19. per efp
19.
Us
ones in between
- And I’ve heard of pious men, and
I’ve heard of dirty fiends
But you don’t often hear of us ones in
between -
(Sunset
Rubdown, Us ones in between)
Damon
Credo mi fosse mancata, un po', San Francisco.
Mi era
mancato correre costeggiando la baia, lungo l'Embarcadero semi-deserto
come può esserlo solo alle sei del mattino. Mi era mancato respirare
salsedine e nebbia umida, che questa mattina sembrano ancora più
rivitalizzanti del solito dentro ai polmoni. Forse mi era mancata
persino la ragazza delle sei e trentacinque, quella che non manca mai
di lanciarmi un preciso tipo di sorriso quando le nostre strade si
incrociano all'altezza del Ferry Building. Solo che questa mattina la
ragazza delle sei e trentacinque, lei e quel suo sorriso un po' timido
un po' da "prima o poi dovremmo dedicarci ad un altro tipo di attività
fisica", li vedo a malapena, quando sono già passati oltre.
Quando mi
sono svegliato, una quarantina di minuti fa, la stazione radio
impostata sul mio iphone ha annunciato "una bellissima giornata su tutta la Bay
Area",
ed io non avrei potuto essere più d'accordo. Mi era bastato gettare uno
sguardo ad Elena, che tornava a seppellire la faccia nel cuscino con un
mormorio di protesta, e lasciarle un bacio leggero tra i capelli prima
di uscire, concedendole la grazia di non essere svegliata alle sei di
mattina, per non avere dubbi al riguardo.
E la
giornata migliora ancora di più, quando torno dalla mia corsa, esco
dalla doccia, e trovo Elena davanti ai fornelli, intenta a fissare con
aria assorta e dispiaciuta un intero set di toast anneriti che ha
sparso ovunque odore di bruciato. Perché chissenefrega dei toast quando
hai Elena vestita solo in biancheria ed una t-shirt troppo larga a
farti venire nuove idee su come usare il bancone della cucina.
Lancia un
gridolino di sorpresa quando la attacco da dietro, ride e tenta invano
di sottrarsi mentre la copro di baci gocciolandole addosso con i
capelli bagnati, mi attira a sé afferrandomi il colletto aperto della
camicia. Non passa molto prima che le sue mutandine cadano proprio lì,
ai piedi del frigo, mentre facciamo bruciare anche il secondo giro di
toast.
Una cazzo
di bellissima giornata.
"Sei di
buon umore," è la prima cosa che mi sento dire da Ric quando varco la
soglia del nostro mini-ufficio.
Solleva la
testa dal suo portatile e si dà una spinta con il piede contro il bordo
inferiore della sua incasinata scrivania. Lui e la sua sedia girevole
rotolano nella mia vista.
"Sono
sempre di buon umore quando ti assicuro un nuovo cliente," sogghigno in
risposta mentre afferro al volo la pallina anti-stress che mi ha appena
lanciato per accompagnare la sua frase.
Lascio
socchiusa la porta dei venti miseri metri quadri che paghiamo a peso
d'oro e mi butto sul divano usato verde acido, unico altro pezzo di
arredamento se non si considerano le pile di libri accatastati sul
pavimento in attesa che ci decidiamo a comprare anche gli scaffali.
Dall'open space in fondo al corridoio, arrivano i rimbalzi secchi di
una partita a ping-pong, l'odore di caffè della cucina condivisa e il
ritmico battito sulle tastiere degli altri occupanti del piano sparsi
tra i loro cubicoli o attorno a tavoli giganti, quelli a cui Ric non
potrebbe mai stare perché troppo preoccupato che qualche geek possa
sbirciare oltre la sua spalla e rubargli le idee.
Ric
riacciuffa la pallina che gli ho ritirato e fa scivolare lo sguardo su
di me, un po' cauto un po' sospettoso.
"No, non è
questo …" Si sporge poggiando i gomiti sulle ginocchia, l'anti-stress
che passa da una mano all'altra, e mi osserva come se mi stesse
cercando addosso i segni di una qualche sconosciuta malattia tropicale.
"Questo … Questo è qualcos'altro. Cos'hai combinato?"
Come
risposta mi limito a scrollare le spalle, perché ho appena sentito
tintinnare il telefono nella mia tasca. E' Elena, con tre nuove foto in
arrivo dal Pier 39. Leoni marini che si strusciano e lei che fa facce
buffe all'obiettivo. Piego un angolo della labbra verso l'alto e inizio
a digitare.
"Sei andato
alla presentazione vero?" mi domanda Ric.
Annuisco. Uno di questi soggetti è veramente
adorabile
"Come è
andata?"
"Bene,"
dico senza alzare lo sguardo.
Ci sono anche i cuccioli! compare
sul display. E poi, Spero che tu
stessi parlando di me
"Hai
parlato di quella variazione del protocollo di trasmissione NEC che
intendo usare?"
"Mmh hmm."
Per
te ho altri agget
"Ehi!"
protesto quando Ric mi strappa il telefono di mano e lo solleva in alto
per tenerlo fuori dalla mia portata. Un'altra foto di Elena, con tanto
di cucciolo di leone marino sullo sfondo, riempie lo schermo.
"Aspetta.
Questa non è Elena, la tua amica
da Mystic Falls? Cosa ci fa qui?" mi chiede nel rilanciarmi il telefono
che io afferro al volo con entrambe le mani. Non mi sfugge l'enfasi
sarcastica che mette sulla parola amica. "E' questo il motivo per cui
hai perso il volo ieri mattina? No, non rispondere. Ovvio che è questo."
Cosa posso
dire? Sento le labbra distendersi in un altro lento sorriso.
"Beh, se ti
fa sentire meglio, non è che lo avessi esattamente programmato."
"Mi
stupirebbe il contrario." Ric corruga la fronte. "Quindi? E' tipo la
tua ragazza adesso? Perché avevo capito che fosse fid-"
"Sai, Ric,"
lo interrompo, prima che possa anche solo pensare di finire quella
frase e pronunciare quella parola. "Sono venuto qua, come promesso, ho
fatto una presentazione fantastica del tuo lavoro, come promesso, e
adesso … " Mi alzo ed inizio a radunare velocemente la mia roba.
Impiego più di un'ora a tornare dalla Valley in città e non ho
intenzione di sprecare un altro minuto. "… Ho altri tipi di promesse da
mantenere. Ci vediamo domani."
Il mio
amico scuote la testa. "Ricordami perché ancora ti sopporto."
Gli lancio
un veloce sogghigno dallo stipite della porta.
"Perché
sono favoloso."
Lui mi
grida dietro, "Non te la cavi così!"
Ha
probabilmente ragione. Ma non me ne frega granché.
Per quanto
lui continui a starmi addosso, sia per il lavoro che con domande
buttate là su cosa cazzo io stia facendo, schivo tutto con l'abilità di
un giocatore di dodgeball. La mia presenza in ufficio nei due giorni
successivi si può riassumere in un paio di obbligate visite toccata e
fuga ed una concentrazione seriamente minata, come testimonia una
discussione per un nuovo progetto che per poco non mando a puttane
perché ho la testa ancora sintonizzata su Elena, che quella stessa
mattina decide di ripagarmi per la sera precedente, inginocchiandosi e
guardando in su con quel suo sorriso malizioso appena prima di farmi
dimenticare pure il mio nome, figuriamoci i dettagli del progetto.
Il resto
del tempo non faccio che lasciarmi trascinare su e giù per i colorati
negozi vintage di Haight Street, o lungo i moli affollati, o a godersi
ombra e mini-stralci di qualcosa che
assomiglia pericolosamente alla beatitudine sdraiati sull'erba del
Golden Gate Park.
"Quindi,
spiegami," mi dice Elena quando la sera dopo varchiamo la soglia di un
bar in Haight-Ashbury. "Come mai hai insistito per farmi vestire e
portarmi qui?" La sua voce inizia a subito a perdersi tra il misto di
chiacchiericcio e musica che riempie il locale, così intreccia la mano
alla mia, mi attira verso di sé e si sporge per sussurrarmi
all'orecchio. "Pensavo di piacerti nuda e nel tuo letto."
Questa
ragazza mi ucciderà. Di morte lenta e meravigliosa.
"Ed infatti
ti terrei lì senza più farti andare via…" le rispondo inclinando appena
la testa per avvicinarmi al suo orecchio e sfiorarlo con le labbra. Poi
mi costringo ad allontanarmi dal profumo che proviene dal suo collo,
prima di cambiare idea e tornare a casa per farle davvero capire quanto
sono serio. "Ma ho promesso a Ric che lo avremmo incontrato per una
bevuta stasera. Perciò eccoci qua."
Faccio per
muovermi dall'ingresso e andare a cercare Alaric ma, come muovo un
passo, la mano di Elena mi trattiene. Lei non si è mossa. Mi volto
verso di lei, che mi sta guardando mezza spaesata,
come se le avessi appena teso una trappola.
"Hai detto
ad Alaric che io … che noi …"
Lascia
andare la mia mano, ed io osservo spiazzato quella inaspettata reazione
così stranita. C'è una nota di accusa nella sua voce.
"Perché lo
hai fatto, perché glielo hai detto?"
"Perché,
non avrei dovuto?"
"Non lo so,
pensavo …"
"Cosa, che
avrei tenuto te e tutto questo nascosto al mio migliore amico?"
"Beh,"
incrocia le braccia sul petto. "Pensavo che fossimo d'accordo sul fatto
di non dirlo a nessuno."
"Tu non hai voluto dirlo a nessuno,"
le ricordo.
Un lampo di
colpevolezza le incupisce gli occhi. E' abbastanza da mandare una fitta
di realizzazione dritta ad attraversarmi il petto, perché è l'attimo in
cui mi rendo conto che il chiaro carattere furtivo di qualsiasi cosa
ci sia tra noi è esattamente ciò per cui ho firmato. Scuoto appena
la testa per liberarla da quel pensiero e da tutti i suoi incerti
sottotesti, cerco di dare retta alla mia parte più
razionale, quella che mi ripete che è solo una situazione temporanea
dovuta a
circostanze sfortunatamente delicate.
"E' solo
Alaric, Elena," le dico, più conciliante. "Nessuno a cui ti importa di
non farlo sapere."
