Tipsy little angel
Nankatsu – Marzo 1979
Scese dalla limousine e meditò se accendersi una sigaretta ~
No, dannazione! ~ con il ragazzino tra i piedi doveva limitarsi, oppure sua
moglie lo avrebbe assillato con la solfa del “pessimo esempio che sei per
tuo figlio”. Che, come al suo solito, lo aveva tormentato per una mezz’ora
buona per portarlo con sé a Nankatsu: ogni palleggio che faceva con la sua
stramaledettissima sfera di cuoio accompagnava un motivo logico per cui lui
doveva… E, alla fine, come sempre, il bastardino aveva vinto.
Genzō trotterellò fuori dall’auto e, strano a dirsi,
calciò il pallone, che rimbalzò contro il muro di cinta e tornò indietro, per
poi finire, immancabilmente, di nuovo tra i piedi. – Se, quando siamo dentro,
lo tieni in mano, magari è meglio… –
– Sì, papà! – trattenne la palla nell’incavo del gomito, poi
lesse sull’insegna di ottone – Shutetsu… – si voltò e chiese – Si chiama così
la nuova scuola? – Rispose annuendo compiaciuto: il moccioso sapeva già leggere
un buon numero di kanji, pur non avendo ancora sei anni! – Ma, c’è la squadra
di calcio, vero papà? – domandò, per l’ennesima volta, e, di nuovo, con
quell’espressione leggermente ansiosa. Così lo afferrò da sotto le ascelle,
sospirando, e lo depositò in piedi sul muretto.
Aggrappato all’inferriata, sbirciò il campo da allenamento
approvando con un sorriso finalmente rilassato. – Beh, ora sei convinto? – Il
bastardino annuì, soddisfatto, poi, senza preavviso, si lanciò in braccio per
scendere.
– Kamisama, Genzō! Non hai più tre anni… – si lamentò,
sogghignando, – Pesi, sai? – Saltò giù ridacchiando, poi, con passo deciso, e
sempre tenendo il suo amico sferico sottobraccio, andò a suonare il campanello,
che raggiunse con un saltello, dato che, anche se era già piuttosto alto
rispetto alla media dei coetanei, ancora non ci arrivava, ma non avrebbe mai
chiesto a papone di farlo al posto suo.
Aveva deciso di venire proprio nel periodo di pausa che
intercorreva tra fine e inizio di anno scolastico, per sbrigare le formalità
burocratiche dell’iscrizione, quindi era ancora chiusa, e praticamente deserta
a parte il personale; mentre i numerosi club sportivi brulicavano ugualmente di
mocciosi chiassosi. Neanche cinque minuti, e l’impazienza di suo figlio era già
parecchio evidente, così gli suggerì di andare al campo per fare conoscenza con
i futuri compagni di squadra, e lui schizzò via alla velocità di uno Shinkansen,
ben contento di poter uscire all’aperto.
Altrimenti, entro altri cinque minuti al massimo, avrebbe
ricominciato a palleggiare persino dentro l’ufficio del Preside. L’ometto
servile dagli occhietti porcini e le maniere affettate lo trattenne anche più
del necessario. L’inetto aveva comunque fiutato odore di yen, e, di
conseguenza, si era abbondantemente sperticato in iperboliche quanto superflue
illustrazioni di tutti i vantaggi che il suo istituto privato poteva offrire a
un ragazzo dotato, ma, soprattutto, di buona famiglia.
~ Che leccaculo… ~ e gli voltò maleducatamente le
spalle, apposta, sbirciando Genzō dalla finestra, felice come un
orsacchiotto che ha appena trovato un alveare.
Nel pieno della primavera, gli acquazzoni improvvisi erano
piuttosto frequenti; infatti, si sentirono giusto un paio di tuoni ravvicinati,
poi la pioggia scrosciò, ma i ragazzini continuarono a giocare incuranti. Così,
quando andò a riprenderlo, era completamente fradicio e ricoperto di fango
dalla testa ai piedi.
~ Che senso ha buttarsi nelle pozzanghere per prendere un
pallone? ~ e sogghignò: nemmeno Mikami, in tanti anni, era mai riuscito a
fornirgli una spiegazione che per lui fosse logica e razionale, e il moccioso,
ora, stava seguendo le sue orme.
Avrebbero alloggiato presso un Minshuku, dato che in
quel buco di cittadina la parola “albergo” non era ancora conosciuta, che si
trovava proprio di fronte al bagno pubblico, cosa di cui il bastardino adesso
aveva proprio bisogno.
L’indomani mattina sarebbero andati a vedere la casa, quindi
avrebbero trascorso la notte a Nankatsu, perché fare avanti e indietro in
macchina da Tōkyō, due volte in due giorni, era un’ovvia quanto
inutile perdita di tempo.
