Serie TV > The Vampire Diaries
Segui la storia  |       
Autore: everlily    05/11/2014    22 recensioni
Damon ed Elena si conoscono quando sono solo adolescenti.
Non hanno niente in comune, se non i casini e la confusione che entrambi si portano dentro. E' un'amicizia improbabile la loro, in cui i confini si confondono, a volte sofferta, ma di cui nessuno dei due riesce a fare a meno.
Anni dopo, entrambi si sono costruiti una propria vita lontani l’uno dall’altra: ma l'inatteso ritorno di Damon a Mystic Falls può ancora mandare all’aria molti piani e finire per rimettere tutto in discussione.
Dalla storia. “Per tutto ciò che ha spinto, e forse spinge ancora, me e Damon ad avvicinarci, c'è sempre stato anche qualcos'altro, più nascosto e latente, una forza contraria sempre pronta ad esplodere e ad allontanarci con la stessa intensità. E non so se, adesso che entrambi siamo cresciuti e andati avanti con le nostre vite, anche questo sia cambiato. Forse, il vero quesito a cui è più difficile rispondere è se io voglia davvero scoprirlo oppure no."
AU/AH
Genere: Angst, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Damon Salvatore, Elena Gilbert, Un po' tutti | Coppie: Damon/Elena
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
19. per efp


19.

Us ones in between


- And I’ve heard of pious men, and I’ve heard of dirty fiends

But you don’t often hear of us ones in between -

(Sunset Rubdown, Us ones in between)


Damon


Credo mi fosse mancata, un po', San Francisco.

Mi era mancato correre costeggiando la baia, lungo l'Embarcadero semi-deserto come può esserlo solo alle sei del mattino. Mi era mancato respirare salsedine e nebbia umida, che questa mattina sembrano ancora più rivitalizzanti del solito dentro ai polmoni. Forse mi era mancata persino la ragazza delle sei e trentacinque, quella che non manca mai di lanciarmi un preciso tipo di sorriso quando le nostre strade si incrociano all'altezza del Ferry Building. Solo che questa mattina la ragazza delle sei e trentacinque, lei e quel suo sorriso un po' timido un po' da "prima o poi dovremmo dedicarci ad un altro tipo di attività fisica", li vedo a malapena, quando sono già passati oltre.

Quando mi sono svegliato, una quarantina di minuti fa, la stazione radio impostata sul mio iphone ha annunciato "una bellissima giornata su tutta la Bay Area", ed io non avrei potuto essere più d'accordo. Mi era bastato gettare uno sguardo ad Elena, che tornava a seppellire la faccia nel cuscino con un mormorio di protesta, e lasciarle un bacio leggero tra i capelli prima di uscire, concedendole la grazia di non essere svegliata alle sei di mattina, per non avere dubbi al riguardo.

E la giornata migliora ancora di più, quando torno dalla mia corsa, esco dalla doccia, e trovo Elena davanti ai fornelli, intenta a fissare con aria assorta e dispiaciuta un intero set di toast anneriti che ha sparso ovunque odore di bruciato. Perché chissenefrega dei toast quando hai Elena vestita solo in biancheria ed una t-shirt troppo larga a farti venire nuove idee su come usare il bancone della cucina.

Lancia un gridolino di sorpresa quando la attacco da dietro, ride e tenta invano di sottrarsi mentre la copro di baci gocciolandole addosso con i capelli bagnati, mi attira a sé afferrandomi il colletto aperto della camicia. Non passa molto prima che le sue mutandine cadano proprio lì, ai piedi del frigo, mentre facciamo bruciare anche il secondo giro di toast.

Una cazzo di bellissima giornata.

"Sei di buon umore," è la prima cosa che mi sento dire da Ric quando varco la soglia del nostro mini-ufficio.

Solleva la testa dal suo portatile e si dà una spinta con il piede contro il bordo inferiore della sua incasinata scrivania. Lui e la sua sedia girevole rotolano nella mia vista.

"Sono sempre di buon umore quando ti assicuro un nuovo cliente," sogghigno in risposta mentre afferro al volo la pallina anti-stress che mi ha appena lanciato per accompagnare la sua frase.