Lei si
morde appena le labbra, una traccia residua di dubbio mentre sposta il
peso da una gamba all'altra. Poi sospira.
"Lo so,"
distoglie un attimo lo sguardo e, quando torna a posarlo su di me, la
colpevole esitazione di prima se ne è andata anche da lì. Per qualche
motivo, non riesce del tutto a farmi sentire meglio. Sorride. "Hai
ragione. Mi dispiace. Andiamo, sarà divertente passare una serata
fuori."
Elena mi
prende nuovamente la mano e mi invita a seguirla nel locale. Con
un'occhiata noto Alaric, seduto ad un tavolino ad angolo, fare un gesto
nella nostra direzione. Qualsiasi sensazione avessi pensato di
avvertire pochi secondi fa la scrollo via in fretta.
E' una
bella serata. Il mio amico e la mia ragazza che vanno piuttosto
d'accordo e piuttosto in fretta. Ne avevo già avuto un assaggio nella
notte passata insieme a New Orleans, anche se quella volta eravamo
tutti fin troppo ubriachi per poter davvero contare qualcosa. Ma
stasera è più o meno la stessa atmosfera, divertita e rilassata, solo
con molto meno alcol.
Elena ride
alle sue battute. Alaric ascolta ciò che lei ha da dire. Parlano di un
libro che hanno letto entrambi. Arrivano perfino a coalizzarsi un po'
contro di me su un paio di argomenti, cosa per la quale fingo di
impermalirmi, ma è una finta spazzata via facilmente dalla mano di
Elena stretta sopra la mia al di sotto del tavolo, e dai sorrisi con
cui guarda in su verso di me.
"Ragazza
simpatica," dice Alaric quando Elena si alza per andare al bagno.
"Pensavo che fosse fidanzata. Cos'è successo, si sono lasciati?"
Dannato
Alaric. Alla fine ce l'ha fatta a dire ad alta voce la parola che
finora ero riuscito così abilmente ad evitare. Prendo in mano il mio
bicchiere e mi stringo nelle spalle, guardando verso la folla.
"Lui è ad
Hong Kong."
"Lo prendo
come un no."
Mi volto
verso di lui.
"E' solo …
un po' complicato, ok? Forse non abbiamo avuto il migliore dei
tempismi, ma …" inizio a dire, fermandomi però quando vedo il suo
sguardo. Odio quell'espressione in faccia a Alaric. Alzo gli occhi al
cielo. "Cosa?"
"Senti, lo
so che non vuoi sentirtelo dire," dice lui sporgendosi verso di me. "Ma
l'ultima volta che ti ho visto così sono stato trascinato in un
municipio con addosso una cazzo di cravatta, e sei mesi dopo ero io
quello che trascinava te, fuori dai bar, quasi tutte le notti e quasi
sempre su quattro zampe. Ce ne sono voluti altri sei per farti tornare
a camminare su due."
Scuoto la
testa e butto giù il liquore tutto d'uno sorso. Mi brucia nello
stomaco, insieme a tutto ciò che il suo discorsetto non richiesto
lascia intendere.
"Non è
Katherine, Ric," replico asciutto.
"No, lo so.
Non lo è. Non ho mai potuto soffrire Katherine fin dal primo momento in
cui l'ho vista, e dio se mi piace questa ragazza. Il che significa …
che è peggio," prosegue, mentre io alzo lo sguardo e vedo Elena tornare
dalle toilette. Anche Alaric la vede. Il resto della sua frase mi
arriva mentre incrocio lo sguardo di Elena, e lei torna ad aprirsi in
un altro accenno di sorriso, solo per me. "Ti ridurrà a pezzi. E non
come Katherine, che ti sarà passata nel giro di qualche mese. A pezzi
per davvero."
***
C'era un motivo per cui l'avevo
sempre saputo che non avrei mai potuto essere uno dei buoni.
Voglio
dire, ovviamente potevo provarci. Potevo sforzarmi di non essere sempre
una totale testa di cazzo, potevo tentare di raschiare un pezzettino
nello spazio riservato ai cosiddetti bravi ragazzi, ovvio che potevo
farlo, e forse a modo mio davvero ci avevo provato. Ma cosa cambiava,
alla fine di tutto? Niente.
I
bravi ragazzi non usano le persone a loro piacimento. I bravi ragazzi
non se ne sbattono di chi ci finisce in mezzo come effetto collaterale.
Potevo
provare quanto volevo, ma tanto poi tornavo sempre lì, a piatte notti
di luglio sui sedili della vecchia Camaro, ad approfittare delle bocche
morbide di ragazze di passaggio di cui a malapena mi sforzavo di
imparare il nome, benedetta sia l'estate e la quantità di famiglie con
figlie a carico che ha da sempre portato in questa cittadina. Usando e
andando avanti.
Avrei
potuto dire che era perché, in quelle ore in cui abbassavo sedili e
toglievo magliette senza neanche sapere di che colore avesse gli occhi
la ragazza del caso, riuscivo almeno per un po' a mettere da parte la
bruciatura che mi divorava dentro al pensiero dell'unica persona che
volevo da star male, e dello sguardo nei suoi occhi quando qualche sera
prima mi aveva spinto via come se fossi stato una minaccia alla sua
intera esistenza. Come se davvero potessi mai pensare di farle del
male.
Avrei
potuto dire che era colpa di quello, ma sarebbe stata solo una facile
scusa, ed io odiavo le facili scuse.
La
verità, l'eterna differenza, era che mi piaceva. Mi piaceva non dovermi
curare di ferire i sentimenti degli altri, e forse, ancora di più, in
un modo più contorto e sottile, mi piaceva persino l'idea di infliggere
almeno un po' della stessa pena, per sapere di non essere il solo a
stare da cani.
Una
persona in particolare stava facendo le spese di tutto questo. Perché
lei era la mia valvola di sfogo, lo era stata fin dall'inizio; e perché
era sempre lì, a fare finta di non sapere come passassi le notti quando
non ero con lei, a rimpiazzare un buco e un posto dove non la volevo
veramente. Lei volevo ferirla più di tutti.
La
trovai una notte seduta sui due gradini di fronte alla soglia della
dependance, in una luce fioca in cui si mischiavano quella della luna
quasi piena e quella del porticato della villa a qualche decina di
metri di distanza.
Una
rapida fitta mi attraversò tutto quando, per un breve attimo, i fari
della mia macchina illuminarono la sua figura, e la mente mi giocò il
brutto scherzo di farmi vedere Elena. Ma poi i capelli più chiari e la
gonna più corta sfatarono subito quell'illusione, lasciandomi ancora
più incazzato con lei per cose di cui non aveva nessuna colpa.
Michelle
si alzò in piedi nel vedermi scendere dall'auto. Solo quando fui più
vicino, notai gli occhi gonfi di un pianto probabilmente finito solo da
poco. Feci finta di non accorgermene e tirai fuori le chiavi dalla
tasca.
"Lo
sai che non puoi fermarti a dormire," le dissi, ribadendo una delle
regole che avevo messo in chiaro fin dagli inizi della nostra storia.
"E'
vero?" mi domandò con un tremolio nella voce. "Ti sei scopato Aimee
Cooper?"
Mi
bloccai mentre stavo per aprire la porta. Aimee Cooper non era una
delle ragazze di passaggio per l'estate. Era una delle sue amiche con
cui stava sempre appiccicata, quelle cose da sorellanza da prima
elementare, o stronzate simili. L'avevo incontrata per caso un paio di
sere prima mentre ritornavo da casa di Enzo, mi ero offerto di
accompagnarla a casa, lei era stata più che felice di accettare. Il
seguito è facilmente immaginabile.
"No."
"Bugiardo!"
gridò dandomi una spinta così forte da farmi cadere le chiavi per
terra, scoppiando in lacrime sull'ultima sillaba. "Dimmelo almeno,
guardami in faccia, stronzo!" un'altra spinta contro il mio braccio, e
poi un altro singhiozzo, "Bast-tardo! Trad-"
Le
bloccai le mani afferrandole per i polsi prima che atterrassero con
l'ennesimo violento colpo sopra la mia spalla, ed il resto della frase
si perse in singhiozzi sempre più acuti.
"Stai
facendo una scenata," le dissi abbassandole le braccia con una
delicatezza che contrastava nettamente con la freddezza di cui invece
caricai la mia voce.
Si
allontanò con uno scatto.
"Era
mia a-mica! M-mia amica!" mi urlò contro con forza, in mezzo ad altri
singulti, ed io gettai un'occhiata verso la villa dove una luce si era
adesso accesa al piano superiore. Ci mancava solo avere mio padre come
pubblico. "Come hai potuto? Com-"
"Vuoi
smetterla?" ribadii, "Sveglierai tutti quanti."
Si
portò le mani sulla bocca e ci singhiozzò dentro, con le spalle che
tremavano in scosse irregolari, i capelli sfuggiti dal cerchietto e
macchie di mascara sulle guance.
Avrei
dovuto provare pena per lei. Dopotutto, mi piaceva questa ragazza. Ci
eravamo divertiti insieme, e alla fine, in qualche modo, le avevo
perfino voluto bene. Avrei dovuto ricordare tutto quello e provare pena
per lei e disgusto per me stesso che l'avevo ridotta così, ma non ci
riuscivo. Non provavo niente.
Riuscivo
a pensare solo a quanto fosse patetica lei a stare male per me, e
patetico io a stare male per un'altra. Patetici entrambi, ecco cosa
eravamo.
"Perché?…"
mi domandò piano quando riuscì a calmare il pianto abbastanza da poter
parlare di nuovo. "Perché lei, perché lo hai fatto, perché …"
Mi
strinsi nelle spalle. "Mi andava."
"Dio,
sei un bastardo," rispose, scossa da un altro singulto, meno rabbioso,
più disperato. "Ed io pensavo … pensavo … Perché mi hai fatto questo?"
Alzò il volto verso di me, gli occhi allargati e bagnati, le labbra
tremanti e piene di pathos. "Io ti amo."
Cristo,
pure questa adesso. Avrebbe dovuto impressionarmi, farmi sentire uno
schifo? O magari, farmi gettare in ginocchio ed implorarla di
perdonarmi? Sì, beh, nessuna di queste.
"Oh,
ma per favore," risposi con una smorfia, "Finiscila e basta, ok?"
