Sianel
Sianel
Il pozzo era un posto dove tutti i ragazzini del rione si
riunivano ormai da generazioni. Quando venivi ammesso al pozzo, voleva dire che
ormai eri grande. Era un rito di passaggio dal quale
nessuno si poteva esimere, una prova di coraggio. Per un ragazzino poche cose
sono inquietanti come ciò che il denso buio in fondo a un pozzo nasconde, e l’atmosfera
sinistra era alimentata dai racconti strani che i ragazzi si scambiavano seduti
lì attorno. Chiunque volesse prendere la parola doveva prima attingere l’acqua
guardando nelle buie profondità del pozzo, recitando dei versi di cui nessuno
ricordava l’origine:
Cigola la carrucola del pozzo,
L'acqua sale alla luce e vi si fonde.
Trema un ricordo nel ricolmo secchio,
Nel puro cerchio un'immagine ride.1
«Questa sera parlerai anche tu, Emma?» Le bisbigliò Anton
provocatorio. Annuì decisa. Quella sera si sentiva temeraria, fino a quel
momento, soprattutto per la timidezza, non se l’era sentita di alzarsi e
raccontare una storia. In quel momento stava parlando un ragazzino della loro
età, Ettore.
«Vi
giuro che è una storia vera. Mio padre l’ha sentita
da un tipo della gilda dei bottegai, che suo figlio fa il soldato,
quindi lui
ne sa, no?» Emma storse il naso per il discorso sgrammaticato. In
fondo Anton
non era così male, rispetto ad altri. Era un assassino di
cungiountivi, ma a parte quello se la cavava. «Ha detto che hanno
ritrovato questi
corpi delle pattuglie esterne, dopo tipo un mese che erano spariti, no?
E visto
che volevano capire chi li aveva presi, li hanno portati dentro, nella
zona interdetta, dove possono andare solo i soldati, e li hanno
aperto la pancia per guardare le budella, così.»
Mimò il gesto che avrebbe
fatto per sventrare un pesce, allegramente. «Solo che dentro non
c’era proprio NIENTE!» mise più enfasi che poteva sulla parola niente e sgranò gli occhi, per
cercare di coinvolgere il suo pubblico. «Erano completamente vuoti. Perché i
mostri che ci sono fuori ti succhiano fuori tutte le interiora dalla bocca e se
le mangiano. Poi ci mettono dentro le uova al loro posto, che così stanno al
caldo, e quando noi portiamo dentro i corpi BAM!» Picchiò un pungo contro un palmo
aperto facendo sobbalzare tutti i presenti. «Si schiudono e succhiano gli
organi dei dottori. Hanno trovato le uova che erano ancora chiuse e le hanno
date a un tipo perché le buttasse via, solo che dopo un’ora hanno trovato il
tipo vuoto come una zucca vuota e le uova scomparse. Sicuramente quei
cosi si aggirano ancora qua attorno.» Concluse soddisfatto.
Anton sbuffò divertito. «Sono balle, ti sei inventato
tutto! Figurati se portano uova di mostro dentro alle mura! Ve la racconto io
una storia!» Attinse l’acqua dal pozzo con deliberata lentezza, guardando il
buio sul fondo per tutto il tempo e recitando le parole di rito, poi salì in
piedi sul bordo, perché tutti lo vedessero meglio. Probabilmente da qualche
parte Agnes stava avendo gli incubi. «Qualche mese fa non riuscivo a dormire, e
sono venuto al pozzo per vedere se c’era qualcuno, solo che faceva ancora
molto freddo, quindi non c’era nessuno, erano tutti a dormire. Avevo sete e ho deciso
di bere dal pozzo, ma visto che non c’era nessuno a guardare ho pensato che non ci fosse
bisogno di dire le parole, ma mi sbagliavo.» Fece una pausa e bevve un
po’ d’acqua dal secchio, poi lanciò un’altra occhiata in fondo al pozzo, giusto
per fare il gradasso. «Ho sentito un rumore strano venire dal fondo, mentre
tiravo su il secchio. Allora ho smesso di tirare la fune e ho teso l’orecchio
per ascoltare. Forse qualcuno era caduto sul fondo? C’era qualcuno che parlava,
con una voce strana.» Si schiarì la voce e iniziò a parlare con un sussurro
ultraterreno e inquietante, guardando in basso in modo che il suo volto rimasse
in ombra. «Perché… perché… Perché non
hai cantato per me?» Urlò l’ultima parte saltando giù dal parapetto del
pozzo, facendo urlare alcuni dei ragazzini più giovani e facendo accelerare il
cuore di Emma, che senza volerlo indietreggiò vistosamente. «Poi è uscita una
mano bianca, argentata, dell’esatto colore del riflesso della luce lunare sulla
superfice dell’acqua. Mi ha afferrato per un braccio e ha cercato di
trascinarmi sotto, ma io mi sono afferrato al bordo del pozzo. Ho iniziato a
dire le parole, e man mano che finivo la poesia la mano bianca diventava sempre
più inconsistente e trasparente. Alla fine sembrava un semplice raggio di luce,
ed è scivolata di nuovo in fondo al pozzo.»
