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Autore: Yumao    25/10/2014    4 recensioni
La città in cui vive Emma è racchiusa da mura altissime, assediata da nemici di cui nessuno conosce il nome o l'aspetto, circondata da nient'altro che deserto. Non ha bisogno di un nome, perché non esistono altre città: lontano dalle mura nessuno potrebbe sopravvivere senza perdere ciò che lo rende umano.
La curiosità è peccato, parlarne è pericoloso, anche solo desiderare di vedere il mondo esterno corrompe l'anima. Ma Emma vuole sapere.
Genere: Angst, Avventura, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Sianel
Sianel

Il pozzo era un posto dove tutti i ragazzini del rione si riunivano ormai da generazioni. Quando venivi ammesso al pozzo, voleva dire che ormai eri grande. Era un rito di passaggio dal quale nessuno si poteva esimere, una prova di coraggio. Per un ragazzino poche cose sono inquietanti come ciò che il denso buio in fondo a un pozzo nasconde, e l’atmosfera sinistra era alimentata dai racconti strani che i ragazzi si scambiavano seduti lì attorno. Chiunque volesse prendere la parola doveva prima attingere l’acqua guardando nelle buie profondità del pozzo, recitando dei versi di cui nessuno ricordava l’origine:

Cigola la carrucola del pozzo,

L'acqua sale alla luce e vi si fonde.

Trema un ricordo nel ricolmo secchio,

Nel puro cerchio un'immagine ride.1

«Questa sera parlerai anche tu, Emma?» Le bisbigliò Anton provocatorio. Annuì decisa. Quella sera si sentiva temeraria, fino a quel momento, soprattutto per la timidezza, non se l’era sentita di alzarsi e raccontare una storia. In quel momento stava parlando un ragazzino della loro età, Ettore.

«Vi giuro che è una storia vera. Mio padre l’ha sentita da un tipo della gilda dei bottegai, che suo figlio fa il soldato, quindi lui ne sa, no?» Emma storse il naso per il discorso sgrammaticato. In fondo Anton non era così male, rispetto ad altri. Era un assassino di cungiountivi, ma a parte quello se la cavava. «Ha detto che hanno ritrovato questi corpi delle pattuglie esterne, dopo tipo un mese che erano spariti, no? E visto che volevano capire chi li aveva presi, li hanno portati dentro, nella zona interdetta, dove possono andare solo i soldati, e li hanno aperto la pancia per guardare le budella, così.» Mimò il gesto che avrebbe fatto per sventrare un pesce, allegramente. «Solo che dentro non c’era proprio NIENTE!» mise più enfasi che poteva sulla parola niente e sgranò gli occhi, per cercare di coinvolgere il suo pubblico. «Erano completamente vuoti. Perché i mostri che ci sono fuori ti succhiano fuori tutte le interiora dalla bocca e se le mangiano. Poi ci mettono dentro le uova al loro posto, che così stanno al caldo, e quando noi portiamo dentro i corpi BAM!» Picchiò un pungo contro un palmo aperto facendo sobbalzare tutti i presenti. «Si schiudono e succhiano gli organi dei dottori. Hanno trovato le uova che erano ancora chiuse e le hanno date a un tipo perché le buttasse via, solo che dopo un’ora hanno trovato il tipo vuoto come una zucca vuota e le uova scomparse. Sicuramente quei cosi si aggirano ancora qua attorno.» Concluse soddisfatto.