La
sua mano aperta mi colpì la guancia. Forte, ma non abbastanza da
procurarmi poco più che un diffuso pizzicore. Insomma, pure lo schiaffo
fu patetico. Neanche quella soddisfazione. Poi corse via, e la sentii
ricominciare a piangere mentre si dirigeva verso la propria auto
lasciata fuori dal cancello.
Mi
piegai per riprendere le chiavi cadute e chiusi pure quel capitolo, con
una scrollata di spalle che mandò via anche quella fastidiosa
sensazione di nausea e rimorso che stava minacciando di prendermi lo
stomaco. L'avevo distrutta di proposito, perché io ero distrutto, e
neanche mi importava.
Eccola
l'eterna differenza.
***
Non dovrei neanche stare a pensarci. A fidanzati all'altro lato del
globo, o matrimoni che nessuno ha ancora annullato.
Non dovrei,
perché Elena è qui, ed è con me, tangibile quanto il suo odore tra le
mie lenzuola al mattino, la pelle calda sotto alle mie mani, o il modo
in cui socchiude leggermente gli occhi quando ride, ride per davvero. E
se tutto questo è reale, perché dovrei dubitare che lo sia anche il
resto. Che tutto questo significa qualcosa, e che non è solo una
distrazione momentanea, un momento di pazzia al grido di nessun
rimpianto, l'ultima boccata d'aria sulla strada verso il felici e
contenti insieme a qualcun altro.
Non ho
intenzione di dare ascolto ad un dubbio tanto subdolo. Ma è lì. Pronto
a venire in superficie nei più piccoli momenti, rapida e dolorosa
puntura che arriva, colpisce e se ne va, almeno fino a quando non si
ripresenta di nuovo.
Elena non
torna più sul discorso iniziato accidentalmente e poi rapidamente messo
da parte ieri sera, prima di incontrare Alaric. Io nemmeno.
Raccontandoci che va bene così, che non c'è nessuna fretta di farlo,
senza sapere se è perché ci crediamo davvero o più per le conseguenze a
cui una simile discussione potrebbe portare.
"Quindi, ho
preso del sushi per cena, perché lo so che non mi lasci avvicinare ai
fornelli, e mi sento in colpa a far cucinare sempre te," annuncia
Elena, entrando in casa e sventolando in alto una busta bianca di
cartone con su scritto "Kabuto, Ristorante Giapponese".
Seduto su
uno sgabello al bancone della cucina, sollevo la testa dalle ultime
email di Alaric, e spalanco stupito lo sguardo quando la vedo. Elena
posa la busta sul bancone, gira la testa di lato, scuote un po' i
capelli con fare volutamente teatrale.
"Perciò se
non hai niente in contrario, o altri commenti da fare …"
Sorrido e
allungo una mano per afferrarla per la vita e attirarla verso di me.
Seppellisco le labbra nelle nuove onde un po' scalate che movimentano i
suoi capelli, e sento che sorride anche lei mentre le sussurro
lasciandole piccoli baci sul collo, "Non saprei, sono troppo distratto
dal nuovo sexy taglio di capelli di qualcuno."
Sposto la
bocca lungo tutto il suo profilo, e poi a cercare la sua. Una ciocca di
capelli le cade in avanti, ci finisce in bocca, ed Elena si
scosta per soffiarla via scocciata. Io allungo le dita per metterla al
suo posto, questo ciuffo scuro che, nuovo taglio o no, continua sempre
e comunque a scivolarle sugli occhi. E' la cosa più adorabile di
sempre, e amo il fatto che non sia affatto cambiata.
"Come è
andata la tua giornata?" mi chiede Elena intrecciando le mani dietro
alla mia nuca.
"Mmh … " Le
rubo un altro bacio veloce. Ed un altro. "Bene. E la tua?"
"Molto …"
Ride quando la interrompo per un altro bacio al volo. "… bene. Vuoi
sapere cosa ho fatto oggi?" mi chiede sciogliendosi dalla mia presa sui
suoi fianchi per andare a tirare fuori la cena dalla busta di carta.
"Dimmi."
"Sono stata
a Berkeley."
La aiuto a
togliere il coperchio dai due vassoi di sushi, spezzo le bacchette e
gliene passo un paio.
"Davvero?
Perché?"
"Non lo so
…" si stringe nelle spalle e si appoggia con il gomito sul bancone,
esaminando il cibo ma senza ancora toccarlo. "Ho pensato che dal
momento che ho detto che sarei andata lì e che Jeremy si trasferirà tra
poco … Non so, tanto valeva andare a vedere di che si tratta, no?
Ovviamente il campus era mezzo deserto dato che non ci sono corsi, ma
c'era questo orientamento per nuovi arrivati, fatto da questa
gentilissima professoressa di antropologia, così … abbiamo parlato un
po', ho fatto un giro. Mi hanno anche dato l'orario dei corsi per il
prossimo semestre, ti immagini?"
"Wow,"
commento.
Elena
solleva esitante lo sguardo. "Non ridere di me."
"Non lo sto
facendo," dico serio, porgendole un maki con le mie bacchette. Accenna
un sorriso e si avvicina per mangiarlo.
"Ti capita
mai …" prosegue poi, appuntandosi i capelli dietro l'orecchio, " … di
rimpiangerlo? Sai, il fatto di non essere andato al college?"
"No,"
rispondo, mentre prendo un pezzo di salmone. "Ma a te sì."
"Io … Beh,
sì, forse, ma è stupido," scuote la testa e torna a tormentare il
povero sushi con le sue bacchette. "Voglio dire, non posso tornare
indietro nel tempo."
"Puoi
sempre farlo adesso."
Piega le
labbra in una vaga smorfia. "Forse in college comunitari per divorziate
di mezza età e avvocati senza licenza [1],
dubito che università vere mi accetterebbero di nuovo con sei anni alla
gestione di un bar come unica credenziale. Andiamo, Damon, non sono una
diciottenne fresca di liceo."
"E quindi?
Non puoi dirlo senza averci provato. E poi, pure Jeremy sarebbe qui.
Beh, dall'altra parte della baia, ma è pur sempre meno lontano che
dall'altra parte del paese. Potresti essere vicino a lui, e anche a me."
Cazzo. Mi
blocco con le bacchette a mezz'aria, nell'atto di prendere un altro
pezzo di sushi, quando mi rendo conto di ciò che le ho appena detto.
Ottimo lavoro, Damon, ottimo lavoro davvero, già che ci sei perché non
chiederle anche di venire a vivere qui, tanto non avete passato insieme
a malapena cinque giorni e lei non ha un fottuto matrimonio tra tre
settimane. Realizzo che cazzo di errore sia stato nel momento in cui
sollevo gli occhi e vedo quella frase imprimersi nel suo sguardo, nel
modo in cui cambia la sua espressione.
Socchiude
le labbra ma non risponde. Restiamo ad osservarci in un lungo, incerto
momento di silenzio, in cui la mia gola si fa più spessa per il
desiderio impellente di poter ringoiare quelle ultime dannate parole
insieme a tutte le prospettive di lungo periodo che hanno implicato e
che era tacito accordo non nominare.
"Damon …"
comincia a dire.
Il suo
telefono, appoggiato sul bancone, squilla in quell'esatto momento.
Il nome di
Elijah salta su nel display, accompagnato da una deliziosa miniatura di
loro due insieme, abbracciati, che è la ciliegina sopra il pugno alla
bocca dello stomaco che arriva dritto e preciso nell'attimo in cui il
mio sguardo ci si posa sopra. Elena allunga le dita per prenderlo in
mano, assestando il colpo numero due.
"Mi
dispiace, devo … Devo rispondere."
Evita il
mio sguardo, mormora un "pronto" mentre si allontana di qualche passo
per avvicinarsi alla finestra che guarda sul terrazzo.
"Niente,"
risponde, giocherellando con una tenda, "Stavo solo cenando velocemente
prima di tornare a lavoro."
C'è un tale
silenzio, nell'appartamento, che riesco a sentire piuttosto
distintamente la replica perplessa di Elijah, dall'altro lato della
linea.
"Così
tardi? Non è già mezzanotte da te?"
Promemoria
per Elena. Se racconti balle al tuo fidanzato, assicurati almeno di
azzeccare il giusto fuso orario.
"Sì, io …
intendevo …" farfuglia, mi getta uno sguardo veloce.
L'espressione
di deplorazione per se stessa che intravedo quando lo fa è peggiore di
tutte le foto della coppietta felice che possono esserci là fuori.
Si volta di
nuovo dall'altra parte, apre la finestra scorrevole, ed esce sul
terrazzo.
Vengo
lasciato ad osservarla attraverso il vetro, senza riuscire a sentire
una sola parola. Abbassa gli occhi, picchietta la punta della scarpa
sul pavimento, non smette di tormentarsi un paio di ciocche di capelli.
Quando riattacca, temporeggia qualche secondo invece di tornare subito
dentro.
Getto le
bacchette da sushi sopra il bancone, sopra una cena praticamente ancora
intatta. Una delle due rotola via, fino a cadere per terra dall'altro
lato. Improvvisamente, mi è passato tutto l'appetito.
"Scaricato," sentenziò Enzo,
stravaccato all'altro lato del divano, allungando un braccio di lato
per passarmi ciò che rimaneva della canna tra le sue dita. "Ripetilo
un'altra volta, insieme a me. Sei stato sca-ri-ca-to."
Mi
rivolse un ghigno, mentre gliela sfilavo di mano. Diedi un tiro,
appoggiai la nuca all'indietro contro la spalliera, e soffiai il fumo
verso il soffitto, grato che il torpore nel mio cervello fosse già
abbastanza piacevole da non farmi degnare di dare una risposta alle sue
stronzate, perché non sarebbe stata gentile.
"Neanche
una scopata di addio?"
Il
solo pensiero, considerate le circostanze, era così assurdo che sentii
una risata, amara e artificiosa, salirmi su dalla pancia insieme alla
mia risposta. "Decisamente nessuna scopata di addio."
Tre
colpi contro la porta mi fecero raddrizzare la testa di scatto. Ci misi
alcuni secondi per processare la mossa successiva. Tre nuovi colpi.
Bofonchiai
un'imprecazione tra i denti e mandai frettolosamente il mozzicone a
fare compagnia agli altri già ingialliti sul fondo della tazza
scheggiata che stavamo usando come posacenere improvvisato. La nascosi
alla vista infilandola nello piccolo spazio dietro al divano, e diedi
un colpetto sulla spalla di Enzo, indicando ciò che era rimasto sul
tavolino.