Forse
la storia non era più spaventosa delle altre, ma
Anton era un ottimo oratore. Tutti i ragazzi erano visibilmente scossi
e si
erano allontanati dal pozzo con diffidenza, qualcuno rideva della
propria paura
infantile, qualcuno semplicemente stava zitto e sperava che nessuno si
rendesse
conto di quanto fossero spaventati. «Beh, tocca a Emma adesso,
no?» Osservò
gioviale Anton, ammiccando nella sua direzione. Emma si ripromise che
più tardi
avrebbe ucciso il suo amico per quel tiro mancino, e andò
rassegnata ad
attingere l’acqua. La luna disegnava riflessi argentei sul fondo
del pozzo, ma Emma si sforzò di non pensare a una mano bianca
fatta di luce lunare che la afferrava e la trascinava sul fondo.
Sono contenta che non sia Yuri.
Il
pensiero la
fece sentire subito in colpa, ma era questo tutto quello che era
riuscita a
provare in quel momento. Come avrebbe potuto essere triste per sua
madre? Forse
scioccata, quello sì. Era quella la sensazione che la faceva
muovere a scatti
come il pendolo di un orologio e che le impediva di pensare
lucidamente. I pensieri le attraversavano la mente disordinati,
lasciando una scia luminosa al loro passaggio e creando un disegno
confuso.
Sarebbe
tornata fra i canali, realizzò con un brivido. Non andava là da quasi tre anni,
con che coraggio avrebbe guardato in faccia i suoi vecchi vicini? E Agnes, che
si era presa tanto cura di lei? Aveva capito il motivo per cui non era più
tornata, o pensava che si fosse montata la testa?
Osservò la
facciata in pietra dell’accademia, strizzando gli occhi per proteggerli dal
sole. In qualche modo aveva raccolto poche cose in una borsa ed era uscita,
quasi senza rendersene conto, come se qualcun altro avesse mosso il suo corpo
come quello di una marionetta mentre lei era persa fra mille pensieri.
Era sulla
strada di casa.
Passò sotto
l’arco che divideva la zona della biblioteca dalla gilda dei tipografi,
inspirando l’odore umido di quel passaggio sempre in ombra. Fra le pietre
grigie cresceva un muschio folto e soffice, sembrava quasi di camminare su un
tappeto. Quella era la zona più ricca della gilda, con alte case signorili, i
cui abitanti avevano quasi tutti frequentato l’accademia. Avvicinandosi alla
periferia del quartiere, invece, l’atmosfera cambiava. Lungo le strette vie
acciottolate si allineavano botteghe straripanti di libri vecchi e consunti, e
più in là ancora le tipografie, con il loro forte odore di inchiostro e piombo.
Avvicinandosi
al quartiere dei medici e dei farmacisti gradualmente l’odore si mischiava a
quello delle erbe medicinali. Era un odore forte e stagnante, che certi giorni
si poteva sentire anche da Sianel. Le era sempre piaciuto quel profumo, da
bambina amava bazzicare lungo il muro di confine fra il rione e la gilda,
cercando di riempirsi il naso con un odore diverso da quello del pesce e
dell’umidità salmastra.