Lascio socchiusa la porta dei venti miseri metri quadri che paghiamo a peso d'oro e mi butto sul divano usato verde acido, unico altro pezzo di arredamento se non si considerano le pile di libri accatastati sul pavimento in attesa che ci decidiamo a comprare anche gli scaffali. Dall'open space in fondo al corridoio, arrivano i rimbalzi secchi di una partita a ping-pong, l'odore di caffè della cucina condivisa e il ritmico battito sulle tastiere degli altri occupanti del piano sparsi tra i loro cubicoli o attorno a tavoli giganti, quelli a cui Ric non potrebbe mai stare perché troppo preoccupato che qualche geek possa sbirciare oltre la sua spalla e rubargli le idee.

Ric riacciuffa la pallina che gli ho ritirato e fa scivolare lo sguardo su di me, un po' cauto un po' sospettoso.

"No, non è questo …" Si sporge poggiando i gomiti sulle ginocchia, l'anti-stress che passa da una mano all'altra, e mi osserva come se mi stesse cercando addosso i segni di una qualche sconosciuta malattia tropicale. "Questo … Questo è qualcos'altro. Cos'hai combinato?"

Come risposta mi limito a scrollare le spalle, perché ho appena sentito tintinnare il telefono nella mia tasca. E' Elena, con tre nuove foto in arrivo dal Pier 39. Leoni marini che si strusciano e lei che fa facce buffe all'obiettivo. Piego un angolo della labbra verso l'alto e inizio a digitare.

"Sei andato alla presentazione vero?" mi domanda Ric.

Annuisco. Uno di questi soggetti è veramente adorabile

"Come è andata?"

"Bene," dico senza alzare lo sguardo.

Ci sono anche i cuccioli! compare sul display. E poi, Spero che tu stessi parlando di me

"Hai parlato di quella variazione del protocollo di trasmissione NEC che intendo usare?"

"Mmh hmm."

Per te ho altri agget

"Ehi!" protesto quando Ric mi strappa il telefono di mano e lo solleva in alto per tenerlo fuori dalla mia portata. Un'altra foto di Elena, con tanto di cucciolo di leone marino sullo sfondo, riempie lo schermo.

"Aspetta. Questa non è Elena, la tua amica da Mystic Falls? Cosa ci fa qui?" mi chiede nel rilanciarmi il telefono che io afferro al volo con entrambe le mani. Non mi sfugge l'enfasi sarcastica che mette sulla parola amica. "E' questo il motivo per cui hai perso il volo ieri mattina? No, non rispondere. Ovvio che è questo."

Cosa posso dire? Sento le labbra distendersi in un altro lento sorriso.

"Beh, se ti fa sentire meglio, non è che lo avessi esattamente programmato."

"Mi stupirebbe il contrario." Ric corruga la fronte. "Quindi? E' tipo la tua ragazza adesso? Perché avevo capito che fosse fid-"

"Sai, Ric," lo interrompo, prima che possa anche solo pensare di finire quella frase e pronunciare quella parola. "Sono venuto qua, come promesso, ho fatto una presentazione fantastica del tuo lavoro, come promesso, e adesso … " Mi alzo ed inizio a radunare velocemente la mia roba. Impiego più di un'ora a tornare dalla Valley in città e non ho intenzione di sprecare un altro minuto. "… Ho altri tipi di promesse da mantenere. Ci vediamo domani."

Il mio amico scuote la testa. "Ricordami perché ancora ti sopporto."

Gli lancio un veloce sogghigno dallo stipite della porta.

"Perché sono favoloso."

Lui mi grida dietro, "Non te la cavi così!"

Ha probabilmente ragione. Ma non me ne frega granché.

Per quanto lui continui a starmi addosso, sia per il lavoro che con domande buttate là su cosa cazzo io stia facendo, schivo tutto con l'abilità di un giocatore di dodgeball. La mia presenza in ufficio nei due giorni successivi si può riassumere in un paio di obbligate visite toccata e fuga ed una concentrazione seriamente minata, come testimonia una discussione per un nuovo progetto che per poco non mando a puttane perché ho la testa ancora sintonizzata su Elena, che quella stessa mattina decide di ripagarmi per la sera precedente, inginocchiandosi e guardando in su con quel suo sorriso malizioso appena prima di farmi dimenticare pure il mio nome, figuriamoci i dettagli del progetto.