* * *
La grande villa soddisfece pienamente le sue aspettative ed
esigenze: in giardino c’era spazio in abbondanza tanto da poterci installare un
campo da calcetto; così, il Numero Uno in formato tascabile avrebbe potuto
allenarsi, dove poteva vederlo.
E, mentre lui entrava e usciva da innumerevoli quanto
superflue stanze, dietro ad un ometto basso dalla faccia sudaticcia e il
sorriso falso di chi ha adocchiato la vacca grassa da mungere, Genzō era
andato a perlustrare l’esterno.
Irritato da quel continuo chiacchiericcio, si accese una
sigaretta, così l’inetto dovette allontanarsi per recuperare un posacenere, e,
nel frattempo, era riuscito a seminarlo; da una finestra al piano superiore
scorse in lontananza il cappellino rosso che si muoveva veloce e, scontato,
palla al piede.
Il tempo era cambiato da nuvoloso a sereno più volte, quella
mattina, mentre adesso splendeva un bel sole, e la temperatura era anche
piuttosto calda per la stagione; così, il moccioso, alla fine della visita,
riapparve accaldato e sudato come un cammello.
Dopo aver pranzato fuori, i due uomini (o quasi) Wakabayashi
fecero un giro turistico di Nankatsu, (totalmente inutile anche quello, e per
giunta a piedi, e tutto, solo perché il bastardino aveva insistito per un’altra
buona mezz’ora), che si rivelò assolutamente perfetta: una piccola cittadina di
provincia, tranquilla, sicuramente noiosa per lui, ma decisamente adatta per
crescere un bambino.
La sera, a cena, Genzō spiluccò svogliatamente nel
piatto; strano, di solito divorava tutto in meno di cinque minuti con appetito
famelico, e sembrava anche un po' pallido. – Non ti senti bene? – Lui fece
spallucce – Sono solo stanco. – Gli passò una mano sotto il mento, sentendo che
era leggermente caldo. – Va' a farti una bella dormita, allora, vorrà dire che
rientreremo a Tōkyō domani. – Lui annuì e si ritirò in bagno. Forse
aveva sudato troppo, oggi, e dopo essersi inzuppato per bene ieri, considerò.
I proprietari del Minshuku, sentito il cognome
altisonante, avevano addirittura messo a disposizione la loro parte di casa,
trasferendosi in una delle camere per gli ospiti, quindi stavano in un vero e
proprio alloggio indipendente, e isolato dagli altri. Una parte veniva utilizzata
per mangiare e dormire, l’altra invece fungeva da ufficio del gestore, perciò
era dotata di scrivania, e persino di un piccolo divano all’occidentale, per
fare accomodare i clienti in attesa di essere ricevuti.
Tirò fuori i suoi papiri dalla ventiquattrore e si mise a
lavorare, tanto valeva sfruttare quel tempo in modo produttivo. Dopo neanche un
quarto d’ora, il bastardino spuntò da uno spiraglio di fusuma: sembrava
ancora più pallido, ed era tutto stropicciato e avvolto nella coperta; tossì –
Mi fa male la gola, papà… – lo raggiunse e si accoccolò come un cucciolo
nascondendo il musetto nell’incavo della spalla.
E ora era anche più caldo di prima, costatò accarezzandogli
la fronte; così lo spedì a letto e andò dai proprietari per farsi mandare un
medico. E, chissenefrega, se erano fuori orario di visita, aveva
risposto, seccato, alle pur giuste obiezioni dell’uomo, perché, decisamente
no, Genzō non poteva aspettare fino a domani mattina.
* * *
Più tardi… – Bronchite! – esclamò da seduto sulla scrivania,
con le suole delle scarpe che comunque puntellavano il tatami, poi
sbuffò – Inoltre, quell’inetto del dottore ha prescritto soltanto un inutile
sciroppo per la tosse, nemmeno un dannato antibiotico a largo spettro… –
Silenzio. – No, ma io dico, – continuò allora, – in questo modo ero capace
anch’io a fare la diagnosi: tosse! – Un’altra pausa silenziosa.
Poi, dall’altra parte della linea telefonica, a Tōkyō,
si sentì una risatina femminile – Già, dimenticavo: tu non sei soltanto
tuttologo, e onnisciente, ma hai anche una laurea in otorinolaringoiatria! –
Yūta bofonchiò infastidito.
– Ha soltanto qualche linea di febbre, suvvia! – rispose
Mitsuki con un tono sorridente, – In un paio di giorni, passa, e intanto domani
io vi raggiungo a Nankatsu. – Al che, suo marito parve tranquillizzato, o
meglio, rassegnato, e riattaccò.
Posò la cornetta e sospirò, frustrato di dover restare
ancora in quell’insulsa cittadina, e in casa d’altri, per giunta; poi scorse
Genzō, di nuovo imbacuccato “a bruco” nella sua coperta, che lo guardava
dal fusuma comunicante aperto parzialmente.