Anton sbuffò divertito. «Sono balle, ti sei inventato tutto! Figurati se portano uova di mostro dentro alle mura! Ve la racconto io una storia!» Attinse l’acqua dal pozzo con deliberata lentezza, guardando il buio sul fondo per tutto il tempo e recitando le parole di rito, poi salì in piedi sul bordo, perché tutti lo vedessero meglio. Probabilmente da qualche parte Agnes stava avendo gli incubi. «Qualche mese fa non riuscivo a dormire, e sono venuto al pozzo per vedere se c’era qualcuno, solo che faceva ancora molto freddo, quindi non c’era nessuno, erano tutti a dormire. Avevo sete e ho deciso di bere dal pozzo, ma visto che non c’era nessuno a guardare ho pensato che non ci fosse bisogno di dire le parole, ma mi sbagliavo.» Fece una pausa e bevve un po’ d’acqua dal secchio, poi lanciò un’altra occhiata in fondo al pozzo, giusto per fare il gradasso. «Ho sentito un rumore strano venire dal fondo, mentre tiravo su il secchio. Allora ho smesso di tirare la fune e ho teso l’orecchio per ascoltare. Forse qualcuno era caduto sul fondo? C’era qualcuno che parlava, con una voce strana.» Si schiarì la voce e iniziò a parlare con un sussurro ultraterreno e inquietante, guardando in basso in modo che il suo volto rimasse in ombra. «Perché… perché… Perché non hai cantato per me?» Urlò l’ultima parte saltando giù dal parapetto del pozzo, facendo urlare alcuni dei ragazzini più giovani e facendo accelerare il cuore di Emma, che senza volerlo indietreggiò vistosamente. «Poi è uscita una mano bianca, argentata, dell’esatto colore del riflesso della luce lunare sulla superfice dell’acqua. Mi ha afferrato per un braccio e ha cercato di trascinarmi sotto, ma io mi sono afferrato al bordo del pozzo. Ho iniziato a dire le parole, e man mano che finivo la poesia la mano bianca diventava sempre più inconsistente e trasparente. Alla fine sembrava un semplice raggio di luce, ed è scivolata di nuovo in fondo al pozzo.»

Forse la storia non era più spaventosa delle altre, ma Anton era un ottimo oratore. Tutti i ragazzi erano visibilmente scossi e si erano allontanati dal pozzo con diffidenza, qualcuno rideva della propria paura infantile, qualcuno semplicemente stava zitto e sperava che nessuno si rendesse conto di quanto fossero spaventati. «Beh, tocca a Emma adesso, no?» Osservò gioviale Anton, ammiccando nella sua direzione. Emma si ripromise che più tardi avrebbe ucciso il suo amico per quel tiro mancino, e andò rassegnata ad attingere l’acqua. La luna disegnava riflessi argentei sul fondo del pozzo, ma Emma si sforzò di non pensare a una mano bianca fatta di luce lunare che la afferrava e la trascinava sul fondo.

 

Sono contenta che non sia Yuri.

Il pensiero la fece sentire subito in colpa, ma era questo tutto quello che era riuscita a provare in quel momento. Come avrebbe potuto essere triste per sua madre? Forse scioccata, quello sì. Era quella la sensazione che la faceva muovere a scatti come il pendolo di un orologio e che le impediva di pensare lucidamente. I pensieri le attraversavano la mente disordinati, lasciando una scia luminosa al loro passaggio e creando un disegno confuso.

Sarebbe tornata fra i canali, realizzò con un brivido. Non andava là da quasi tre anni, con che coraggio avrebbe guardato in faccia i suoi vecchi vicini? E Agnes, che si era presa tanto cura di lei? Aveva capito il motivo per cui non era più tornata, o pensava che si fosse montata la testa?

Osservò la facciata in pietra dell’accademia, strizzando gli occhi per proteggerli dal sole. In qualche modo aveva raccolto poche cose in una borsa ed era uscita, quasi senza rendersene conto, come se qualcun altro avesse mosso il suo corpo come quello di una marionetta mentre lei era persa fra mille pensieri.

Era sulla strada di casa.

 

Passò sotto l’arco che divideva la zona della biblioteca dalla gilda dei tipografi, inspirando l’odore umido di quel passaggio sempre in ombra. Fra le pietre grigie cresceva un muschio folto e soffice, sembrava quasi di camminare su un tappeto. Quella era la zona più ricca della gilda, con alte case signorili, i cui abitanti avevano quasi tutti frequentato l’accademia. Avvicinandosi alla periferia del quartiere, invece, l’atmosfera cambiava. Lungo le strette vie acciottolate si allineavano botteghe straripanti di libri vecchi e consunti, e più in là ancora le tipografie, con il loro forte odore di inchiostro e piombo.