Ricordò la
prima volta che aveva percorso quella strada: aveva le gambe pesanti per l'angoscia
e la tristezza, ma quando era passata accanto alle serre ed era riuscita a
sbirciare dentro ai vetri si era sentita pervadere dall’ottimismo. Perché
sarebbe stata dura studiare all’accademia, ma anche solo per la possibilità di
sbirciare attraverso il vetro della serra sulla strada per andarci, anche solo
per avere avuto la possibilità di conoscere un pezzetto di mondo che altrimenti le sarebbe stato precluso, ne
sarebbe valsa la pena.
Questa volta
non le degnò di un’occhiata, e l’odore le fece storcere il naso.
Attraversò
un
altro muro, un’altra gilda. Nella gilda dei bottegai si trovava
l'unico accesso al rione di Sianel, per cui fu costretta ad attraverse
le strette vie di
botteghe, piene di casse impilate una sull’altra che smerciavano
i generi più disparati, dai vestiti ai generi alimentari agli
strumenti agricoli. Arrivò al ponte della
Pescheria, dove i pescatori consegnavano il pesce ai bottegai, senza
quasi accorgersene.
Aveva
camminato cinque ore.
Si
immobilizzò, il cuore che batteva in modo aritmico.
Forse sto per avere un infarto. Muoio qui e risolvo
tutti i miei problemi.
Ma il suo cuore non le fece la cortesia di fermarsi, si limitò a farle sentire
una grande ansia e un insopportabile dolore al petto.
Fece vedere
alle guardie i documenti e le due rune tatuate sul braccio. Le guardie la
guardarono con sospetto. In fondo non la vedevano da anni, forse avevano anche
dimenticato che una ragazzina insignificante di quel rione era entrata all’accademia.
Avrebbero pensato che i suoi documenti erano falsi e l’avrebbero rimandata
indietro.
Invece decisero
che tutto era regolare e le permisero di attraversare il ponte. Per un attimo
si guardò attorno, sperando di trovare qualcuno ad aspettarla ma senza osare
formulare il pensiero con più precisione. Così anche la sensazione di delusione
era più nebulosa e indefinita, quindi meno fastidiosa.
Il sole aveva
iniziato a calare e si rifletteva sull’acqua dei canali. Le strette barche dei
pescatori erano ormeggiate e vuote. Fra un attimo il sole si sarebbe inabissato
dietro il muro, che torreggiava su di lei, alto almeno il doppio di qualsiasi
casa della città.
Ti odio.
Non sapeva se
si stesse riferendo al muro, a sua madre o a qualcos’altro, ma di sicuro era
quello che provava adesso. Una vaga sensazione di odio e di rabbia, confusa ma
intensa, che le aveva reso le mani fredde come ghiaccio nonostante il clima primaverile.
Il colore
caldo e arancione della luce del sole morente non si accordava per nulla con il
suo stato d’animo. L’unico scenario che si sarebbe intonato comprendeva freddo
e cenere che cadeva dal cielo come neve coprendo tutto di grigio.
Dopo
qualche minuto il
cielo era ancora chiaro ma tutto era in ombra, con una luce
crepuscolare che la
faceva sentire stranamente staccata dalla realtà. Salì le
ripide scale di legno mezzo marcio, che sembravano reggersi per
volontà
divina, ascoltando il suono attutito dei suoi passi e ricordando le
mille e
mille volte che aveva salito quelle scale così, in punta di
piedi, con il
sapore leggermente salmastro dei canali in cui aveva nuotato che
alleggiava
ancora sulle labbra.
Non era
cambiato nulla negli anni in cui era stata via. La casa aveva ancora quel
cattivo odore di muffa e di buio. Le persiane erano tutte chiuse, il tavolo
ingombro di carte e nell’acquaio c’erano dei piatti sporchi e sbeccati. Nella
stanza accanto ci sarebbe stata sua madre. Il cadavere. Non riusciva a pensare
a sua madre e al suo cadavere come se fossero la stessa cosa.
