli che raccontava della loro caccia attraverso i campi di Rohan, con il viso in ombra sotto l’ampia falda del suo cappello. Quando il nano ebbe terminato il suo racconto, il mago posò lo sguardo sui quattro restanti membri della Compagnia, con il viso teso e carico di dolore. Per alcuni momenti non disse nulla, ma gli altri rimasero in attesa, sperando che egli avrebbe avuto qualche parola saggia per loro, qualche consiglio.

Poi Gandalf sospirò e disse, “Ahimè, questo è davvero un male. L’Erede di Isildur è un’arma che non possiamo permetterci di perdere, e il mio cuore soffre nel sapere che uomini così valorosi sono caduti nelle mani del Nemico.”

Gimli strinse l’impugnatura dell’ascia e ringhiò, “Ma non li abbiamo ancora perduti! Abbiamo giurato di liberarli e li libereremo, anche se dovessimo inseguirli per tutta la Terra di Mezzo!”

“La vostra caccia è finita, mio buon nano. Ormai gli orchi saranno vicini alle montagne e al riparo delle caverne. Raggiungeranno Isengard. Non potete impedirlo.”

“Non possiamo nemmeno abbandonare i nostri amici!” Protestò Merry.

“Certo che no. Ma se volete aiutarli dovrete trovare un altro modo. Un piano che abbia qualche possibilità di riuscire”.

Legolas si agitò inquieto, guardando tra il fitto fogliame della foresta come se sperasse di scorgere qualche traccia degli orchi al di sotto di esso. “E tu cosa vedi, Gandalf, che noi non riusciamo a vedere?” Si voltò a guardare Gandalf, e i suoi occhi erano cupi per la disperazione, la loro luce elfica oscurata.

“Anche senza speranza, noi dobbiamo andare avanti”.

Lo stregone increspò le labbra pensierosamente, mentre sotto le sue folte sopracciglia i suoi occhi scintillavano. “E noi andremo avanti, Legolas, fino alle mura di Isengard! Ma non da soli! Non da soli”.

“E chi verrà con noi?” chiese Pipino. “I Cavalieri?”

“Sì, se riusciremo a far comprendere a Re Thèoden il pericolo che corre. Ma i Rohirrim sono solo uno dei problemi di Saruman. Egli ha dimenticato i suoi altri vicini di casa: molto più vecchi, saggi e potenti di qualsiasi razza di Uomini… e se interpreto bene i sussurri degli alberi, ben presto egli si troverà circondato da ogni parte”.

“Parli per enigmi,” lo rimproverò Legolas sorridendo.

Gandalf rise. “La risposta a questi enigmi è tutta attorno a te, mastro Elfo. Saruman ha risvegliato l’antico potere che dormiva accanto a lui. Ha risvegliato l’ira di Fangorn.”

“La foresta?”, chiese Pipino.

“Fangorn è molto più di quello che tu vedi attorno a te, Pipino. Fangorn è il pastore degli alberi e il guardiano della foresta. È il più vecchio degli Ent”.

Legolas gli lanciò un’occhiata incredula. “Gli Ent! Dunque gli Onodrim vivono ancora nella Terra di Mezzo? Questo è davvero un giorno di prodigi!”

“Più di quanto tu creda. Fangorn è lento all’ira e ancor più lento all’azione, ma il tradimento di Saruman ha fatto ribollire la sua rabbia. E presto traboccherà, scorrendo come una marea verso Orthanc. E allora saranno guai per Saruman, i suoi orchi e le loro asce!”

Ogni traccia di vecchiaia e di stanchezza scomparve dal volto di Gandalf, che balzò in piedi allargando le braccia per abbracciare i suoi compagni, e annunciò, “Questo è il momento, amici miei! Il nemico sta allungando la mano per afferrare la preda di Saruman, proprio ora mentre parliamo, e non abbiamo tempo di aspettare saggi consigli. Dobbiamo risvegliare l’ira degli Ent e degli Uomini, incitarli alla guerra, e assalire insieme le mura di Isengard!”