Il resto del tempo non faccio che lasciarmi trascinare su e giù per i colorati negozi vintage di Haight Street, o lungo i moli affollati, o a godersi ombra e mini-stralci di qualcosa che assomiglia pericolosamente alla beatitudine sdraiati sull'erba del Golden Gate Park.

"Quindi, spiegami," mi dice Elena quando la sera dopo varchiamo la soglia di un bar in Haight-Ashbury. "Come mai hai insistito per farmi vestire e portarmi qui?" La sua voce inizia a subito a perdersi tra il misto di chiacchiericcio e musica che riempie il locale, così intreccia la mano alla mia, mi attira verso di sé e si sporge per sussurrarmi all'orecchio. "Pensavo di piacerti nuda e nel tuo letto."

Questa ragazza mi ucciderà. Di morte lenta e meravigliosa.

"Ed infatti ti terrei lì senza più farti andare via…" le rispondo inclinando appena la testa per avvicinarmi al suo orecchio e sfiorarlo con le labbra. Poi mi costringo ad allontanarmi dal profumo che proviene dal suo collo, prima di cambiare idea e tornare a casa per farle davvero capire quanto sono serio. "Ma ho promesso a Ric che lo avremmo incontrato per una bevuta stasera. Perciò eccoci qua."

Faccio per muovermi dall'ingresso e andare a cercare Alaric ma, come muovo un passo, la mano di Elena mi trattiene. Lei non si è mossa. Mi volto verso di lei, che mi sta guardando mezza spaesata, come se le avessi appena teso una trappola.

"Hai detto ad Alaric che io … che noi …"

Lascia andare la mia mano, ed io osservo spiazzato quella inaspettata reazione così stranita. C'è una nota di accusa nella sua voce.

"Perché lo hai fatto, perché glielo hai detto?"

"Perché, non avrei dovuto?"

"Non lo so, pensavo …"

"Cosa, che avrei tenuto te e tutto questo nascosto al mio migliore amico?"

"Beh," incrocia le braccia sul petto. "Pensavo che fossimo d'accordo sul fatto di non dirlo a nessuno."

"Tu non hai voluto dirlo a nessuno," le ricordo.

Un lampo di colpevolezza le incupisce gli occhi. E' abbastanza da mandare una fitta di realizzazione dritta ad attraversarmi il petto, perché è l'attimo in cui mi rendo conto che il chiaro carattere furtivo di qualsiasi cosa ci sia tra noi è esattamente ciò per cui ho firmato. Scuoto appena la testa per liberarla da quel pensiero e da tutti i suoi incerti sottotesti, cerco di dare retta alla mia parte più razionale, quella che mi ripete che è solo una situazione temporanea dovuta a circostanze sfortunatamente delicate.

"E' solo Alaric, Elena," le dico, più conciliante. "Nessuno a cui ti importa di non farlo sapere."

Lei si morde appena le labbra, una traccia residua di dubbio mentre sposta il peso da una gamba all'altra. Poi sospira.

"Lo so," distoglie un attimo lo sguardo e, quando torna a posarlo su di me, la colpevole esitazione di prima se ne è andata anche da lì. Per qualche motivo, non riesce del tutto a farmi sentire meglio. Sorride. "Hai ragione. Mi dispiace. Andiamo, sarà divertente passare una serata fuori."

Elena mi prende nuovamente la mano e mi invita a seguirla nel locale. Con un'occhiata noto Alaric, seduto ad un tavolino ad angolo, fare un gesto nella nostra direzione. Qualsiasi sensazione avessi pensato di avvertire pochi secondi fa la scrollo via in fretta.

E' una bella serata. Il mio amico e la mia ragazza che vanno piuttosto d'accordo e piuttosto in fretta. Ne avevo già avuto un assaggio nella notte passata insieme a New Orleans, anche se quella volta eravamo tutti fin troppo ubriachi per poter davvero contare qualcosa. Ma stasera è più o meno la stessa atmosfera, divertita e rilassata, solo con molto meno alcol.