Avvicinandosi al quartiere dei medici e dei farmacisti gradualmente l’odore si mischiava a quello delle erbe medicinali. Era un odore forte e stagnante, che certi giorni si poteva sentire anche da Sianel. Le era sempre piaciuto quel profumo, da bambina amava bazzicare lungo il muro di confine fra il rione e la gilda, cercando di riempirsi il naso con un odore diverso da quello del pesce e dell’umidità salmastra.

Ricordò la prima volta che aveva percorso quella strada: aveva le gambe pesanti per l'angoscia e la tristezza, ma quando era passata accanto alle serre ed era riuscita a sbirciare dentro ai vetri si era sentita pervadere dall’ottimismo. Perché sarebbe stata dura studiare all’accademia, ma anche solo per la possibilità di sbirciare attraverso il vetro della serra sulla strada per andarci, anche solo per avere avuto la possibilità di conoscere un pezzetto di mondo che altrimenti le sarebbe stato precluso, ne sarebbe valsa la pena.

Questa volta non le degnò di un’occhiata, e l’odore le fece storcere il naso.

Attraversò un altro muro, un’altra gilda. Nella gilda dei bottegai si trovava l'unico accesso al rione di Sianel, per cui fu costretta ad attraverse le strette vie di botteghe, piene di casse impilate una sull’altra che smerciavano i generi più disparati, dai vestiti ai generi alimentari agli strumenti agricoli. Arrivò al ponte della Pescheria, dove i pescatori consegnavano il pesce ai bottegai, senza quasi accorgersene.

Aveva camminato cinque ore.

Si immobilizzò, il cuore che batteva in modo aritmico.

Forse sto per avere un infarto. Muoio qui e risolvo tutti i miei problemi. Ma il suo cuore non le fece la cortesia di fermarsi, si limitò a farle sentire una grande ansia e un insopportabile dolore al petto. 

Fece vedere alle guardie i documenti e le due rune tatuate sul braccio. Le guardie la guardarono con sospetto. In fondo non la vedevano da anni, forse avevano anche dimenticato che una ragazzina insignificante di quel rione era entrata all’accademia. Avrebbero pensato che i suoi documenti erano falsi e l’avrebbero rimandata indietro.

Invece decisero che tutto era regolare e le permisero di attraversare il ponte. Per un attimo si guardò attorno, sperando di trovare qualcuno ad aspettarla ma senza osare formulare il pensiero con più precisione. Così anche la sensazione di delusione era più nebulosa e indefinita, quindi meno fastidiosa.

 

Il sole aveva iniziato a calare e si rifletteva sull’acqua dei canali. Le strette barche dei pescatori erano ormeggiate e vuote. Fra un attimo il sole si sarebbe inabissato dietro il muro, che torreggiava su di lei, alto almeno il doppio di qualsiasi casa della città.

Ti odio.

Non sapeva se si stesse riferendo al muro, a sua madre o a qualcos’altro, ma di sicuro era quello che provava adesso. Una vaga sensazione di odio e di rabbia, confusa ma intensa, che le aveva reso le mani fredde come ghiaccio nonostante il clima primaverile.

Il colore caldo e arancione della luce del sole morente non si accordava per nulla con il suo stato d’animo. L’unico scenario che si sarebbe intonato comprendeva freddo e cenere che cadeva dal cielo come neve coprendo tutto di grigio.

Dopo qualche minuto il cielo era ancora chiaro ma tutto era in ombra, con una luce crepuscolare che la faceva sentire stranamente staccata dalla realtà. Salì le ripide scale di legno mezzo marcio, che sembravano reggersi per volontà divina, ascoltando il suono attutito dei suoi passi e ricordando le mille e mille volte che aveva salito quelle scale così, in punta di piedi, con il sapore leggermente salmastro dei canali in cui aveva nuotato che alleggiava ancora sulle labbra.