Gimli brandì la sua ascia, alzandola al cielo, e ruggì, “A Isengard!”

“A Isengard”, fecero eco gli altri, balzando in piedi.

“Ma prima, dobbiamo andare dagli Ent,” disse Gandalf, ammiccando. “Venite”.

Rinfoderando le armi, i membri superstiti della compagnia si avvolsero nei mantelli elfici e seguirono Gandalf nelle ombre di Fangorn.

 

*** *** ***

 

Aragorn stava in piedi appoggiato con la schiena ad una di pietra grezza di fronte all’unica porta della stanza. Ai lati della porta ardevano due torce accese, il cui fumo acre saliva fino al soffitto, dove rimaneva ad aleggiare come un’ombra vivente, agitandosi ad ogni spostamento d’aria. Il Ramingo era vestito soltanto di un pezzo di stoffa grezza ai suoi fianchi, ma a causa del calore soffocante dei sotterranei il sudore scorreva lungo il suo corpo seminudo. La ferita alla gamba sinistra pulsava e bruciava dolorosamente, e sangue scuro fuoriusciva dalle escoriazioni. Il dolore era terribile, ma almeno dava ad Aragorn qualcosa su cui concentrarsi in quel pauroso incubo soffocante. Faceva sì che la sua mente restasse lucida, ricordandogli quanto reale e grave fosse la sua situazione.

Da quando era uscito dalle buie caverne ai piedi delle Montagne Nebbiose per giungere nella valle di Isengard, Aragorn aveva perso completamente il senso della realtà. La vallata, un tempo verde e rigogliosa, ora era una distesa arida, percorsa da fuoco e abissi, dominata dalla tetra torre di Orthanc. Fumo, vapore e voli di neri uccelli costellavano il cielo, e le grida degli orchi si mescolavano allo stridere del metallo e al gracchiare degli uccelli. Nulla ormai viveva più attorno a Isengard, e il cuore di Aragorn piangeva per quella dissacrazione.

Gli orchi avevano portato i loro prigionieri nelle viscere della terra attraverso caverne che sembravano pulsare al calore delle fiamme, tunnel scavati nella roccia e illuminati da file di torce gocciolanti, fonderie, armerie, fornaci, canali di scolo e depositi di rifiuti che puzzavano di corruzione. Aragorn aveva visto creature e congegni che superavano ogni sua immaginazione – gruppi di schiavi frustati da orchi che controllavano il loro lavoro, macchine che cigolavano ed emettevano un fetore orribile - e ovunque dominava l’odore di bruciato.

Quando finalmente erano giunti alla sua cella, Aragorn si era sentito momentaneamente sollevato nel vedere la porta di legno chiudersi, separandolo dagli orrori del regno di Saruman. Poi avevano portato via Boromir, e per la prima volta dalla loro cattura, Aragorn si era trovato completamente solo.

In tutti gli anni che aveva trascorso come un Ramingo e un vagabondo, Aragorn non aveva mai provato un senso di isolamento così terribile. Era abbastanza coraggioso da ammettere la sua paura, e abbastanza saggio da riconoscere che era la sua amicizia con Boromir che lo rendeva così vulnerabile. Non aveva paura per sé stesso, anche se sapeva che lo attendeva una sofferenza come mai ne aveva provata. Temeva per il suo amico, e per la pressione che Saruman avrebbe esercitato su di lui per sfruttare il legame di amicizia che li univa. E in quella cella, incatenato al muro mani e piedi, immobilizzato e inerme, Aragorn conobbe una solitudine e un terrore più terribili di qualunque dolore fisico.

Non poteva fare altro che attendere. Si appoggiò al muro, sollevando il peso dalla gamba ferita, e piegò la testa. Ad un osservatore esterno sarebbe potuto apparire sconfitto, spaventato, fiaccato nello spirito, ma in realtà stava raccogliendo le forze, cercando dentro di sé l’energia per affrontare sia Saruman che l’Oscuro Signore. Tutte le sofferenze che aveva sopportato durante la marcia, tutti gli insulti, i maltrattamenti e le privazioni erano state solo un assaggio, e doveva essere pronto.

Infine arrivarono gli orchi, accompagnati dal rumore degli stivali ferrati sulla pietra grezza del tunnel, con le torce che gettavano profonde ombre lungo i muri. Aragorn non sollevò lo sguardo al loro arrivo, ma si limitò ad aspettare, immobile. Poco lontano da lui, un fagotto fu gettato al suolo. Aprendosi, rivelò al suo interno il suo equipaggiamento e i suoi abiti, tagliati e strappati nella foga della perquisizione. Aragorn vide la furia e la frustrazione di Saruman in ogni taglio e in ogni strappo.

“Aragorn, figlio di Arathorn”.

La voce sembrò riempire la stanza col suo timbro profondo e melodioso, e fece scattare la testa di Aragorn nella sua direzione. Si ritrovò a fissare due occhi scuri e senza fondo come la voce, occhi penetranti che scintillavano, e che versavano il balsamo della pietà sulle sue ferite, intimorendolo con la loro saggezza.

“A lungo ho desiderato la tua venuta, Erede di Gondor. A lungo ho atteso che il Re ascoltasse i consigli di Saruman il Saggio”.

La splendente figura sulla porta mosse un passo verso il prigioniero, allontanandosi dalle guardie al suo fianco, e mentre camminava, la luce rossastra delle torce scivolava sui suoi abiti, facendoli brillare di una miriade di colori. In mano aveva un bastone, la cui sommità era una replica in miniatura delle guglie di Orthanc, e su un dito di quella mano, indossava un anello. Vedendo quella mano affusolata e pallida, Aragorn si ricordò di quello che Gandalf aveva detto al Concilio di Elrond, di come Saruman avesse forgiato un anello di potere per sé, a imitazione degli antichi orafi elfici. Il ricordo di Gandalf, suo amico e guida, dissipò la magia della voce dello stregone e gli schiarì i pensieri. Incontrò di nuovo quello sguardo compassionevole, ma stavolta senza traccia di turbamento.

“Non sono ancora Re, Saruman, e tu non sei il mio consigliere”.

“Ah, la follia degli Uomini.” Aragorn non rispose, e Saruman sorrise freddamente. “È grazie a questa follia che l’Oscuro Signore è tornato a risorgere, per minacciare tutta la Terra di Mezzo con la sua Ombra”.

Aragorn non se la sentì di controbattere. In lui era anche troppo vivo il senso di colpa per i fallimenti della sua razza. Aveva ereditato il trono di Isildur, ma anche le conseguenze della sua follia, e finché non avesse rimediato a quest’ultima, non avrebbe potuto rivendicare il trono. Quello era il conflitto che segnava la sua vita, riassunto da Saruman il traditore in una sola frase.

“Ti offro ora la possibilità di cancellare gli errori dei tuoi antenati e di rivendicare ciò che è tuo, libero da macchie e da dubbi,” insistette Saruman, la sua voce morbida come velluto e intessuta di potenza.

“Ti offro di porre fine al tuo vagabondare, al tuo esilio, alla guerra e all’ombra. Guarda nel tuo cuore, Aragorn, figlio di Arathorn, e ammetti che ti sto offrendo il tuo più grande desiderio”.

Aragorn non aveva bisogno di guardare nel suo cuore. Sapeva che Saruman diceva il vero, ma sapeva anche che la verità nascondeva un inganno. “E qual è il prezzo del mio desiderio?”

“Un’alleanza.” Di nuovo, Aragorn non disse nulla, e il suo silenzio parve infondere nuova eloquenza nello stregone.