E poi? Era
arrivata fin lì, ora cosa ci si aspettava che facesse? Non aveva idea di come
funzionassero queste cose, non aveva mai visto organizzare delle esequie. Non
potevano portarla nella zona interdetta fra le due mura e non dirle nulla
finché non fosse finita, ridotta in cenere?
No. E lei
quella notte avrebbe dormito in stanza con un corpo morto.
Che sarà comunque più caldo di quanto lei non sia mai
stata da viva.
«Basta.»
Bisbigliò a sé stessa. Doveva smetterla con quei
pensieri, possibile che in
fondo al cuore non riuscisse a trovare neanche un po’ di
tristezza per la donna
che l’aveva messa al mondo? Era una persona così orribile
da non provare dolore per chi l’aveva cresciuta? In un modo
o
nell’altro l’aveva fatta arrivare viva fino al giorno in
cui non era stata in
grado di badare a sé stessa. Non tutte le madri ci riuscivano.
No, lei non ha fatto proprio nulla. È sempre stata Agnes
a badare a me. «Emma?»
Emma urlò e arretrò cercando la maniglia della porta a tentoni, nella folle
convinzione che sua madre l’avesse chiamata dall’oltretomba.
Si rese conto
che era assurdo un istante troppo tardi, quando una figura quasi familiare uscì
dall’ombra dell’altra stanza. «Tutto bene?» Le chiese il ragazzo con voce
perplessa, vedendola piegata in due con la mano sul cuore.
A parte il fatto che sto per sporcarmi le mani del tuo
sangue?
«Tutto bene. È
che … mi aspettavo di essere sola.» Ansimava ancora un po’, ma si sforzò di
ricomporsi e di assumere un’aria dignitosa.
Anton era
cresciuto. L’ultima volta che l’aveva visto erano alti uguali, lui era un
ragazzino basso e mingherlino. Adesso era alto almeno dieci centimetri più di
lei, e le spalle erano molto più larghe. Non lo vedeva bene in faccia nella
penombra, ma era sicura che fosse lui.
L’avrebbe
riconosciuto ovunque, anche se fossero passati dieci o cento anni.
«Mi dispiace
per tua madre.» Anche la voce era profonda. Un po' roca, quasi da uomo. In effetti questo rendeva
ancora più assurdo il fatto che per un attimo avesse pensato che fosse stata la
madre a chiamarla dall’oltretomba. Emma rimase in silenzio, con gli occhi bassi.
Per un attimo si vide mentre correva ad abbracciarlo e scoppiava in lacrime.
Ma non poteva:
non erano più amichetti di infanzia. «Non è vero. Non ti dispiace. Non dispiace
a nessuno.» Disse caustica, per scacciare ogni antico istinto. Anton non seppe
cosa dire, palesemente imbarazzato. Almeno non aveva avuto la faccia tosta di negare
l’evidenza, questo glielo dovette riconoscere. «Come è successo? La lettera non
diceva nulla.»
Anton sembrò
ancora più a disagio e distolse lo sguardo. «Che vuoi che ne sappia io? Mia
madre mi ha solo chiesto di aspettarti qua.»
Emma si teneva
alla porta come se, nel momento in cui l’avesse lasciata, una corrente troppo
forte l’avrebbe trascinata via. Anton era a disagio. Qualcosa nella sua voce le
suggeriva che c’era qualcosa che non le stava dicendo. Immaginava bene cosa
fosse. Sua madre aveva minacciato di farlo tante volte. «Pensava che qualcuno
dovesse vegliarla finché non arrivavi.»
«Finché non
fossi arrivata.» Lo corresse senza pensarci. Anton fece un sorriso triste e
nostalgico, durò appena un istante, poi tornò più serio di prima.
«Se non hai
bisogno di nulla, io devo andare.»
Emma si spostò
di lato, rigidamente, ed Anton uscì con un cenno di saluto. Gli chiuse la porta
dietro e appoggiò la guancia sul legno scheggiato, ascoltando i suoi passi
sulle scale per essere sicura che se ne fosse davvero andato portandosi dietro
gli ultimi frammenti di infanzia che aveva rievocato.