"Fai
sparire."
Con
la testa ancora frastornata per essermi alzato troppo rapidamente,
spiai al di là della finestra per vedere chi fosse venuto a rompere le
palle. Mio fratello era in piedi davanti alla porta con le mani
affondate nelle tasche.
"E'
solo Stef," dissi ad Enzo, che quindi lasciò l'erba esattamente lì dove
si trovava, e tornò ad allungarsi scompostamente sul divano.
"State
fumando erba?" fu la prima cosa che mi domandò Stefan non appena mise
piede dentro, annusando l'aria e corrucciando la fronte in un modo
molto da Stefan. "Qui, in casa sua? Papà ti ammazza se lo viene a
sapere."
Mi
buttai di nuovo a sedere, incrociando i piedi sul tavolino, scrollai le
spalle.
"Chi
se ne frega."
"Ciao,
Stefan!" esclamò Enzo alzandosi in piedi ed allargando le braccia, con
fare entusiasta. Mio fratello lo scrutò con diffidenza, mentre il mio
amico gli passava accanto per dargli un paio di sonore pacche sulla
spalla. "Come va la vita? Aspetta," si sporse in avanti come per
osservarlo meglio e più attentamente. "E' barba quella che finalmente
ti sta spuntando in faccia? Nah, scusa, era solo un riflesso."
Gli
diede un buffetto da cui mio fratello si scansò infastidito. Io
sogghignai, incapace di controllarmi. Stefan mi gettò un'occhiata
offesa.
"Non
è divertente."
Lo
era.
"Vuoi
una birra, Stefan?" domandò Enzo aprendo il frigo. Ne tirò fuori una
bottiglia che si mise a scrutare con particolare attenzione. Poi gliela
porse con un sorriso a trentadue denti. "E' una chiara. Sai com'è, io
adoro le bionde. Ti piacciono le bionde, Stefan?"
La
faccia di mio fratello raggrinzì ulteriormente, in quell'espressione
mezza
perplessa e mezza giudicante che può avere solo chi non riesce a
seguire le logiche di chi è del tutto fatto.
"No,
grazie," scosse la testa, tornò a rivolgersi a me. "Stai bene? Sono
passato al negozio, non c'eri. Rose mi ha chiesto come sta il tuo virus
intestinale, non ti vede da due giorni, e mi sono preoccupato, ma
chiaramente …" indicò il casino di bottiglie e tabacco che ingombrava
il tavolino, "… era una stronzata. Cosa stai facendo, Damon?"
"Ah,
l'eterna domanda!" esclamai con calcata enfasi. "Cosa facciamo? Chi
siamo? Dove andiamo? Cos'è l'esistenza se non un'infinita sequenza di
insignificanti eventi destinati a ripetersi?"
Enzo,
appoggiato in avanti con i gomiti sul bancone, scoppiò a ridere, e
bastò quello per trascinarmi di nuovo a sghignazzare insieme a lui.
Stefan strinse sia la mascella che i pugni nelle tasche.
"Ce
la fai ad essere serio per un momento?"
"E
tu ce la fai a non essere sempre così un dito al culo?"
"Sai
cosa?" sbottò lui. "Vaffanculo."
"No,
fanculo te, Stef!" gli gridai dietro, mentre lui se ne andava sbattendo
la porta dietro di sé.
Enzo
mi porse una delle due bottiglie aperte che aveva preso dal frigo. Lo
afferrai con uno scatto in avanti, buttai giù una lunga sorsata insieme
alla frustrazione e all'auto-commiserazione che adesso grazie a Stefan
erano tornate a mettersi di traverso sulla gola. Grazie, fratellino,
per aver rovinato una altrimenti perfettamente piacevole giornata priva
di pensieri.
Allo
schiocco della porta lasciato da mio fratello, seguirono interi minuti
di silenzio. Fissai lo sguardo su una venatura del legno vecchio e
macchiato del tavolo, estraniandomi completamente.
Poi
Enzo disse, "E' colpa sua. Dovrebbe saperlo, di non andare a fare la
lagna con qualcuno che è appena stato scaricato."
"Non
sono stato scaricato," replicai sovrappensiero, senza staccare gli
occhi da quella dannata riga più scura in mezzo al legno.
"Non siamo mai stati insieme. Non c'è mai stato niente. Niente … Adesso
è solo chiaro che niente mai ci sarà."
"Per
via di quell'insulso palestrato con cui sta? Ma per favore."
"No,"
dissi, sbattendo le palpebre. Magari fosse stata colpa di Donovan.
Sarebbe stato molto più facile. "Sono io. Sono io che non sarò mai la
persona che vorrebbe lei."
Apro la finestra a scorrimento e mi appoggio con una spalla contro lo
stipite della soglia. Elena mi ha sentito arrivare, ma il suo profilo
continua a rimanere voltato in avanti, verso il buio che inghiotte la
baia.
"Stai
bene?" le chiedo.
Ci provo,
ci provo davvero a non metterci dentro quell'indefinito miscuglio amaro
che mi si è piantato sullo stomaco fin dallo squillo promemoria su cosa
esiste al di fuori de "Le avventure di Elena e Damon a San Francisco",
ma nel mio tono un accento di durezza ci finisce lo stesso.
Elena
scuote la testa. "Gli ho mentito in faccia. A qualcuno che mi ama, e si
fida di me, una menzogna dopo l'altra. Che tipo di persona fa una cosa
del genere? No, non sto bene."
"Quindi ne
deduco che non avete avuto quella conversazione sul fatto di rimandare
la data a, non so … mai più?"
Lei serra
strette le labbra, non sembra divertita dalla mia battuta. Non lo sono
neanche io. Il suo silenzio dovrebbe essere indicazione sufficiente, ma
quel miscuglio sul mio stomaco vuole farsi del male e vuole sentirselo
dire da lei.
"Hai
intenzione di dirglielo, prima o poi?"
Si volta
finalmente verso di me, ha lo sguardo lucido di colpa e di accusa.
"E'
dall'altro lato del mondo, cosa dovrei fare? Spezzargli il cuore,
mandare tutto all'aria per telefono? Penso di dovergli un po' più di
questo."
"Bene.
Lasciami riformulare, allora. Non al
telefono, hai intenzione di dirglielo? Va meglio così?" domando
con un leggero sorriso sarcastico.
Mi osserva
con gli occhi appena spalancati e le labbra socchiuse in quella leggera
smorfia incredula che ha quando le piace accusarmi di fare lo stronzo
insensibile. Scuote la testa tra sé e sé, si volta dall'altra parte.
"Non lo so
cosa ho intenzione di dirgli," replica. "Forse lo saprò quando lo
rivedo."
Stringo le
labbra e accuso il colpo, preciso e puntuale, di un altro non lo so.
"Capisco."
Mi stacco
dallo stipite e mi giro per tornare dentro, perché oltre a questo non
vedo cosa altro cazzo ci sia da dire, ma la mano di Elena mi afferra
subito l'avambraccio per farmi voltare di nuovo verso di lei.
"Non
intendevo dire che …"
"Cosa?"
ribatto, liberandomi della sua presa, "Che stai ancora pensando davvero
di sposarlo?"
Gli occhi
le si allargano, offesi e feriti dalla mia accusa.
"Non ho
detto questo!"
"No, ma lo
pensi," le dico avvicinandomi di un passo, fino a che il mio volto non
è che a pochi centimetri dal suo, fino a che non sento io stesso tutta
la frustrazione trattenuta riversarsi nel mio tono di sfida. "Dimmi che
non c'è neanche una piccola, minuscola parte di te che sta ancora
considerando la cosa."
"Io …
i-io…" Scuote la testa, preme i palmi sugli occhi in un moto esasperato
e, quando parla di nuovo, la sua voce si rompe in una così fragile e
intensa che, da qualche parte dentro di me, finisce per spezzare
qualcosa anche lì. "Ho cercato così a lungo e così duramente di dare
una direzione alla mia vita, una direzione qualsiasi, e poi tutto è
cambiato e io … Non riesco neanche a pensarci, Damon! Tornare e
affrontare tutto quanto, e le persone a cui sto facendo del male, e
cosa farò adesso … E mi sento così egoista e ingiusta, per essere così
felice, di essere qui con te e di non riuscire a pensare a
nient'altro," prende un profondo respiro, cerca il mio sguardo. Finisce
con quello che è poco più di un sussurro, "Non riesco a pensare a
nient'altro."
Curva
appena le labbra, dopo averlo detto, e il conflitto in quell'accenno di
sorriso, e negli occhi che nella penombra sono perfino più scuri, e il
modo in cui mi spiazza sempre, è a questo che dò la colpa per il fatto
di sentirmi sempre così fottutamente debole di fronte a lei. Ancora di
più quando allunga incerta la mano per posarla sulla mia guancia, e
appoggia piano il volto contro il mio, anche mentre io rimango
perfettamente immobile.
"Non può
essere abbastanza?"
Vorrei
poter rispondere di sì, dio solo sa quanto lo vorrei, perché forse lo
è, almeno per un altro momento, o un'altra notte. Ma rimango in
silenzio, mentre la punta delle sue dita mi accarezza il viso, mentre
si sporge sulla punta dei piedi e inclina il volto di lato, mentre le
sue labbra mi sfiorano esitanti. Sull'angolo della bocca, sulla
fossetta appena sotto il labbro inferiore, sull'altro angolo, ancora e
ancora, ogni sfioramento leggero che preme sempre più pesante sul mio
petto, soffocandomi a poco a poco.
"Elena …"
cerco di dire, posando la mia mano sulla sua ancora premuta sulla
guancia, per stringerla appena.
Perché lo
so che in un secondo la farò allontanare, perché ho capito quello che
lei ancora non vuole ammettere, e non ho intenzione di giocare a questo
perverso castello di bugie. Non quelle che racconta al suo fidanzato,
che può andarsene a fanculo esattamente dove è adesso per quel che me
ne frega, ma quelle con cui continuiamo a prenderci in giro che tutto
questo possa davvero andare da qualche parte, come se non fossimo
entrambi completamente fottuti dentro come siamo, come se non lo
fossimo sempre stati tanto per cominciare.