“Unisciti a me. Porta il tuo vessillo alla testa del mio esercito, cosicché tutte le genti dell’Ovest sappiano che il loro Re è tornato, e io ti guiderò alla vittoria contro l’Ombra. Io posso farlo, Aragorn. Io posso metterti sul trono di Gondor, e bandire Sauron dalla Terra di Mezzo per sempre!”

“Se io ti darò l’Anello”.

Gli occhi di Saruman lampeggiarono. “L’Anello. L’arma del Nemico. Quale modo migliore di sconfiggerlo, se non usare la sua stessa arma contro di lui?”

Il suono familiare di quelle parole e la fiera passione negli occhi dello stregone mandarono un brivido lungo la schiena di Aragorn. Immaginò il viso di Boromir nel momento in cui aveva tentato di prendere l’Anello a Frodo, e la vista del tormento e del desiderio che l’Anello poteva infliggere lo atterrì, eppure tenne nascosto il suo orrore e parlò con voce ferma.

“Io non ho l’Anello”.

“Ma sai dove si trova. Sai dove l’ha nascosto Gandalf”.

“Dirtelo significherebbe tradire un amico”.

“Per il bene delle Terra di Mezzo!”

Aragorn si ritrasse per quanto gli era possibile dalle sue catene, nauseato dalle parole di Saruman, eppure affascinato suo malgrado.

“E così ora vorresti tradire Sauron, come tradisti il Consiglio Bianco prima di lui”.

“Se il male viene annientato, cosa importa quale mezzo si usa? Preferiresti che consegnassi l’Anello a lui?”

“Tu non hai l’Anello, né da tenere, né da consegnare”.

“No, ma ho te, e per Sauron tu sei importante quasi quanto l’Anello del Potere. Sa che i miei schiavi ti hanno catturato. Presto, molto presto, i Nazgûl verranno a prenderti. Gondor sarà privata del suo Re, del simbolo della sua antica gloria, e cadrà nella disperazione”.

“A che servono allora le tue promesse? Che vantaggio può darmi un’alleanza con Saruman, se sono condannato a morire nelle prigioni di Sauron?”

Saruman sorrise, come se provasse pietà per la diffidenza di Aragorn nei suoi confronti.

“I Nazgûl vengono in cerca di un Erede, e un Erede avranno. E mentre loro se ne andranno con la loro preda, noi andremo a recuperare l’Anello. Quando Sauron si accorgerà di avere catturato un Sovrintendente invece di un Re, noi avremo già la vittoria in pugno!”

Le sue parole echeggiarono nel silenzio. Aragorn lo osservò impassibile, contemplando la brama, l’avidità e i trionfo sul suo viso, celati a stento dalla sua apparente calma. Saruman stava probabilmente pensando che il suo prigioniero stesse valutando la sua offerta, tentato da essa, e Aragorn lasciò che sorridesse.

Infine parlò, con voce sommessa e pericolosamente calma. “Così dovrei tradire due amici”.

“Il figlio di Denethor non è tuo amico! È un uomo arrogante, orgoglioso e ambizioso, che non si inchinerà mai di fronte ad alcun re”.

Nonostante Aragorn fosse in catene, nudo e sudicio, e costretto ad ascoltare le infide parole di Saruman, sorrise.

Nella sua mente sentì di nuovo la voce dell'amico, un sussurro dall’oscurità, che lo chiamava Re, e giurava di mandarlo a Gondor, al suo trono e alla sua gente, come ultimo dono da parte del loro Capitano caduto. Rivide il dolore e il rimpianto sul volto di Boromir, la sofferenza causata dalla sua debolezza, quando aveva infranto il suo giuramento e tradito la Compagnia. E Aragorn capì che Saruman li aveva sottovalutati entrambi.

“Non ti darò l’Anello, Saruman, e non tradirò la fiducia dei miei amici. Non ci sarà alleanza”.

 

Continua…

  
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