«Sì,
è meglio
così.» Commentò con sé stessa. Se avesse
ceduto, se avesse chiesto ad Anton di
restare con lei a parlare tutta la notte, come quando erano bambini, se
ne
sarebbe accorto che non provava i sentimenti giusti in quel momento.
Avrebbe pensato che lei fosse insensibile, crudele o matta o
chissà che altro. Anzi,
probabilmente lo pensava già, visto che erano quasi quattro anni
che non si
vedevano e l’accoglienza era stata così fredda. Anzi,
forse se non fosse stato per Agnes, probabilmente non ci sarebbe stata
nemmeno quella.
Voleva
chiudere quella storia e tornare a scuola. Lì avrebbe…
fatto cosa? Aveva sempre
avuto massima fiducia nella città, in quello che gli adulti le
raccontavano,
aveva accettato le cose com’erano perché erano così
da sempre e per sempre lo
sarebbero state, senza possibili alternative. Ora che tutte le sue
convinzioni
erano crollate poteva ancora vivere così? Da quando aveva letto
l’atlante aveva
la sensazione che restare nella città e vivere secondo le regole
fosse una cosa
priva di senso. No, non era più possibile per lei avere una vita
normale. Ma
che avrebbe potuto fare? Non c’erano mondi alternativi dove
andare. Il mondo colorato e vario descritto dall'atlante non esisteva
più. C’erano
solo quei pochi chilometri quadrati dentro le mura, stipati di soprusi
e
ingiustizie.
La sensazione
di essere in trappola le strinse il petto in una morsa, impedendole di
respirare. Si sedette a terra, con la testa contro la porta e gli occhi chiusi,
cercando di recuperare la calma mentre il panico la assaliva senza motivo. Non c’è altra via d’uscita che la morte?
Passarono
diversi minuti prima che si calmasse e tornasse a respirare normalmente. Aveva la
fronte imperlata di sudore freddo e si sentiva stranamente debole. Se erano
quelle le conseguenze per aver letto l’atlante, non c’era da stupirsi per il
fatto che Astropher le aveva consigliato di pensarci bene prima di farlo.
Indugiò un po’
nella cucina. Faceva tre passi avanti verso la porta dell’altra stanza, e poi
tornava indietro. Non ce la faceva proprio ad andare a vedere.
Si accovacciò
in un angolo, in una posizione deliberatamente scomoda: non voleva
addormentarsi, non finché quella cosa era nell'altra stanza. Restò sveglia a pensare,
mentre il cielo diventava prima sempre più buio e poi sempre più chiaro.
Avrebbe voluto
che qualcuno facesse tutto al suo posto. Forse poteva chiedere ad Agnes. Lei l’aveva
sempre aiutata, forse avrebbe potuto bussare alla sua porta, chiederle di
occuparsi lei di tutto e andarsene. In fondo che le importava?
No, sei un’adulta, comportati come tale.
Uscire
nella
grigia luce dell’alba fu una delle cose più difficili che
avesse mai fatto. Sentiva il gelo entrare nelle ossa, nonostante il
tempo fosse
ormai tiepido, e stringendosi nella leggera uniforme scolastica
andò a contattare i servizi funebri all’ufficio rionale.
Le avevano
fatto un mucchio di domande a cui non aveva saputo cosa rispondere. Aveva
finito per dire sì o no un po’ a casaccio, poi era tornata casa con due garzoni
al seguito. Qualcuno aveva lasciato qualcosa da mangiare sul tavolino
traballante accanto al focolare della cucina, probabilmente la madre di Anton.
Non se la sentì nemmeno di controllare cosa fosse, sicura che alla vista del
cibo avrebbe vomitato.
Avevano
portato via il corpo mentre lei guardava da un’altra parte e le avevano detto
qualcosa su una funzione funebre. Emma aveva annuito senza ascoltare ed era
andata a vedere la stanza vuota. Era ancora tutto identico a tre anni prima.
Anche il suo lettino era ancora lì, in un angolo della stanza. C’erano ancora i
segni che aveva fatto sul pavimento, che usava come una meridiana per vedere
quando era ora di alzarsi.
Si sedette sul
letto e si avvolse nella coperta tarlata e impolverata. Adesso che la casa era
vuota potava permettersi di cedere al sonno.
Si alzò piano, attenta a non svegliare nessuno, e uscì
dalla stanza senza fare rumore, fermandosi solo per prendere un lungo involto
di stoffa, alcuni oggetti e una lunga giacca di lana grigia. L’aria della notte
era fredda a quelle altezze. Il cielo era puntellato di stelle, le parve di non
averne mai viste così bianche e luminose. Si intravedeva anche la via lattea
che lo attraversava come una cicatrice. Il prato scendeva verso il bosco in un
dolce pendio. Non c’era nemmeno una luce, se non quelle di qualche lucciola, ma
era abbastanza per vedere il bersaglio.
Ogni gesto era parte di un preciso rituale. Dall’involto
di stoffa estrasse un lungo arco e lo armò, puntandone un’estremità sotto il
ramo di un fico contorto che sembrava fatto apposta allo scopo e spingendo
l’altra contro il ginocchio, per piegarlo e tendere la corda. Si infilò un
guanto di pelle, assicurandolo al polso destro con un lungo nastro, ed estrasse
due frecce da una faretra, mettendosi di lato al bersaglio. Tenendone una con
mignolo e anulare incocco l’altra. Espirò osservando il bersaglio, e poi tirò
su le braccia davanti a se, ispirando a lungo. Sentì i muscoli della schiena
che si gonfiavano nello sforzo di tendere l’arco, l’avambraccio destro che
torceva la corda, l’arco che gemeva, l’odore di cenere e canapa. Con uno
strattone scoccò la freccia. Il rumore le disse che aveva fatto centro. Aveva
sperato che il senso di oppressione al petto sarebbe volato via, legato alla
coda della freccia, ma non fu così.
Emma
si
svegliò rabbrividendo. Era uno dei sogni più vividi che
avesse mai fatto, le facevano addirittura male le braccia e la schiena.
Era stato strano provare sensazioni così precise e dettagliate,
quando non aveva mai tenuto un arco in mano. Quante ore aveva dormito?
Era ancora mattino inoltrato quando si era
rannicchiata sul suo vecchio materasso, ma adesso era completamente
buio. Si alzò
e andò alla finestra. Ricordò con una fitta di dolore che
l’aveva fatto quasi
tutte le sere l’estate prima di iniziare la scuola, svegliata
dalla paura per
la nuova vita che avrebbe iniziato di lì a poco, e aveva spiato
Anton che
tornava a casa da chissà dove nel cuore della notte.
C’era qualcuno
in piedi, appena fuori dal cono di luce di una torcia. Cercò di aguzzare la
vista per vedere chi fosse: aveva un lungo saio grigio. Nel momento in cui
sgranò gli occhi, rendendosi conto con terrore di cosa stava guardando, una
mano ruvida le tappò la bocca.
1) Visto che non sono in grado di
inventare poesie, ho preso in prestito un estratto di "Cigola la
carrucola del pozzo", di Eugenio Montale. Pensavate che fossi una
grande poetessa eh? Invece no. Le uniche poesie che so scrivere sono
haiku su quanto adoro il cibo =D Beccatevi Montale che forse se la cava
meglio.
Giuro,
giuro e rigiuro che la parte introspettiva è finita.
Perché, io che ho la profondità emotiva di un mobile
Ikea, mi sono inguaiata nella descrizione di sentimenti così
complicati? Perché, io che non sono in grado di stare seria
nemmeno durante una lezione di calcolo applicato, mi sono cimentata in
due capitoli così depressi? Per fortuna è finita. Un bel
cliffhanger alla fine per tirarci su di tono ci voleva =D
Probabilmente non vi avranno
inquietato molto le storie sinistre di inizio capitolo. Emma & co.
sono più spaventati dall'atmosfera che dalle storie in
sè. Avete mai provato a guardare in fondo a un pozzo di notte?
Io sì. Mi ha molto inquietato. Cercherò di sbrigarmi con l'aggiornamento! 羽毛
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