7.
Calma piatta
I dolori
segreti sussurrati ai venti, giaciono tra le ultime foglie morenti.
Gli occhi profondi lasciati aperti sulla notte, le nuvole sepolcri
morbidi per le stelle che rifulgono sisnistre nell'anima.
Imprecò mentre la pioggia continuava a scendere violenta e
riduceva la visibilità, poi pensò che era lo
stesso anche per gli altri e che quindi era un po’ come
tornare a vedere normalmente.
Scivolò appena dal tetto spiovente per osservare meglio la
strada, grosse gocce d’acqua gocciolavano dalla pelliccia
ormai fradicia che orlava il suo cappuccio , ormai anche i suoi capelli
iniziavano a bagnarsi mentre il volto era già fradicio,
neanche avesse buttato la faccia nell’acqua. Una guardia
passò sotto di lui, il lume nella lanterna che stava acceso
a stento. Sorrise pensando che il bello degli umani era che non
guardavano ma verso l’alto quando dovevano controllare
qualcosa.
Balzò giù dal tetto atterrando silenziosamente
dietro all’uomo che non si accorse di nulla. Un colpo ben
assestato alla nuca e questo cadde a terra, esanime.
Sospirò "Bene, mancano le guardie di confine e i cecchini."
Si disse, iniziando a trascinare il corpo lontano dalla strada. Quello
non era un lavoro che gli piaceva fare, si sarebbe divertito molto di
più a rubare l’ identità a qualcuno e a
uscire tranquillamente, facendogliela letteralmente sotto il naso. Ma
sarebbe stato un lavoro lungo e di tempo ne avevano ben poco.
Fin da quel momento era riuscito a garantire una strada sicura e aveva
appena terminato la parte più semplice del lavoro. Ma stava
per farsi giorno e sarebbe stato bene uscire prima dell’alba.
Riaprì gli occhi che non si era accorto di chiudere,
avvertendo la spiacevole sensazione di essere osservato.
La ragazza si mosse appena e il Cacciatore in un istinto che ormai era
parte di lui allungò velocemente la mano verso la pistola
ancorata al suo fianco, fedele compagna nata da ossa di demoni, per poi
ricordarsi che in quella stanza non era da solo, e che l'altra persona
era tutt'altro che un pericolo.
Rimasero entrambi in silenzio a lungo, svegli, fino a che il disagio
nel corpo della ragazza non aumentò a tal punto da sentire
la necessità di dire qualcosa.
“Che cos’è quel corvo?”
Il Cacciatore soppesò le parole, non del tutto certo di
voler rispondere a quella domanda. “Un ricordo.”
Disse infine, passandosi la mano sulla cicatrice che sfigurava
metà del suo volto. La ragazza rimase in attesa, aspettando
una risposta che l’avrebbe aiutata a capire di
più. Ma il cacciatore non disse altro. Lei strinse tra le
mani le coperte pesanti, mandando al definitivamente al diavolo
l’istinto di autoconservazione.
“Cosa ti è successo?” Di nuovo silenzio,
e questa volta non ne seguì alcuna risposta.
La ragazza cercò di resistere ancora ma quando il silenzio
di fece troppo pesante e vide Raven cercare una posizione comoda sulla
sedia, non riuscì a trattenere la lingua. “Se vuoi
puoi venire a letto.” A quella strana proposta il cacciatore
sollevò un sopracciglio guardandola scettico. Il rossore sul
volto della ragazza mandò a fuoco la sua pelle quando si
accorse di quanto era suonata sconveniente quella frase.
“Cioè, ho dormito abbastanza.”
Tentò di rimediare, rendendo però ancora peggiore
la situazione, vista l’ambiguità della frase.
“Puoi riposarti qui mentre io sto sveglia.” Disse
infine in tutta fretta, coprendosi appena il volto in fiamme con le
coperte.
Raven era quasi sconcertato dall’ingenuità della
ragazza.
“Torna a dormire.”
“Che cos'è?”
La donna abbozzò una sottospecie di sorriso. La ragazzina
aveva finalmente parlato. Aveva sollevato leggermente il mento.
Zaara era persa.
“È un'entità superiore a noi esseri
umani.”
“Come fa ad essere dentro me se è superiore a
me?”
“Perchè il volere della Serpe le è
ulteriormente superiore.” Sussurrò.
“Comunque non è dentro di te, lei è
te” Era confusa.
“Chi è la Serpe?”
“Immagino lo scopriremo presto, piccola.”
“Ti prego non chiamarmi così.” Safin
rimase un attimo interdetta, poi sorrise.
“Come vuoi.” Almeno lei, si disse Zaara.
Passarono qualche istante di silenzio in cui Safin continuò
ad armeggiare con le cose che aveva portato nella stanza e
l’altra a non staccarle gli occhi di dosso, finché
la donna non si bloccò, alzando lo sguardo verso la ragazza.
“Come vi chiamate?” Chiese curiosa. Zaara
spalancò gli occhi rimanendo spiazzata da quella domanda.
Non capiva. Non sapeva.
La donna sembrò leggere lo sconcerto nei suoi occhi.
“Come ti chiami?” A quella domanda la ragazza si
calmò, e rispose abbassando lo sguardo.
“Zaara.” La donna sorrise, riprendendo a lavorare,
mischiare erbe a una sostanza bianca e maleodorante.