 

Non era cambiato nulla negli anni in cui era stata via. La casa aveva ancora quel cattivo odore di muffa e di buio. Le persiane erano tutte chiuse, il tavolo ingombro di carte e nell’acquaio c’erano dei piatti sporchi e sbeccati. Nella stanza accanto ci sarebbe stata sua madre. Il cadavere. Non riusciva a pensare a sua madre e al suo cadavere come se fossero la stessa cosa.

 

E poi? Era arrivata fin lì, ora cosa ci si aspettava che facesse? Non aveva idea di come funzionassero queste cose, non aveva mai visto organizzare delle esequie. Non potevano portarla nella zona interdetta fra le due mura e non dirle nulla finché non fosse finita, ridotta in cenere?

No. E lei quella notte avrebbe dormito in stanza con un corpo morto.

Che sarà comunque più caldo di quanto lei non sia mai stata da viva.

«Basta.» Bisbigliò a sé stessa. Doveva smetterla con quei pensieri, possibile che in fondo al cuore non riuscisse a trovare neanche un po’ di tristezza per la donna che l’aveva messa al mondo? Era una persona così orribile da non provare dolore per chi l’aveva cresciuta? In un modo o nell’altro l’aveva fatta arrivare viva fino al giorno in cui non era stata in grado di badare a sé stessa. Non tutte le madri ci riuscivano.

No, lei non ha fatto proprio nulla. È sempre stata Agnes a badare a me. «Emma?» Emma urlò e arretrò cercando la maniglia della porta a tentoni, nella folle convinzione che sua madre l’avesse chiamata dall’oltretomba.

Si rese conto che era assurdo un istante troppo tardi, quando una figura quasi familiare uscì dall’ombra dell’altra stanza. «Tutto bene?» Le chiese il ragazzo con voce perplessa, vedendola piegata in due con la mano sul cuore.

A parte il fatto che sto per sporcarmi le mani del tuo sangue?

«Tutto bene. È che … mi aspettavo di essere sola.» Ansimava ancora un po’, ma si sforzò di ricomporsi e di assumere un’aria dignitosa.

Anton era cresciuto. L’ultima volta che l’aveva visto erano alti uguali, lui era un ragazzino basso e mingherlino. Adesso era alto almeno dieci centimetri più di lei, e le spalle erano molto più larghe. Non lo vedeva bene in faccia nella penombra, ma era sicura che fosse lui.

L’avrebbe riconosciuto ovunque, anche se fossero passati dieci o cento anni.

«Mi dispiace per tua madre.» Anche la voce era profonda. Un po' roca, quasi da uomo. In effetti questo rendeva ancora più assurdo il fatto che per un attimo avesse pensato che fosse stata la madre a chiamarla dall’oltretomba. Emma rimase in silenzio, con gli occhi bassi. Per un attimo si vide mentre correva ad abbracciarlo e scoppiava in lacrime.

Ma non poteva: non erano più amichetti di infanzia. «Non è vero. Non ti dispiace. Non dispiace a nessuno.» Disse caustica, per scacciare ogni antico istinto. Anton non seppe cosa dire, palesemente imbarazzato. Almeno non aveva avuto la faccia tosta di negare l’evidenza, questo glielo dovette riconoscere. «Come è successo? La lettera non diceva nulla.»

Anton sembrò ancora più a disagio e distolse lo sguardo. «Che vuoi che ne sappia io? Mia madre mi ha solo chiesto di aspettarti qua.»

Emma si teneva alla porta come se, nel momento in cui l’avesse lasciata, una corrente troppo forte l’avrebbe trascinata via. Anton era a disagio. Qualcosa nella sua voce le suggeriva che c’era qualcosa che non le stava dicendo. Immaginava bene cosa fosse. Sua madre aveva minacciato di farlo tante volte. «Pensava che qualcuno dovesse vegliarla finché non arrivavi.»

«Finché non fossi arrivata.» Lo corresse senza pensarci. Anton fece un sorriso triste e nostalgico, durò appena un istante, poi tornò più serio di prima.

«Se non hai bisogno di nulla, io devo andare.»