Ma Elena mi
mette a tacere con un altro bacio, premendo fermamente le labbra sulle
mie, con la tenacia e l'urgenza di chi non vuole lasciar andare. Ed io
mi arrendo. L'ho detto che sono fottutamente debole.
Circondo
con una mano la sua nuca, con l'altra il suo fianco, cedo e prendo con
la stessa tenacia e la stessa urgenza. La spingo dentro casa,
inciampando appena sulla soglia che delimita il terrazzo, e contro la
prima parete che trovo, quella accanto alla vetrata. Elena sospira
quando lo faccio, tirandomi la maglietta con le sue mani sottili, e
sento anche i denti nel modo in cui mi bacia, denti e lingua e gemiti e
bisogno. Restituisco con la stessa combinazione, dolorosamente duro
contro la cima delle sue cosce, e so che ci sono un milione di cose che
le direi in questo momento e che non le dirò mai.
Dobbiamo
smettere, adesso, e chiarire una volta per tutte, mentre mi sfila la
maglietta, e percorre la mia schiena con i palmi e con le unghie.
Non sposare
quel coglione, mentre le abbasso la canotta intorno ai fianchi e piego
la testa per arrivare con le labbra alle morbide curve del seno,
tracciarle tutte con la lingua.
Sono felice
anche io, e cristo se dovrebbe essere abbastanza, ma per qualche
dannata ragione non lo è, mentre faccio saltare aperto il bottone dei
suoi shorts e questi cadono intorno alle sue caviglie.
Elena li
calcia via, la faccio voltare, appoggia una mano per sorreggersi alla
parete adesso davanti a lei. La copro con la mia, e lei ci intreccia le
dita così strette da non farmi arrivare il sangue alle nocche,
respirando affannosamente mentre con labbra e lingua percorro tutta la
curva delle spalle, e poi quella del collo, serrando più stretta la
presa sulla mia mano quando con l'altra le accarezzo l'addome e vado ad
affondare le dita dentro le sue mutandine. E' incredibilmente calda e
bagnata, e respiro più affannosamente anche io, e mi perdo nel suo
sciogliersi sotto alle mie dita, nel suo inclinare la testa per cercare
la mia bocca, nel leggero cedimento che hanno le sue ginocchia.
E'
maledettamente intenso quando entro in lei, e solo poco dopo la sento
tremare ovunque, le mie gambe incerte pure loro. Abbandono esausto la
testa nell'incavo della sua spalla e la circondo con entrambe le
braccia. Stringe stretto anche lei, fino a che non so più chi si stia
davvero aggrappando a chi. Torno a baciarla prima ancora di aver del
tutto ripreso fiato, piano, sfiorandola ovunque con le labbra, schiena,
spalla, collo.
Poi sulla
sua guancia. La trovo umida, e leggermente salata.
***
Non dormo, quella stessa notte. Rimango sveglio, sdraiato sulla
schiena, per quella che mi appare davvero come un'infinità di tempo,
Elena raggomitolata contro di me con la testa posata sopra al mio
torace nudo. Penso che non stia dormendo neanche lei, la presa del suo
braccio attorno alla mia vita è troppo salda per qualcuno addormentato,
ma fa finta di sì, ed io glielo lascio fare.
Non può essere abbastanza? è un
disco rotto dentro al mio cervello.
Si
intromette in ogni sprazzo di sonno frammentario in cui cado senza
rendermene conto, un assopimento inquieto in mezzo al quale ci finisce
pure mio padre, che mi ritrovo vivo e vegeto a San Francisco, intento a
riprendersi in mano la mia vita e rimpiazzarla con Elijah, perché per
qualche motivo ho mandato tutto a puttane e lui deve rimettere le cose
a posto per me. Mi sveglio di soprassalto, con il cuore che martella
contro le costole.
Mi volto
verso Elena, adesso davvero addormentata con un braccio attorno al
cuscino, le quattro e ventisette sul display del cellulare. Lentamente,
mi alzo stando attento a non svegliarla.
In
soggiorno, mi verso un bicchiere del bourbon più forte che ho, e mi
siedo nella penombra per confrontare e fuggire il fantasma del pezzo di
carta che sono andato a riprendere dal fondo del cassetto in cui
l'avevo cacciato, e che adesso mi fissa dalla superficie del tavolo sul
quale l'ho gettato. E' qualcosa che non facevo da giorni, da quando ho
lasciato Mystic Falls insieme a Elena.
Sollevo lo
sguardo quando alcuni passi leggeri fanno scricchiolare appena il
parquet. Elena, scalza e in piedi sulla soglia che apre sulla camera,
si passa una mano tra i capelli lasciati sciolti, facendoli ricadere di
lato sulla spalla.
"Mi sono
svegliata e tu non c'eri," dice piano.
Distolgo lo
sguardo, mi rigiro in mano il bicchiere che ancora non ho toccato.
"Non
riuscivo a dormire."
Si
avvicina, mi accarezza con la mano sulla spalla nel passarmi accanto,
prende la sedia accanto alla mia. Lei osserva me, io osservo il bourbon.
"E fissare
un pezzo di carta ed un bicchiere di whisky aiuta?"
"Non
proprio."
Indica con
un cenno della testa la lettera che giace immobile sopra al tavolo.
"E' per
caso la stessa che avevi a New Orleans? Di tuo padre?"
Annuisco,
mentre alcune luci provenienti da fuori rompono brevemente la
semioscurità della stanza e le passano sul viso illuminando la sua
espressione interrogativa.
"Perché non
la leggi e basta?"
Corrugo la
fronte, soppeso la sua domanda. Esito un secondo, prima di dirlo ad
alta voce.
"Mi odiava."
"Non ti
odiava."
Forse. Ma
se fosse stato ancora così? Ed avesse voluto ribadirlo una dannata
ultima volta. La cosa più folle è che sono passati anni. E' morto,
cazzo, a marcire sotto terra, e non dovrebbe neanche più avere nessuna
importanza. Scuoto la testa.
"Non puoi
saperlo."
"Sì,
invece, lo so," si sporge verso di me, mi sfiora gentilmente le dita,
ed infonde nel suo tono quella dolcezza piena di comprensione che mi
ricorda perché sono sempre stato destinato ad essere così fottuto
quando si tratta di lei. "Per come l'ho conosciuto, tuo padre non era
uno in grado di odiare il proprio figlio."
Oh, giusto.
La sua tardiva confidenza con mio padre, le chiacchierate in cui io non
ero incluso, avergli presentato il nuovo fidanzato appeso al braccio.
Come se avessi davvero voglia di stare a sentire anche solo una parola
su tutto questo.
"E tu pensi
di conoscerlo perché?" domando storcendo le labbra, "Perché parlavate
del tempo mentre gli servivi i pancakes?"
Elena si
irrigidisce, ed un moto ferito le guizza negli occhi quando incrocio il
suo sguardo. Mi fa sentire uno schifo per averlo detto.
"Non c'è
bisogno di essere cattivo," replica lei.
Ha ragione.
Sono io che a volte non riesco a farne a meno.
Allungo le
dita verso la sua mano sopra al tavolo, e la prendo tra la mia, per
chiederle scusa. La carezzo lentamente, per un lungo momento di
silenzio.
Lei la
stringe appena. "Puoi parlare con me, Damon."
Lo so.
Quello che non so è come la prenderebbe.
Mi alzo in
piedi, le poso un bacio sulla fronte. "Magari un'altra volta."
Quando mio padre diceva di "dovermi
parlare", era un istinto automatico chiedermi cosa diavolo avessi fatto
questa volta. In quel caso, quando lo avevo incrociato per caso fuori
dall'ingresso mentre, appena tornato, chiudeva con un clic del
telecomando la sua berlina, la prima cosa che avevo pensato era stata
che Stefan avesse vuotato il sacco, sia sul fatto di aver saltato il
lavoro il giorno prima, che sulle attività alternative su cui avevo
ripiegato.
La
villa era immersa nell'ombra quando entrai, solo piccole strisce di
luce a filtrare dalle fessure delle imposte, tutte serrate per tenere
fuori l'afa umida delle estati in Virginia, lo stesso buon odore di
sempre. Fresco e pino e infanzia. Avevo ignorato la sensazione, e
seguito mio padre nello studio in cui era andato a posare le sue cose.
"Quindi,"
esordì posando la giacca sopra una sedia ed arrotolandosi sui gomiti la
camicia stropicciata dalla giornata. Mi misi a sedere, volutamente
scomposto, con una caviglia posata sul ginocchio opposto. "Il mese
prossimo, c'è una cena a casa del governatore, durante la quale
annuncerà il suo supporto alla mia candidatura alle primarie per le
prossime elezioni. Ci sarete anche tu e Stefan. E mi aspetto," mi
strappò dalle mani la spillatrice che avevo preso dalla scrivania, con
cui stavo giocando a farle prendere a morsi l'aria, "Che ti impegni per
fare una buona impressione."
"Fammi
indovinare. Vuoi mostrare un po' di quei famosi valori famigliari dei
Salvatore in cui siamo così bravi?" dissi facendo il gesto della
pistola con due dita e strizzando l'occhio nella sua direzione.
"Sono
serio."
"Anche
io," sorrisi, prendendo in mano una penna a sfera. "Ci sarà anche
Charlotte? Potrebbe essere un'occasione carina per riunire tutta la
famiglia, non credi?" Spalancai lo sguardo e la bocca, come se fossi
appena stato colpito da un'idea geniale. "Magari possiamo invitare
anche il suo nuovo ragazzo! Ha ventotto anni, fa l'insegnante di yoga.
Sarebbe divertente e … Niente. Affatto. Imbarazzante."
Sottolineai
la mia frase con un paio di clic della penna, e mantenni intatto il mio
sorriso anche di fronte a quell'espressione che gli prendeva sempre la
faccia al sentir nominare Charlotte, quel misto di amarezza e
risentimento velocemente trasformato in qualcosa di più duro e più
freddo.
"Incasinami
questo, Damon, e scoprirai di non avermi mai visto incazzato."
Mettendo
su la mia migliore espressione seria, feci un veloce, sarcastico gesto
da "agli ordini sissignore" con la mano sulla fronte.
"Mi
hanno detto che hai rifiutato Dartmouth," proseguì incrociando le
braccia sul petto.
"Già,"
confermai, iniziando a far cliccare la penna più sonoramente contro la
superficie del tavolo.
"Perché?"
"Quale
parte," replicai, alzando su di lui uno sguardo interrogativo, "di
´Puoi prendere Dartmouth ed infilartela dove sai bene` non ho
reso abbastanza …" un altro, più violento, clic per guadagnare
abbastanza slancio, "chiara?"
La
penna saltò via dal tavolo, disegnò un arco curvo nell'aria davanti
alla sua faccia, e rotolò sul pavimento con un tintinnio plasticoso.
Il
suo cellulare suonò. Lo tirò fuori dalla tasca gettandomi un'occhiata
accesa di irritazione a malapena trattenuta.
"Resta
qui," mi avvertì mentre si preparava a rispondere. "Non ho ancora
finito."
Roteai
gli occhi al soffitto mentre lui lasciava la stanza, mi alzai per
andare a raccogliere la penna che avevo fatto saltare dall'altro lato
della scrivania. Quando mi sporsi per prenderla, qualcosa tra i
documenti sul tavolo, un nome, attirò la mia attenzione. Corrugai la
fronte, gettai un rapido sguardo oltre la porta. Mio padre era ancora
al telefono.
Sfilai
attentamente la cartella dalla pila in mezzo alla quale si trovava, la
aprii.
Scorsi
velocemente tra i fogli al suo interno, tra i numeri, i nomi e le note,
che però non mi aiutarono a dare senso alla cosa né tantomeno a
rispondere alla domanda principale: cosa diavolo voleva mio padre dal
Mystic Grill?
Lo
sentii salutare ed essere sul punto di chiudere la telefonata, così
richiusi tutto in fretta e lo rimisi al suo posto. Mi infilai le mani
in tasca e mi appoggiai in piedi contro la scrivania, nello stesso
attimo in cui rientrava. Mi gettò uno sguardo cauto, ma non disse
niente.
"Quindi,"
domandai, "Hai finito, posso andare?"
"Solo
una cosa," disse, infilandosi il telefono e le mani in tasca. Mi guardò
dritto negli occhi. "Hai tempo fino alla fine dell'estate, per decidere
una volta per tutte se intendi ciondolare a vita in un negozio di
musica e ai bordi di questa casa, o combinare finalmente qualcosa di
serio. Poi, se non è così … dovrai trovarti un altro posto dove stare."
***
Esco presto al mattino dopo, quando Elena dorme ancora.
L'intera
giornata la impiego tenendo fede alla mia promessa verso Stefan di
aiutarlo a togliere la compagnia dall'orlo della bancarotta, cosa che
se non altro mi aiuta a restare concentrato su qualcosa e a non
lasciare vagare la mente verso altri generi di pensieri. Questo implica
passare ore appresso a tale Kai della Gemini Co., giovane quanto
insopportabile venture capitalist multi-milionario che però al momento
rappresenta la migliore possibilità che abbiamo. Gli parlo del piano di
ristrutturazione messo in piedi da mio fratello prima che Elijah lo
spedisse dentro al cesso, e di tutti i benefici che gli aprirebbe il
fatto di investire in una compagnia finanziaria della Virginia con
connessioni ben oliate dentro Washington, il tutto mentre giochiamo a
mini-golf in un percorso costruito appositamente al ventesimo piano dei
quartieri generali della sua compagnia. Lo lascio vincere ma giocando
con abbastanza impegno da fargli credere di esserselo effettivamente
meritato, e quando si mostra convinto, so che se anche mio fratello ha
giocato bene le sue carte, quelle più diplomatiche e concilianti in cui
è tanto bravo, abbiamo davvero una possibilità di riuscire in ciò che
ci siamo proposti. E' sempre abbastanza un azzardo, e portare dentro un
ragazzino viziatello che ha fatto le prime fortune investendo in
videogiochi online non è esattamente ciò che il caro vecchio papà
avrebbe considerato in linea con la sua visione delle cose, ma in un
certo senso il pensiero di quanto una cosa del genere lo manderebbe in
bestia dà a tutto un certo gusto aggiunto.
Elena non è
a casa quando ritorno, sul finire del pomeriggio. Un paio di ore fa, un
suo imperscrutabile messaggio mi ha fatto sapere che Sono uscita a fare due passi, ho pensato
molto. Dobbiamo parlare. Stasera?. Le due temibili parole,
dobbiamo parlare. Per qualche motivo, non mi piace l'idea di dove tutto
questo stia andando a parare.
Prendo il
telefono, chiamo Stefan per tenerlo aggiornato con gli ultimi sviluppi.
"Kai è
nostro," gli faccio sapere. "Ancora poco, ed avrai una compagnia di
nuovo senza debiti, un consiglio più fedele, e nessun direttore
finanziario a metterti i bastoni tra le ruote. Contento?"
"Ho
incontrato Fairchild oggi, ed ho il suo voto. E' rimasto solo
Cartwright, ma non dovrebbe essere un problema. Se saprà che tutti gli
altri sono d'accordo, non si arrischierebbe mai a restare fuori e non
avere la sua parte. E' solo che …"
"Cosa?"
chiedo, mentre mi tolgo la camicia e la butto sopra il letto.
So
riconoscere la puzza della coscienza di mio fratello anche da tremila
miglia di distanza.
"Ho
ricevuto l'invito per il suo matrimonio oggi. Il che mi ricorda che si
sta sposando la migliore amica della mia ragazza, e che continuerò ad
averci a che fare. Tutto ciò prospetta per future feste di compleanno
abbastanza strane. Caroline non sarà contenta, lo sai quanto ci tiene
alle feste di compleanno. Mi sento un pessimo individuo."
Alzo gli
occhi al cielo, perché Stefan era stato il primo ad essere d'accordo
con
tutto. Portare dentro Kai, e con lui portare i soldi. Io che prometto
di non interferire e starmene defilato, lasciando che il molto più
benvoluto Steffy sia quello ragionevole intento a portare avanti
l'eredità del nome Salvatore. Il nome rimane, il consiglio è felice, e
possono finalmente andare a mettere la caparra per quella barca che li
farà sentire per un altro po' dei giovani capitani di ventura. In
cambio di questo, acconsentono a cambiare un po' di cose e far fuori
Elijah con un voto a sorpresa. Facile e indolore, è il compromesso in
cui vincono tutti.
Ma no, oggi
è una di quelle giornate in cui Stefan deve sentirsi una pessima
persona.
"Ti
passerà, fidati," replico, ingoiando il gusto acido che mi ha riempito
al bocca al solo sentir nominare il matrimonio del secolo. Apro
l'armadio per prenderne una maglietta pulita.
"Ciò non
toglie che mi sembra una mossa poco corretta nei suoi confronti, ciò
che stiamo facendo."
Sento
chiavi girare nella porta. Mi sbrigo a spazzare via i suoi residui di
scrupoli prima che si metta davvero a ripensarci, condannandosi ad anni
e anni sotto la presa di Elijah.
"Se l'è
cercata lui il giorno in cui ha deciso da solo che i suoi metodi più
sicuri erano migliori dei nostri. Impiegheresti anni a tornare in
sesto, lasciandolo fare, e lo hai detto tu stesso che lo trovi
impensabile," gli ricordo. "Forse un voto a sorpresa non è il modo più
gentile per sbattere fuori qualcuno, ma è così che funzionano le cose.
Papà dovrebbe avertelo insegnato."
"Parli come
lui."
Mi blocco
con le maniche della T-shirt infilate per metà. Alzo lo sguardo verso
lo specchio a figura intera nell'anta interna aperta dell'armadio, e
vedo la mia faccia cambiare per lo strano pugno che hanno appena
assestato le sue parole inaspettate. Ma non ho tempo di stare a
chiedermi se abbia o meno ragione. Dietro a me nello specchio, sulla
soglia della stanza, Elena incrocia le braccia sul petto ed inclina la
testa con fare interrogativo.
"Ti
richiamo, Stef," mi affretto a riattaccare.
Entra in
camera, mentre io getto il telefono sul letto e finisco di infilarmi la
maglietta.
"Di cosa
stavi parlando?" mi chiede.
"Aggiornamenti
fraterni," rispondo con un sorriso veloce.
Mi
avvicino, mi sporgo per darle un bacio. Elena fa un passo indietro, mi
scruta con sospetto.
"Hai per
caso appena detto che stai licenziando Elijah?"
"Tecnicamente,"
spiego. "Non posso licenziarlo. Non che non vorrei. Il termine votarlo
fuori è più corretto. Molto più difficile da ottenere. Perciò
apprezzerei moltissimo se evitassi di dirglielo," aggiungo unendo le
mani in un gesto di gratitudine. "Rovinerebbe un po' la festa a
sorpresa, no?"
Ed eccola
lì. Di nuovo quella faccia. Quella in cui mi guarda con fare incredulo
e da cui si può quasi sentire l'incazzatura iniziare ad irradiarsi
verso tutto ciò che le sta intorno.
"Non puoi
fare una cosa del genere," sentenzia decisa, io mi trattengo dal non
farmi sfuggire una smorfia. "Voglio dire, non è giusto, non è neanche
qui al momento, insomma non ha nessuna idea … Ed adora lavorare là, ha
dato così tanto, ed era così affezionato a tuo padre, lo so per certo.
Non puoi fargli questo, non se lo merita, non è giusto," mi butta
addosso, tutto insieme, con una tale intensità indignata che neanche
avessi appena rivelato di star architettando uno sterminio di massa di
cuccioli di orsi polari.
"Tragico,
lo so, non vedo cosa posso farci."
"Non riesco
a crederci che lo faresti veramente." Scuote la testa.
"Dimmi una cosa, era tutto pianificato? Agire così alle sue spalle, per
liberarsene mentre non c'è? Come puoi fare una cosa così meschina?"
Serro le
labbra in una linea, ed è il momento in cui inizio leggermente ad
incazzarmi pure io. Perché non può davvero essere seria. Se sta
cercando qualcosa su cui proiettare e scaricare il suo senso di colpa,
così da non doversi sentire la persona peggiore in tutta questa storia,
allora tanto vale farlo fino in fondo.
"Già,
tempismo perfetto, non è vero?" dico con un sorriso stretto. "Oh, a
proposito, Stefan ha ricevuto il tuo invito di matrimonio. Deve dare
conferma?"