Elena ride alle sue battute. Alaric ascolta ciò che lei ha da dire. Parlano di un libro che hanno letto entrambi. Arrivano perfino a coalizzarsi un po' contro di me su un paio di argomenti, cosa per la quale fingo di impermalirmi, ma è una finta spazzata via facilmente dalla mano di Elena stretta sopra la mia al di sotto del tavolo, e dai sorrisi con cui guarda in su verso di me.

"Ragazza simpatica," dice Alaric quando Elena si alza per andare al bagno. "Pensavo che fosse fidanzata. Cos'è successo, si sono lasciati?"

Dannato Alaric. Alla fine ce l'ha fatta a dire ad alta voce la parola che finora ero riuscito così abilmente ad evitare. Prendo in mano il mio bicchiere e mi stringo nelle spalle, guardando verso la folla.

"Lui è ad Hong Kong."

"Lo prendo come un no."

Mi volto verso di lui.

"E' solo … un po' complicato, ok? Forse non abbiamo avuto il migliore dei tempismi, ma …" inizio a dire, fermandomi però quando vedo il suo sguardo. Odio quell'espressione in faccia a Alaric. Alzo gli occhi al cielo. "Cosa?"

"Senti, lo so che non vuoi sentirtelo dire," dice lui sporgendosi verso di me. "Ma l'ultima volta che ti ho visto così sono stato trascinato in un municipio con addosso una cazzo di cravatta, e sei mesi dopo ero io quello che trascinava te, fuori dai bar, quasi tutte le notti e quasi sempre su quattro zampe. Ce ne sono voluti altri sei per farti tornare a camminare su due."

Scuoto la testa e butto giù il liquore tutto d'uno sorso. Mi brucia nello stomaco, insieme a tutto ciò che il suo discorsetto non richiesto lascia intendere.

"Non è Katherine, Ric," replico asciutto.

"No, lo so. Non lo è. Non ho mai potuto soffrire Katherine fin dal primo momento in cui l'ho vista, e dio se mi piace questa ragazza. Il che significa … che è peggio," prosegue, mentre io alzo lo sguardo e vedo Elena tornare dalle toilette. Anche Alaric la vede. Il resto della sua frase mi arriva mentre incrocio lo sguardo di Elena, e lei torna ad aprirsi in un altro accenno di sorriso, solo per me. "Ti ridurrà a pezzi. E non come Katherine, che ti sarà passata nel giro di qualche mese. A pezzi per davvero."

***


C'era un motivo per cui l'avevo sempre saputo che non avrei mai potuto essere uno dei buoni.

Voglio dire, ovviamente potevo provarci. Potevo sforzarmi di non essere sempre una totale testa di cazzo, potevo tentare di raschiare un pezzettino nello spazio riservato ai cosiddetti bravi ragazzi, ovvio che potevo farlo, e forse a modo mio davvero ci avevo provato. Ma cosa cambiava, alla fine di tutto? Niente.

I bravi ragazzi non usano le persone a loro piacimento. I bravi ragazzi non se ne sbattono di chi ci finisce in mezzo come effetto collaterale.

Potevo provare quanto volevo, ma tanto poi tornavo sempre lì, a piatte notti di luglio sui sedili della vecchia Camaro, ad approfittare delle bocche morbide di ragazze di passaggio di cui a malapena mi sforzavo di imparare il nome, benedetta sia l'estate e la quantità di famiglie con figlie a carico che ha da sempre portato in questa cittadina. Usando e andando avanti.

Avrei potuto dire che era perché, in quelle ore in cui abbassavo sedili e toglievo magliette senza neanche sapere di che colore avesse gli occhi la ragazza del caso, riuscivo almeno per un po' a mettere da parte la bruciatura che mi divorava dentro al pensiero dell'unica persona che volevo da star male, e dello sguardo nei suoi occhi quando qualche sera prima mi aveva spinto via come se fossi stato una minaccia alla sua intera esistenza. Come se davvero potessi mai pensare di farle del male.

Avrei potuto dire che era colpa di quello, ma sarebbe stata solo una facile scusa, ed io odiavo le facili scuse.

La verità, l'eterna differenza, era che mi piaceva. