Capitolo
IV –
Gengar.
Dolcissimo,
possente
dominator
di mia
profonda mente;
terribile,
ma caro
dono
del ciel;
consorte
ai
lùgubri miei
giorni,
pensier
che innanzi
a me sì spesso torni.
Giacomo
Leopardi, Il
pensiero dominante.
La
luce nel suo ufficio
nella Palestra di Smeraldopoli che da poco si era conquistato era
spenta. Sakaki sedeva immobile alla sua scrivania, mollemente
adagiato sulla morbida poltrona di pelle.
Rifletteva.
Dopo
quasi trent'anni
di lavoro, aveva avuto la Spettrosonda tra le mani per pochissimo
tempo, finché quel ragazzino taciturno non era venuto a
impossessarsene. Eppure, per qualche motivo, questo non gli
dispiaceva tanto come aveva pensato in un primo momento. La
Spettrosonda era entrata in produzione, solo questo importava: entro
pochi mesi sarebbe diventata uno strumento immancabile nell'armamento
di qualsiasi allenatore e non vi sarebbe stato alcun luogo al mondo
dove i suoi aguzzini avrebbero potuto trovare riparo, come egli
stesso aveva profetizzato già da tempo. Che cosa importava
se non
aveva potuto trarne un profitto? Quello non sarebbe stato che un
gradevole ornamento a una vendetta già di per sé
perfettamente
compiuta. Quel piccolo, ambizioso allenatore avrebbe aperto la strada
a una innumerevole serie di profanatori dei misteri della Torre... ma
non sarebbe di certo stato il primo in assoluto, pensò
sorridendo.
La
notte in cui aveva
fatto ritorno al suo luogo natale era stata l'idilliaco coronamento
della sua esistenza: egli non poteva ricordarla senza provare un
senso di voluttà, di compiacimento che superava ogni altra
sensazione mai provata. Era stata una gioia più profonda del
guadagno, più totalizzante del potere, più
inebriante del sesso.
Socchiuse gli occhi per immergersi più profondamente nel
ricordo di
quella notte: gli sembrava di provare di nuovo ciascuna sensazione
con tutto il proprio essere. Riviveva tutto con la medesima
intensità: risentiva nelle narici l'odore della fredda
pietra umida
e della muffa, rivedeva la molle luce lunare che dalle alte finestre
proiettava liquide pozze d'argento sul pavimento, riudiva
l'echeggiare sonante dei suoi passi che rimbombavano tra le volte
ricurve...
A
Seel, amato
compagno di avventure, fino all'ultima ora fedele. Aveva
sostato a lungo di fronte alla lapide, percependola con tutti i
propri sensi, come ritrovando un amore perduto, quasi a saziare una
brama annosa. Per quanto tempo aveva desiderato trovarsi di nuovo
lì,
con una Spettrosonda tra le mani? Aveva assaporato quel momento
voluttuosamente, senza fretta, per goderne ogni singolo istante, ogni
minima sfumatura, dopo trent'anni che a quella notte erano stati
interamente devoluti.
Solo
dopo interminabili
minuti, quasi a malincuore, se ne era strappato. Aveva salito le
scale con passi lenti e misurati, gustando anche quel percorso con
piacere inimmaginabile, ma non senza scopo: quel giorno c'era stato
il funerale di un anziano Ninetales che era stato sepolto svariati
piani più sopra. Egli si era diretto alla sua tomba, certo
– per
chissà quale interiore, forse insensata convinzione
– che sarebbe
stato proprio quello il luogo dove più facilmente avrebbe
incontrato
gli Spettri.
La
lapide era nuova, lucida e bianca proprio come quella mattina di
tanti anni addietro egli aveva visto quella di Seel. Anche su quella
tomba Sakaki si era soffermato a lungo, pensierosamente: al funerale,
cui aveva assistito dal fondo della sala affollata, aveva intravisto
la famiglia a lutto. Eppure nessuno si era fermato a tenere compagnia
a quel povero Ninetales, tutti insensibilmente l'avevano abbandonato
subito dopo la cerimonia. Davvero quel povero ragazzo che egli stesso
un tempo era stato e che in quello stesso luogo, pochi piani
più
sotto, aveva per sempre cessato di esistere trent'anni prima, davvero
era stato lui l'unica persona in tutta la storia della Torre ad amare
così tanto un Pokémon defunto da volerlo
accompagnare fino alla
fine nel suo ultimo viaggio? Eppure Sakaki non era riuscito a
condannare la sua sciocchezza nel suo cuore, né vi riusciva
suo
malgrado ora, a distanza di mesi, mentre riviveva quell'avvenimento
nella propria mente.
Quella
notte aveva
atteso come supponeva di aver fatto in quella che l'aveva preceduta
di tanti anni, seduto sulla tomba con la schiena appoggiata alla
lapide; ma quella volta – e il suo cuore tutt'ora si riempiva
di
eccitazione e soddisfazione al solo ricordo – egli teneva
stretta
in mano, appoggiata contro il ginocchio reclinato, una lunga
Spettrosonda grigia...
Aveva
atteso attraverso
la notte senza fretta, coll'animo tutto pervaso da una straordinaria,
ineffabile pace. Non nutriva alcun dubbio che gli Spettri sarebbero
venuti: egli lo percepiva con sconcertante certezza nel proprio
animo.
E
in effetti, erano
arrivati.
Sakaki
li aveva
percepiti nel buio prima ancora di vederli o sentirli. Era rimasto
immobile, col respiro trattenuto, il cuore che palpitava nel petto e
il sangue che gli scorreva fremendo nei polsi, quasi appiattito
contro la dura lapide bianca di un defunto a lui sconosciuto; e poi,
quando a quelle presenza ch'egli soltanto avvertiva nel buio si erano
assommate le risate (ah!, quelle stridule risate sguaiate,
agghiaccianti! Quale ricordo fortissimo del primo suo minuto di vita!
Egli era rabbrividito e rabbrividiva tuttora al solo pensiero di
quelle risate che avevano echeggiato per anni lungo i suoi incubi)
ecco, allora egli era balzato in piedi e con calma voce profonda
aveva parlato rivolto all'oscurità.
«Eccomi,
sono
tornato.»
Tutto
era divenuto
silenzio, un silenzio nel quale le sue parole avevano cessato di
ripetersi nello spegnersi lento della propria eco. Allora, prima che
le presenze avessero avuto modo di fare alcunché, con un
unico gesto
egli aveva alzato la Spettrosonda e l'aveva avviata: un fiotto di
luce aveva folgorato la sala e Sakaki aveva visto di nuovo, ma da
vincitore!, quegli Spettri neri dalle orbite vuote che avevano avuto
ragione della sua mente.
«Qual
è il vostro
nome?»
Non
aveva saputo
trattenersi dal chiederlo, con foga selvaggia e un senso di
onnipotenza, con una risata forse più agghiacciante delle
loro,
mentre con un flebile ronzio la Spettrosonda terminava
l'identificazione e disperdeva l'energia usata dagli Spettri: e
allora, e allora... egli finalmente aveva visto, dopo una vita spesa
per quel solo attimo, i loro corpi!
E
in un solo, cruciale
istante egli aveva compreso a chi apparteneva la voce. I loro occhi
si erano incontrati per un istante, ma non occorreva di più.
Era un
Pokémon unico, diverso dagli altri: il suo corpo appariva
più
solido, di un viola scuro che era come fumo divenuto carne, i suoi
occhi erano malvage pozze rosse, e il suo ghigno bianco che si
allargava sulla sua faccia deforme...
No,
non era davvero
occorso di più. Sebbene questo non fosse stato previsto nel
suo
piano originale, egli aveva saputo all'istante cosa fare, e senza
soffermarsi a riflettere, senza rischiare di perdere quell'occasione
irripetibile, aveva afferrato una Ultraball e l'aveva gettata.
Forse
era stata una
follia, eppure ora, seduto di fronte alla Ultraball poggiata sulla
sua scrivania, Sakaki era certo di non aver vissuto per nient'altro
che per catturare quella creatura. Che curiosa fatalità: se
Jonathan
Silph non l'avesse tradito e non avesse fondato una sua propria
azienda con cui brevettare le sue ball...
La
sua mano accarezzò
la prigione del suo persecutore con un gesto che tradiva una
sorprendente dolcezza. Quando la Ultraball si era richiusa e aveva
smesso di vibrare, quella notte, tutti gli altri Spettri si erano
defilati tra alte strida di terrore, ma questo non aveva importanza:
Sakaki aveva catturato quella voce che era stata la prima che avesse
udito nella sua vita, l'entità che, con ogni
probabilità, gli aveva
sottratto la memoria...
Proprio
quell'entità era ora dinnanzi a lui, prigioniera per sempre
della
sua volontà. Non c'erano parole umane che potessero
descrivere
l'universo di sensazioni che quella consapevolezza cagionava in lui.
Le sue dita continuavano a percorrere senza sosta un loro enigmatico
percorso sulla superficie liscia di quella gabbia sferica, quasi con
amore, come a volerla baciare con la sola pelle dei polpastrelli.
Chissà quante ore aveva già trascorso ripetendo
quel gesto, che era
possesso e passione e mille altre emozioni...
«Signore,
il ragazzo
si sta avvicinando alle porte della Palestra. Che facciamo?»
Le
sue dita si
soffermarono sulla sfera lucida, ma egli non ne distolse lo sguardo.
Con un lento, riflessivo movimento, dopo svariati secondi, premette
il pulsante dell'interfono.
«Lasciatelo
entrare.»
Gettò
un rapido
sguardo al vecchio Persian, che dormiva sul tappeto ai suoi piedi, e
gli accarezzò il capo con un gesto consumato e fiacco, quasi
meccanico, ma ancora affettuoso, come in quelle vecchie coppie che
hanno trascorso assieme tutta la vita, e per cui ogni carezza non
è
che un riassunto di anni e anni di parole e di promesse e di
esperienze, che non vale la pena ripetere, ma che ogni tanto fa
piacere ricordarsi a vicenda.
Quel
ragazzino che gli
aveva strappato la Spettrosonda dalle mani aveva affrontato le sue
reclute all'ultimo piano della Torre Pokémon e aveva
liberato il
signor Fuji. Questo non gli dispiaceva: non aveva mai voluto
ucciderlo. Un bello spavento era tutto quanto egli meritasse, per la
sua vigliaccheria, nell'economia della sua vendetta.
Il
ragazzino gli aveva
strappato anche il controllo della Silph Spa. Questo gli dispiaceva
di più: quale magnifica occasione di guadagno, peraltro
legale,
sarebbe stata quell'azienda che aveva acquistato assai rapidamente un
incredibile monopolio economico sulla regione di Kanto e sulla
limitrofa Johto! Quella era l'unica vendetta che non era riuscito a
condurre fino in fondo, considerò oziosamente,
abbandonandosi contro
lo schienale della poltrona di pelle e congiungendo pensierosamente
la punta delle dita sotto il mento. Ma pazienza: non poteva davvero
ottenere tutto, sarebbe stato pretendere troppo per chiunque. Si
sarebbe accontentato del ricordo del piacere violento che aveva
provato nel prendere possesso con la forza della titanica,
pretenziosa sede di Zafferanopoli. Decisamente sarebbe stato un
piacevole ricordo da portare con sé quello del terrore che
aveva
visto radicarsi negli occhi di Jonathan Silph quando aveva fatto
irruzione, circondato da soldati armati, all'ultimo piano
dell'edificio dove il suo presidente si era rifugiato e, cedendo a un
certo gusto per la teatralità, gli aveva detto sorridendo:
«Grazie
per la Spettrosonda, Jonathan.»
Com'era
cambiato
Jonathan in quegli anni! Aveva stentato a riconoscere, in quell'uomo
di mezza età con gli occhiali di corno e gli ordinati
capelli già
brizzolati, il composto completo blu in tre pezzi, quel ragazzo
sciatto e spettinato con cui aveva trascorso tante sere fumando in
giardino... Eppure l'aveva ritrovato egualmente, da qualche parte in
fondo ai suoi occhi, e l'angoscia tremante della sua voce quando gli
aveva chiesto piangendo di non fare follie, di limitarsi a prendere
l'azienda (che sciocco! Davvero aveva pensato che si sarebbe
macchiato le mani col suo miserabile sangue di traditore?), l'aveva
ripagato di ciò che gli aveva fatto quel giorno a
Lavandonia. Certo,
sarebbe rimasto volentieri assai più a lungo a torturarlo
sadicamente nel suo ufficio, velatamente minacciandolo di morte e
strappandogli con perverso piacere suppliche e concessioni, preghiere
e proposte di riscatto... Ma tutte le cose belle devono finire,
dopotutto, e a quella aveva posto termine il ragazzino taciturno
dagli occhi scuri, che con pochissime vittorie su di lui aveva
mandato in fumo la sua vendetta su Jonathan Silph e, con la prossima
che era certo non essere lontana, il suo impero criminale.
Sì,
ora che la maggior
parte del suoi piani era stata sventata, Sakaki sapeva che era solo
questione di tempo prima che le prove a suo carico lo inchiodassero
definitivamente alle attività criminose di Team Rocket.
Anche questo
era accaduto a causa di quel piccolo allenatore, certo, eppure verso
di lui Sakaki non provava sentimenti di rancore o di rivalsa: nel
profondo del suo cuore, egli sentiva già da tempo che, ora
che la
Spettrosonda era stata creata e l'obiettivo della sua vita
realizzato, Team Rocket aveva esaurito tutta la sua funzione e la sua
ragion d'essere e che non c'era più alcun vero motivo di
proseguirne
l'attività. Non aveva fondato Team Rocket che in nome della
sua
vendetta e anche se, doveva riconoscerlo, vi erano state occasioni in
cui la brama di guadagno aveva preso il sopravvento su altri istinti
ed egli se ne era lasciato trascinare, l'arricchimento e la
criminalità non erano mai stati nella sua mente fini a se
stessi.
Guardò
l'orologio:
secondo i suoi calcoli, quel piccolo ragazzo taciturno non avrebbe
dovuto impiegare più di un'ora a percorrere la Palestra e
sconfiggere gli altri allenatori. Allora avrebbe finalmente scoperto
che era lui, Sakaki, a essere contemporaneamente il Capopalestra di
Smeraldopoli e il supremo boss del Team Rocket, tutti i pezzi del
puzzle sarebbero stati al loro posto... non aveva tempo da perdere,
decise prima di allungare la mano a premere il pulsante
dell'interfono.
«Sì,
signore?»
«Chiama
il Primo
Ministro. Ho un affare urgente da discutere con lui.»
«Subito,
signore.»
Molto
presto,
presumibilmente subito dopo la sfida che lo attendeva di lì
a pochi
minuti, sarebbe stato costretto a lasciare Kanto, se non voleva
restare ad assistere al crollo del Team Rocket e sprofondare assieme
a esso. Non che un'eventualità del genere lo cogliesse
impreparato,
ovviamente: aveva deciso già da tempo che se ne sarebbe
andato
presto, ma di certo non da solo.
Accarezzò
un'ultima
volta l'Ultraball sul tavolo e se la fece scivolare in tasca: a
nessun costo l'avrebbe abbandonata, non dopo tutto ciò che
aveva
fatto per ottenerla. Le sue dita vi indugiarono a lungo prima di
lasciarla, quasi a volerle ricordare l'eternità che ora li
aspettava
e che avrebbero affrontata insieme, in quanto mai più lo
Spettro
sarebbe stato libero e lontano da lui: i loro destini erano sempre
stati indissolubilmente legati, dopotutto.
La
sua segretaria gli
passò la videochiamata del Primo Ministro direttamente sullo
schermo
principale: Sakaki vi si rivolse sorridendo. Era l'ultimo tratto
ascendente della sua gloriosa parabola, l'ultimo atto del dramma
della sua vita. «Buonasera, Ministro. Come sta?»
Ascoltò
educatamente,
per svariati minuti, le sue lamentele sui vari membri del Governo e
sulle prossime elezioni, annuendo di tanto in tanto, aspettando con
consumata strategia politica il momento migliore per venire al punto,
sempre conservando un'espressione assorta e partecipe, pensierosa.
Finalmente, quando il Primo Ministro parve disposto ad ascoltarlo a
sua volta, congiunse nuovamente le punte delle dita sotto al mento,
come se avesse appena concluso una profonda riflessione, e cercando
di reprimere nella propria voce una vibrazione di compiacimento,
domandò: «Ha più ripensato a quella mia
proposta di costruire una
Torre Radio a Lavandonia, Ministro?»
Fine.
Questo
ultimo capitolo ha avuto una genesi un po' particolare. L'avevo
già
completato insieme a tutto il resto della storia durante la stesura
principale, ma era essenzialmente brevissimo, più un vero e
proprio
epilogo, e già così mi soddisfaceva molto; ma
durante una lezione,
mentre stavo pensando a come migliorarlo, si è quasi
riscritto da
solo: non era previsto che Sakaki tornasse nella Torre
Pokémon, né
che catturasse Gengar (perché è appunto lui lo
Spettro che cattura,
se non fosse chiaro, e che si trattasse di un Gengar era chiaro nella
mia mente già dalla stesura de La
Spettrosonda). Insomma, Sakaki in questo capitolo
ha fatto
praticamente tutto da solo.
Che
dire? Sono davvero grata a tutti anche solo per aver aperto le mie
storie e non posso che augurarmi, dal profondo del mio cuore, che
possano esservi piaciute anche solo un decimo di quanto a me
è
piaciuto scriverle.
Devo
ringraziare con tutto il mio affetto crystal_93, Mad_Dragon e Sky98
per aver recensito; in particolar modo, rinnovo il mio ringraziamento
a quest'ultimo per avermi suggerito la trama.
Un
abbraccio e un bacio a tutti!
Afaneia
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