Emma si spostò di lato, rigidamente, ed Anton uscì con un cenno di saluto. Gli chiuse la porta dietro e appoggiò la guancia sul legno scheggiato, ascoltando i suoi passi sulle scale per essere sicura che se ne fosse davvero andato portandosi dietro gli ultimi frammenti di infanzia che aveva rievocato.

«Sì, è meglio così.» Commentò con sé stessa. Se avesse ceduto, se avesse chiesto ad Anton di restare con lei a parlare tutta la notte, come quando erano bambini, se ne sarebbe accorto che non provava i sentimenti giusti in quel momento. Avrebbe pensato che lei fosse insensibile, crudele o matta o chissà che altro. Anzi, probabilmente lo pensava già, visto che erano quasi quattro anni che non si vedevano e l’accoglienza era stata così fredda. Anzi, forse se non fosse stato per Agnes, probabilmente non ci sarebbe stata nemmeno quella.

Voleva chiudere quella storia e tornare a scuola. Lì avrebbe… fatto cosa? Aveva sempre avuto massima fiducia nella città, in quello che gli adulti le raccontavano, aveva accettato le cose com’erano perché erano così da sempre e per sempre lo sarebbero state, senza possibili alternative. Ora che tutte le sue convinzioni erano crollate poteva ancora vivere così? Da quando aveva letto l’atlante aveva la sensazione che restare nella città e vivere secondo le regole fosse una cosa priva di senso. No, non era più possibile per lei avere una vita normale. Ma che avrebbe potuto fare? Non c’erano mondi alternativi dove andare. Il mondo colorato e vario descritto dall'atlante non esisteva più. C’erano solo quei pochi chilometri quadrati dentro le mura, stipati di soprusi e ingiustizie.

La sensazione di essere in trappola le strinse il petto in una morsa, impedendole di respirare. Si sedette a terra, con la testa contro la porta e gli occhi chiusi, cercando di recuperare la calma mentre il panico la assaliva senza motivo. Non c’è altra via d’uscita che la morte?

Passarono diversi minuti prima che si calmasse e tornasse a respirare normalmente. Aveva la fronte imperlata di sudore freddo e si sentiva stranamente debole. Se erano quelle le conseguenze per aver letto l’atlante, non c’era da stupirsi per il fatto che Astropher le aveva consigliato di pensarci bene prima di farlo. 

Indugiò un po’ nella cucina. Faceva tre passi avanti verso la porta dell’altra stanza, e poi tornava indietro. Non ce la faceva proprio ad andare a vedere.

Si accovacciò in un angolo, in una posizione deliberatamente scomoda: non voleva addormentarsi, non finché quella cosa era nell'altra stanza. Restò sveglia a pensare, mentre il cielo diventava prima sempre più buio e poi sempre più chiaro.

Avrebbe voluto che qualcuno facesse tutto al suo posto. Forse poteva chiedere ad Agnes. Lei l’aveva sempre aiutata, forse avrebbe potuto bussare alla sua porta, chiederle di occuparsi lei di tutto e andarsene. In fondo che le importava?

No, sei un’adulta, comportati come tale.

Uscire nella grigia luce dell’alba fu una delle cose più difficili che avesse mai fatto. Sentiva il gelo entrare nelle ossa, nonostante il tempo fosse ormai tiepido, e stringendosi nella leggera uniforme scolastica andò a contattare i servizi funebri all’ufficio rionale.

Le avevano fatto un mucchio di domande a cui non aveva saputo cosa rispondere. Aveva finito per dire sì o no un po’ a casaccio, poi era tornata casa con due garzoni al seguito. Qualcuno aveva lasciato qualcosa da mangiare sul tavolino traballante accanto al focolare della cucina, probabilmente la madre di Anton. Non se la sentì nemmeno di controllare cosa fosse, sicura che alla vista del cibo avrebbe vomitato.

Avevano portato via il corpo mentre lei guardava da un’altra parte e le avevano detto qualcosa su una funzione funebre. Emma aveva annuito senza ascoltare ed era andata a vedere la stanza vuota. Era ancora tutto identico a tre anni prima. Anche il suo lettino era ancora lì, in un angolo della stanza. C’erano ancora i segni che aveva fatto sul pavimento, che usava come una meridiana per vedere quando era ora di alzarsi.

Si sedette sul letto e si avvolse nella coperta tarlata e impolverata. Adesso che la casa era vuota potava permettersi di cedere al sonno.

 

Si alzò piano, attenta a non svegliare nessuno, e uscì dalla stanza senza fare rumore, fermandosi solo per prendere un lungo involto di stoffa, alcuni oggetti e una lunga giacca di lana grigia. L’aria della notte era fredda a quelle altezze. Il cielo era puntellato di stelle, le parve di non averne mai viste così bianche e luminose. Si intravedeva anche la via lattea che lo attraversava come una cicatrice. Il prato scendeva verso il bosco in un dolce pendio. Non c’era nemmeno una luce, se non quelle di qualche lucciola, ma era abbastanza per vedere il bersaglio.

Ogni gesto era parte di un preciso rituale. Dall’involto di stoffa estrasse un lungo arco e lo armò, puntandone un’estremità sotto il ramo di un fico contorto che sembrava fatto apposta allo scopo e spingendo l’altra contro il ginocchio, per piegarlo e tendere la corda. Si infilò un guanto di pelle, assicurandolo al polso destro con un lungo nastro, ed estrasse due frecce da una faretra, mettendosi di lato al bersaglio. Tenendone una con mignolo e anulare incocco l’altra. Espirò osservando il bersaglio, e poi tirò su le braccia davanti a se, ispirando a lungo. Sentì i muscoli della schiena che si gonfiavano nello sforzo di tendere l’arco, l’avambraccio destro che torceva la corda, l’arco che gemeva, l’odore di cenere e canapa. Con uno strattone scoccò la freccia. Il rumore le disse che aveva fatto centro. Aveva sperato che il senso di oppressione al petto sarebbe volato via, legato alla coda della freccia, ma non fu così.

 

Emma si svegliò rabbrividendo. Era uno dei sogni più vividi che avesse mai fatto, le facevano addirittura male le braccia e la schiena. Era stato strano provare sensazioni così precise e dettagliate, quando non aveva mai tenuto un arco in mano. Quante ore aveva dormito? Era ancora mattino inoltrato quando si era rannicchiata sul suo vecchio materasso, ma adesso era completamente buio. Si alzò e andò alla finestra. Ricordò con una fitta di dolore che l’aveva fatto quasi tutte le sere l’estate prima di iniziare la scuola, svegliata dalla paura per la nuova vita che avrebbe iniziato di lì a poco, e aveva spiato Anton che tornava a casa da chissà dove nel cuore della notte.

C’era qualcuno in piedi, appena fuori dal cono di luce di una torcia. Cercò di aguzzare la vista per vedere chi fosse: aveva un lungo saio grigio. Nel momento in cui sgranò gli occhi, rendendosi conto con terrore di cosa stava guardando, una mano ruvida le tappò la bocca.



1) Visto che non sono in grado di inventare poesie, ho preso in prestito un estratto di "Cigola la carrucola del pozzo", di Eugenio Montale. Pensavate che fossi una grande poetessa eh? Invece no. Le uniche poesie che so scrivere sono haiku su quanto adoro il cibo =D Beccatevi Montale che forse se la cava meglio.

Giuro, giuro e rigiuro che la parte introspettiva è finita. Perché, io che ho la profondità emotiva di un mobile Ikea, mi sono inguaiata nella descrizione di sentimenti così complicati? Perché, io che non sono in grado di stare seria nemmeno durante una lezione di calcolo applicato, mi sono cimentata in due capitoli così depressi? Per fortuna è finita. Un bel cliffhanger alla fine per tirarci su di tono ci voleva =D
Probabilmente non vi avranno inquietato molto le storie sinistre di inizio capitolo. Emma & co. sono più spaventati dall'atmosfera che dalle storie in sè. Avete mai provato a guardare in fondo a un pozzo di notte? Io sì. Mi ha molto inquietato. Cercherò di sbrigarmi con l'aggiornamento! 羽毛
   
 
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