La menzione
taglia dritta attraverso di lei. Nel lampo che le attraversa gli occhi
e che li rende più scuri, in tutta la sua fermezza che vacilla di
colpo, e nel modo in cui sostiene il mio
sguardo con uno ancora più ferito e arrabbiato.
"Non ci
provare. Non farne una questione che riguarda me."
"Perché
no?" ribatto aspro. "Sei tu che ne stai
facendo una questione tua. Cosa diamine te ne frega?"
"Perché non
è giusto! Non se lo merita, niente di tutto questo!"
"Però ti
sta bene, scoparti qualcun altro!"
E' così
veloce e così violento, che a malapena lo vedo arrivare. Sento solo il
dolore caldo e diffuso lasciato dalla sua mano sulla mia guancia, dopo
che il ceffone l'ha già dato. Quando incontro di nuovo i suoi occhi, la
rabbia che li riempiva quando ha alzato la mano se ne è già andata,
rimpiazzata dallo stesso dolore ferito che brucia anche sulla mia
guancia e dentro il mio petto.
Si porta
entrambe le mani sulla bocca, ed è sull'orlo delle lacrime.
"Oh mio
dio," mormora piano, tremando appena, mentre compie un minuscolo passo
indietro e mi guarda con gli occhi allargati dallo shock. "Cosa stiamo
facendo? Non possiamo essere così, Damon. Stiamo facendo del male ad
altre persone. Stiamo facendo del male … a noi. E' tutto troppo
complicato, troppo …"
"Allora
vai," la interrompo. Mi guarda smarrita, e la gola mi fa male, mentre
lo dico, molto più della guancia, molto più di qualsiasi altra cosa.
"Se è così, se la pensi così … Vattene. E' sempre complicato, Elena.
Vuoi prendere la via d'uscita più facile? Eccola qui. Prendila e
vattene."
Si porta di
nuovo una mano sulle labbra, e non replica, ed io non so davvero se
è meglio o peggio così, perché qualsiasi cosa potrebbe dire adesso mi
annienterebbe in un modo o nell'altro e, onestamente, quello sguardo
sulla sua faccia, quello sguardo spalancato e pieno, e perso e bagnato,
e poi oh così dispiaciuto, già dice tutto.
Le passo
davanti, mentre una lacrima non regge più e le cade sulla guancia. Non
dice niente, neanche quando raggiungo la porta ed in un attimo sono
fuori da lì.
***
Il bancone di un pub, il mio telefono, un bicchiere di whisky posato lì
accanto.
Per una
molto lunga, molto torturata, ora, sono queste le uniche cose che mi
riempiono la testa e la visuale.
Ho lasciato
il mio appartamento, ed Elena, un paio di ore fa. Ho camminato, e
camminato, attraverso i viali più ampi e tutte le strade costellate di
bar e pub affollati che conosco così bene da sapere che ci sono posti
dove non devi per forza sentirti troppo solo e malinconico, se non vuoi
farlo. Sono quelli dove c'è sempre abbastanza folla e musica e voci
alte che non ti costringono a stare ad ascoltare il suono della tua
stessa mente fin troppo fottutamente incasinata.
Ho perso il
conto delle volte in cui ho preso in mano il telefono, l'ho controllato
e l'ho riposato, pur sapendo in partenza di non trovarci niente
di nuovo, non fosse solo per il fatto che è l'unica cosa che ho
continuato a fissare tra una bevuta e l'altra per quello che sembra già
un lasso di tempo infinito. Continuo a tornare a quell'ultima
comunicazione di Elena, a quel corto Ho
pensato, dobbiamo parlare
che poteva voler dire tutto senza dire niente. Me lo chiedo adesso,
cosa fosse che aveva da dire. Un sì, una pausa, un no, un non lo so.
Immagino che non lo saprò mai. Tanto, non ha neanche più nessuna cazzo
di importanza.
Penso di
chiamarla più o meno ogni volta che il telefono lo prendo in mano. Non
lo faccio neanche mezza. Non so se voglio scoprire se davvero ha
mollato tutto così, o se sta solo aspettando, come me, che le cose si
calmino un po' e tornino a quando non dobbiamo per forza urlarci in
faccia e tutto questo può essere così maledettamente meraviglioso e non
così maledettamente doloroso come una scheggia piantata nel mezzo del
costato.
"Posso
avere un Martini dry?" dice una voce di donna accanto a me. "Senza
ghiaccio."
Getto
un'occhiata di lato, mentre lei aspetta di essere servita dal barista,
e qualcosa in lei mi sembra familiare. La riconosco l'attimo dopo,
anche se i capelli castani sono sciolti e ondulati sulle spalle invece
che tirati su nella solita pratica coda alta. Tamburella le dita mentre
aspetta la sua ordinazione. Si volta appena, si blocca piacevolmente
sorpresa quando mi vede.
Sorrido,
perché mi ha riconosciuto anche lei. Ovvio che lo ha fatto.
"Tu … tu
sei il ragazzo del Ferry Building!" esclama. Poi muove una mano
nell'aria, sorride appena imbarazzata. "Scusa, è stupido, è così che ti
chiamo."
"Ragazza
delle sei e trentacinque," rispondo, prendendo un sorso. "E' così che
io chiamo te."
"Beh," si
gira per prendere e pagare la sua bevuta. "Adesso puoi chiamarmi
Charlotte. O Charlie, è così che mi chiamano tutti."
Decisamente
meglio, o qua ci sarebbero le basi per un gigantesco complesso materno.
Charlie sia.
"Damon."
"Sei qui da
solo, Damon?"
Il mio
sguardo va automaticamente verso l'immobile telefono, per rinnovare la
fitta al costato quel tanto che basta.
"Sì."
Inclino la testa, studio brevemente lei e quello stesso sorriso un po'
timido e un po' flirtante che mi lancia ogni mattina. "Tu?"
Charlie
lancia un veloce sguardo oltre la sua spalla, verso un tavolo con altre
tre ragazze, che ci osservano, ridono, alzano i loro bicchieri nella
nostra direzione in segno di incoraggiamento.
Si siede
nello sgabello accanto al mio, le faccio spazio.
"Posso
esserlo."
Non alzai lo sguardo, quando sentii
aprirsi la porta del negozio, seguita dal leggero tintinnio che
annunciava la rara entrata di un cliente. Tonight, Tonight [2]
usciva
a basso volume dagli speakers, e la mia ricerca internet sugli
esorbitanti prezzi degli affitti per buchi di stanze in zona New York
mi aveva appena fatto realizzare che avrei avuto bisogno di risparmiare
almeno altri quattro mesi del mio misero stipendio, per potermi
permettere di non morire di fame nei primi trenta giorni. Quattro mesi
che non avevo, dato che il mio caro papà mi avrebbe sbattuto fuori tra
due.
"Stiamo
per chiudere tra dieci minuti, quindi suggerisco vivamente di tornare
domani quando non dovrò rimanere oltre orario per mettere in ordine
quello che ha intenzione di lasciare fuori posto, buona serata e grazie
mille," dissi asciutto all'importuno cliente che aveva avuto la
brillante idea di presentarsi appena prima dell'orario di chiusura.
"Speravo
che potessi fare un'eccezione?"
Mi
voltai di scatto, non senza un imprevisto battito mancato a tradimento.
Elena,
sulla soglia del negozio, sorrise. Di quel sorriso piccolo che le
alzava solo appena gli angoli delle labbra, una mano intenta a
tormentare la cinghia della borsa a tracolla.
Non
la vedevo da giorni. Dalla notte dopo il Grill in cui avevo
riaccompagnato a casa lei e suo padre, nel viaggio in macchina più
pieno di silenzi nella storia dei viaggi pieni di silenzi.
Indossava
un vestitino verde, al ginocchio, e bastò un solo secondo, un'occhiata
a quel vestitino e al modo in cui incrociò nervosa le caviglie e le
basse scarpe di tela, per riaprire tutto quello mi si apriva dentro
quando era vicina e poi si dimenticava sempre di richiudersi perfino
quando non lei non c'era.
"Ciao,"
disse.
Distolsi
lo sguardo.
"Ciao."
"Io
… ti ho portato questi," sollevò un braccio, mi mostrò un sacchettino
ben incartato. "Sono i biscotti grandi con le scaglie di cioccolato, li
abbiamo fatti freschi di questa mattina, avevi detto un po' di tempo fa
che avremmo dovuti venderli di nuovo perché erano i tuoi preferiti, e …
Giuro che non li ho fatti io," scherzò, porgendomelo e tentando un
altro sorriso.
Se
fosse stata una qualsiasi altra occasione, e non una dove per giorni
eravamo stati troppo impegnati a far finta che non avessi provato a
baciarla ottenendo un secco, spaurito, no come risposta, se fosse stata
una sera qualsiasi e non avessi avuto da ingoiare un malloppo di
orgoglio ferito e consapevolezza di quanto unidirezionali fossero
diventate le cose, allora avrei chiuso in fretta ogni serranda, e avrei
preso la Camaro, e avrei guidato in una di quelle radure nascoste
appena fuori città, una con alberi e verde e vista sulle cascate, e
sarei rimasto seduto sul cofano con lei a fare cena con i
biscotti fino a che non avesse fatto buio, e anche di più.
Ma
non lo era. Spensi il computer, Elena aspettò qualche secondo con il
sacchettino ancora teso, e poi li posò un po' delusa lì vicino sul
bancone.
"Stavo
pensando che forse-"
"Ho
da fare stasera," risposi, continuando a rimettere a posto le ultime
cose.
"Ti
vedi con Michelle?"
Il
tono casuale, buttato là, con cui lo chiese, terminò in una leggera
nota acuta che no, non aveva nessun diritto di essere lì.
"Michelle
ed io ci siamo lasciati."
Staccai
anche gli speakers, e l'assenza di una replica da parte sua rese
l'improvviso silenzio nel locale ancora più lungo e ancora più denso.
"Oh.
Io non … Mi …" Si fermò, si schiarì la voce. "Perché?"
Allora
sollevai lo sguardo verso il suo. Lo trovai particolarmente allargato e
improvvisamente incerto. Sorrisi a labbra strette.
"Sono
andato a letto con la sua migliore amica."
Una
linea le solcò la fronte, la sua espressione cambiò.
"Tu
… Cosa?" domandò spiazzata, neanche lo avessi fatto a lei. "Perché
faresti una cosa del genere?"
"Cavoli,
non lo so," roteai gli occhi al cielo. "Perché non dovrei?"
"Perché
è una cosa orribile!"
"Allora
forse faccio cose orribili!"
Elena
richiuse di colpo la bocca, scosse la testa.
"Pensavo
che fossi cambiato, Damon."
Le
passai davanti, andai ad aprire la porta con uno scatto brusco, con la
testa le feci cenno di uscire. Non ero in vena, lo ero meno che mai,
per quel suo solito ritornello.
"Notizia
dell'ultim'ora, Elena. Le persone non cambiano."
Elena
si avvicinò a passi decisi. Ma invece di prendere la porta, si piazzò
di fronte a me, guardò in su con quella scintilla testarda nello
sguardo.
"Ed
è questo che ti ostini a non voler capire! Tu non sei così, ma ti piace
far finta di sì per usarla come scusa per allontanare di proposito
tutti quanti, e questo, in questo, pensavo che fossi cambiato."
"Non
darmi lezioni sull'allontanare le persone," dissi, serrando più strette
le dita attorno alla maniglia della porta. "Tu in questo sei molto più
brava di me."
Si
schermì, con un passo indietro.
"Io
non allontano le persone."
"No.
Solo me."
Il
riferimento non detto lo sapevamo entrambi quale fosse, ma rimase lo
stesso sospeso nell'aria. Nel silenzio con cui ci guardammo, nella nota
più triste che ferita con cui mi erano uscite fuori quelle parole, nel
modo in cui si ammorbidì la sua espressione.
"Sono
tua amica, Damon. Non ti allontanerei mai." Piegò appena un lato delle
labbra. "Non potrei neanche se volessi."
Piano,
chiusi la porta. Mi ci appoggiai contro con la spalla, guardai appena
fuori sulla strada, e poi di nuovo verso il suo viso, le sopracciglia
leggermente increspate, e tutta quella sincerità e tutto quell'affetto
che non era davvero più abbastanza rispetto a ciò che avrei voluto che
fosse, ma che restava quanto di più vicino ci potesse essere.
"Fa
parte del non allontanarmi, avermi ignorato per giorni?" domandai,
odiando ogni briciola della dannata debolezza con cui sapevo, a
dispetto di tutto, di non poterla comunque perdere.
Abbassò
lo sguardo, con un inconscio gesto nervoso chiuse una mano intorno al
ciondolo scuro che portava al collo.
"Sto
con Matt," disse, girandosi a guardare fuori. "Amo Matt."
"Felice
che lo abbiamo chiarito," replicai, incrociando le braccia sul petto,
anche se il sarcasmo con cui lo dissi forse fu chiaro solo a me.
Elena
annuì, smise di torturare il suo ciondolo con le dita. Fece per andare,
esitò all'ultimo momento. Poi si voltò, si sporse rapida sulle punte,
mi baciò la guancia. Altrettanto rapidamente, uscì senza
guardarmi un'altra volta.
Runaway,
The National
Charlie
ride mettendosi una mano davanti alla bocca. E' quasi carina come cosa.
Penso che mi piacerebbe molto meno se non fossi già al mio sesto o
settimo bicchiere di whisky, e lei non fosse al quarto Martini dry. Ma
ci siamo, quindi è carina, o quasi.
"Lo sai,"
dice lei, mentre io finisco anche ciò che era rimasto sul fondo del
bicchiere. "Pensavo che tu …" mi indica, sovrappone un po' le parole,
"… non ti saresti mai deciso a parlarmi."
"Mi stavo
solo rendendo più desiderabile," rispondo avvicinandomi appena di più,
con la voce già abbassata a quel tono più seducente che entra
automaticamente in gioco in certe situazioni, anche quando il mio
istinto di auto-conservazione dovrebbe suggerirmi di meglio.
Soprattutto quando il mio istinto di auto-conservazione dovrebbe
suggerirmi di meglio.
"Ci sei
riuscito," sorride, con lo sguardo sulla mia bocca.
Dio, quante
volte l'ho fatto? Uno sbiadito deja-vu di un me post-Katherine taglia i
miei pensieri per una frazione di secondo, ma comunque abbastanza da
aprire uno squarcio su tutte le volte in cui alcol e sesso erano un
ottimo modo per ripagare la stronza che mi aveva lasciato incazzato e
ammaccato. Non cambiava assolutamente niente, alla fine di tutto,
niente per lei che a malapena se ne fregava, niente per me che restavo
ugualmente incazzato e ammaccato. E lo sapevo che era così, ovvio che
lo
sapevo, ma era sempre meno peggio che lasciare spazio a tutto il resto.
Così come
so adesso che Elena non è Katherine, dio se non lo è. Ma io sono sempre
io. Ed ha dell'incredibile, il modo in cui tale consapevolezza si
intromette in mezzo ad ancora più alcol ed una ragazza perfettamente
carina e perfettamente disponibile. Non si può scappare, da una cosa
del genere. Neanche quando la ragazza delle sei e trentacinque colma la
distanza degli ultimi centimetri, posa le labbra sulle mie.
E' un po'
sbadato come bacio, ma non ci faccio troppo caso.
"Non faccio
mai così, ma …" sussurra sulla mia bocca. "Casa tua o mia?"
Mi guarda
un po' incerta, ed io non
ho una risposta.
Non ce l'ho
perché è qui che tutto quanto mi riempie
la mente, e l'addome, e perfino il costato sempre un po' scheggiato. Le
lacrime di Elena mentre vado via, Elena che si stira nel sonno al
mattino presto, e tutti i piccoli suoni quando la bacio lentamente, e
il modo in cui ride, e quello in cui si arrabbia, e quanto salda sia la
sua presa quando mi stringe. E' la sola risposta che ho, anche
maledettamente complicata e incasinata come è, tornare da lei.
Ma lo so
fin dal momento in cui apro la porta, accendo la luce, e sento il
silenzio fermo che riempie il mio appartamento. Lo so in quel momento,
ma ugualmente cerco nella sala, nella camera, anche sulla terrazza,
accendendo ogni luce e perlustrando per il minimo segno di ciò che
c'era fino a poche ore fa, e adesso non più. Una spazzola sul ripiano
del bagno, un libro tirato fuori dalla libreria, vestiti lasciati
disordinatamente sopra una sedia.
Mi appoggio
alla parete che separa il
soggiorno dalla camera, mentre l'alcol che mi ottura la testa e le vene
rende ogni cosa filtrata come attraverso la patina di un patetico sogno
triste. Scivolo contro la parete finché non sono seduto per terra, e la
stanza gira un po' prima di assestarsi, proprio come tutto ciò che
Elena mi ha lasciato in pezzi nel petto.
Tiro fuori
il telefono. Risponde al terzo squillo, un "ehi" instabile almeno
quanto la domanda che le faccio.
"Dove sei?"
L'annuncio
di un volo per Austin in partenza al gate 72 risponde per lei.
"Avevi
ragione, Damon. Non posso … Non posso restare, non in una situazione
così. E' ingiusto nei confronti di tutti, anche nostri. E' stato un
errore," dice, e non so se a fare più male è l'idea che lo pensi
davvero o quei residui di lacrime che ancora si sentono nella voce. "Ho
trovato un volo che parte tra mezzora, riesco ad essere a casa per
domani mattina. Devo, capisci? Devo sistemare un po' di cose."
"Non
farlo," mi sento dire, l'alcol e la spaventosa idea di una notte senza
Elena a parlare più della mia parte ragionevole. "Almeno non stasera,
non così … Vengo a prenderti. E le sistemerai domani, o quando diamine
vuoi. Non stanotte."
Un altro
volo annunciato in sottofondo riempie il silenzio nella sua risposta.
"Mi
dispiace," sussurra dentro il microfono.
E poi
riattacca, e poi più niente, e poi è finita.
Mi faccio
scivolare il telefono di mano, cade sul pavimento. Lo lascio lì, fisso
il vuoto, e non riesco più a rialzarmi neanche io.
—————————————————————
Note:
[1]
Se avete colto la citazione, sappiate che vi amo. No, seriamente. Vi amo.
[2] Tonight,
Tonight - Smashing Pumpkins
Note autrice
I'm
sorry. I'm so, so sorry.
Per
il ritardo, innanzitutto, sia nel postare il capitolo che nelle
risposte ai commenti (li ho amati tutti, voi non ci
crederete ma mi fate davvero commuovere, tipo lacrimuccia nell'occhio
quando vi leggo. Sono una sentimentale, che ci volete fare). E' solo
che questo capitolo l'ho dovuto scrivere a piccole dosi, piano piano,
perché tutto insieme non ce la facevo, e
immagino che possiate intuire perché. Potete odiarmi, se volete. Il
prossimo torna a Mystic Falls insieme a Elena, e
inizieranno a tirarsi un po' le fila di tutto.
E sono molto più che emozionata di annunciare che, d'ora in poi, Stubborn Love la potrete trovare anche sul
blog It's
Gonna Be Damon (qui per
seguirlo anche su facebook),
che pubblicherà in
esclusiva le anteprime dei
capitoli prima della loro pubblicazione. So che se siete delle brave
Delena lo conoscete già, ma se non fosse così cogliete l'occasione per
rimediare, e fare le brave Delena, perché é
una miniera inesauribile di bellissime riflessioni e analisi sia sul
Damon e Elena
che su TVD tutto.
Di
questo
ringrazio
Ross e Scarlett, che si
sono
prese a cuore questa storia e l'hanno portata anche lì,
ringrazio la nostra Bloodstream che ha realizzato delle meravigliose
gif ispirate a scene di Stubborn Love,
ringrazio tutte
voi che mi
avete incoraggiato a continuare e sostenuto fin qui.
Ringrazio
anche le mie adorabili beta, che qui si sono unite in un triplice
lavoro per correggermi le sviste e sopportare le mie paranoie, e chiudo
la nota con l'ormai solito angolino musicale per quelle che sono
interessate: Us ones in between per la
citazione iniziale e Runaway dei The National per
l'ultima scena (qui la playlist), e con un nuovo gigantesco
grazie per tutto questo incredibile supporto che non smette mai di
stupirmi.
ps.
chi di voi, sul gruppo facebook, aveva azzeccato gli spoiler di "due
verità una bugia"?
un
bacio,
ever
|