“Non vuoi dirmi come si chiama lei?” Le chiese poi,
senza alzare la testa dal suo lavoro. La ragazza rimase in silenzio.
Aveva paura, una paura irrazionale nel chiamare il suo nome. Non voleva
più sentirla, non voleva svegliarla.
“Non voglio svegliarla di nuovo.” In quel momento
notò un sorriso derisorio nascosto tra i capelli neri della
donna, ma quando questa alzò il volto vide solo
un’espressione serena e tranquilla.
“Così come lei
è te e lo è sempre stata, lei è
sveglia e lo è sempre stata. Sei tu a decidere, non delle
semplici parole, non lei.
Tu sei la sua prigione, così come lei potrebbe essere
la tua. Si tratta solo di equilibrio.” Rimasero in silenzio,
lei che teneva ancora ostinatamente nascosto il suo nome.
“Ad ogni modo, ti aiuterò a fare un po’
di chiarezza. Altrimenti rischiamo di non risolvere nulla.”
Si mise in piedi tenendo in mano uno di quei contenitori che aveva
cominciato a fumare, entrò nel perimetro delimitato dai
cerchi bianchi e si accucciò di fronte alla ragazza.
“E noi dobbiamo fare in fretta.” Mise il
contenitore sotto il naso di Zaara che la guardava terrorizzata.
Vedendo la sua espressione il volo della donna si intenerì.
“Tranquilla, sarò qui quando tutto
terminerà.” Le sorrise un ultima volta, poi gli
occhi della ragazza si velarono mentre cadeva in un sonno profondo.
Così, lascia
che si fidi.
“Piccola mia. Piccola
mia.”
“Sono due parole inutili. Vai via.” Domandava.
“Piccola mia. Mio cucciolo,
mia creatura.”
“No. Taci. Taci.”
“Non è semplice
vivere, piccola mia.”
“Non sono la tua piccola.”
“Tu credi?”
“Non sono la piccola di nessuno-“
“E invece lo sei.”
“Lasciami andare-“
“Non posso”
“Voglio solo andare-“
“No.”
“Ti odio.”
“Lo so.”
“Ti prego”
“No.”
“Non posso più decidere nemmeno della mia
vi-“
“Non ti appartiene, piccola
mia.”
“Sì.”
“No”
“Era l'unica cosa che avevo capito.”
“No.”
“Lasciami andare.”
“Non posso.”
“Esci e lasciami.”
“Non voglio.”
“Cosa vuoi da me?“
“Tu cosa vuoi?” Cosa
voleva? Non lo sapeva, non ancora.
“Non è bello ciò che ci hanno
fatto”
“… No, non lo
è.”
Era tornata a galleggiare nel nero, gli occhi ostinatamente chiusi, nel
terrore di scatenare quell’illusione rossa di sangue che
ormai vedeva frequentemente. Morrigan le parlava dolcemente,
accarezzando con la sua voce la sua pelle, a smuovere con
l’ombra i suoi capelli biondi, ad avvolgerla, protettiva e
calda come un grembo materno.
Morrigan sentiva le sue catene allargarsi e stringersi con
irregolarità.
Zaara era in cerca di un equilibrio. Ogni singola variazione di stretta
infastidiva Morrigan, e spesso le faceva male. Ma sopportava.
Sia perchè Zaara era la sua bambina, sia perchè,
in fin dei conti, non poteva fare altro.
“Io odio gli umani, bambina
mia.“
“Io sono un essere umano.”
“Non ancora. Probabilmente
mai.”
“Taci.”
“E' questo che desideravi,
bambina mia. Poter parlare chiaramente con me. Da infinito tempo. O
sbaglio?”
“No. E' vero.”
“Sei la mia trappola, ma al
contempo io sono la tua.”
“Io ti odio.”
“Solo in parte.”
“... non cambia.”
“Io sono costretta
all'esistenza entro di te, e così io ti costringo a vivere.
Finché io intendo vivere, non saranno sufficiente ne' uno,
ne' mille chilometri di caduta. Potrai soffrire, e soffrirai. Tanto
quanto colui che l'istante seguente è morto. Ma non
basteranno mai.”
“Così tu mi costringi ad una vita che non posso
controllare e non intendo proseguire.”
“Non è nel mio
volere.”
“Allora liberati e lasciami andare.”
“Questo va al di fuori delle
mie e delle tue capacità. Le nostre catene sono
infinitamente forti.”
“Allora a quel punto mi andava bene morire”
“Ma non smettere d'essere,
solo smettere di vivere. Poiché tu vuoi decidere. Ah, grande
è stato l'errore degli uomini a crearci.”
“Non cederò. Non più. Non ti
lascerò il controllo.”
“Ne sono consapevole, bambina
mia. Rare saranno le volte, semmai accadrà.”
“Cosa vuoi da me?”
“Nulla, bambina mia. Ormai
più nulla.”
“Impossibile.”
“Oramai io ti amo.”
Zaara spalancò gli occhi, davanti a lei non più
il buio pesto, non il rosso del sangue che la faceva affogare, solo un
muro di pietre e una donna appoggiata ad esso che osservava fuori dalla
finestra con un’espressione incredibilmente seria.
Sospirò, e attese. Non sapeva cosa. Ma attese, con la pace
nella mente.
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