– Fila subito a letto, che prendi freddo – abbaiò. – Ma
papà, mi annoio di là da solo… – protestò timidamente con un filo di voce roca.
Rivolse lo sguardo al soffitto e si arrese – E va bene! – aprì le braccia e il
cucciolo ci si rannicchiò, lo sollevò come un sacco di patate e lo sistemò sul
divanetto, coprendolo per bene; poi riprese a lavorare.
La padrona venne a portargli la sua cena, stavolta frugale,
perché l’appetito lupesco si era tramandato geneticamente, ma per linea
materna; Genzō aveva dormicchiato, nel frattempo, sebbene ogni tanto il
mucchietto di coperte avesse sussultato a causa della tosse. Così lo svegliò
per fargli prendere lo sciroppo e un po' di brodo caldo, e lo spedì nel futon,
intimandogli di rimanerci, stavolta; poi tornò alle sue scartoffie.
* * *
Durante la notte fu destato di soprassalto da un insistente
attacco di tosse; mise su lo yukata, prese bottiglietta e cucchiaino, e
tutto tornò alla normalità, per un’oretta, o anche meno… Poi, di nuovo, la
stessa solfa di prima. ~ Ma non serve proprio ad un emerito accidente,
allora, questo dannatissimo, inutile sciroppo! ~
Così, andò in cucina, perché, quando lui e i suoi fratelli,
da piccoli, avevano le malattie da raffreddamento, Megumi Tendō preparava
sempre una bella tazza di latte caldo col miele, decisamente più efficace.
Infatti, stavolta l’effetto calmante durò molto di più, ma dovette alzarsi per
la terza volta, pensando che il moccioso non fosse mai stato così fastidioso, nemmeno
quando aveva messo i denti.
La ricetta dello “sciroppo” casalingo di sua madre prevedeva
un terzo ingrediente da aggiungere in caso di necessità, e quella era davvero
estrema, o ne sarebbe andata della sua sanità mentale, se si fosse dovuto
svegliare una quarta volta. Aprì ogni anta, rovistando nei vari scomparti e
fiutando il contenuto di tutte le bottiglie di vetro; poi, finalmente, eccolo,
nascosto tra liquori occidentali e distillati fatti in casa: cognac!
Aveva quasi dubitato di poterlo trovare in quel Minshuku
di provincia, infatti, arricciò il naso disgustato, era di qualità piuttosto
scadente, ma sarebbe servito allo scopo, e sicuramente più efficientemente di
quella sottospecie di medicinale, inetto quanto il dottore. Così, ne versò una
bella cucchiaiata nel latte e miele del lupacchiotto, poi rifletté e optò per
due dita in un bicchiere anche per sé, perché anche il Grande Lupo sempre
all’erta aveva pur bisogno di dormire qualche ora, ogni tanto.
Subito, Genzō fu un po' riluttante a causa del gusto
insolito e pungente della bevanda calda. – Dai, su, manda giù: tua nonna me lo
faceva sempre, quando anch’io avevo la tosse… – lo esortò pazientemente; dopo
qualche timido sorso, parve apprezzare, e si scolò in fretta l’intera tazza, e,
alla fine, sospirò soddisfatto.
– Bravo campione! – gli scompigliò i capelli, lo avvolse
nella coperta e, di nuovo, se lo caricò in spalla come un sacco di patate, per
poi portarlo con sé di là nella zona ufficio e sistemarlo sul divanetto. Il
bastardino si riaddormentò seduta stante, e lui si rimise a lavorare, perché
tanto, ormai, aveva perso del tutto il sonno; non prima, però, di essere
tornato in cucina e aver sequestrato la bottiglia di quel tremendo cognac da
marciapiede. Casomai dovesse servire di nuovo a uno dei due Wakabayashi.
Anche se era comunque sicuro che il mucchietto di coperte,
stavolta, avrebbe sognato il suo amico sferico, proprio come un angioletto,
magari un po' brillo, ma senza più agitarsi per la tosse finché non fosse
arrivata sua madre in mattinata.
Dopo un po' Morfeo venne a fargli visita, così si rimise in
spalla il cucciolo dormiente per poi infilarlo dentro il suo futon, più
spazioso e comodo, pensando che alla villa avrebbe fatto mettere dei letti
veri, all’occidentale.
Prima di coricarsi anche lui, però, doveva fare un’ultima
cosa: adocchiato lo sciroppo inetto, lo afferrò e, con un ghigno di
sbieca soddisfazione, gli fece compiere un gran bel volo a parabola spedendolo
dentro il cestino dei rifiuti.
Poi raggiunse Genzō sotto le coperte e si concesse il
meritato riposo.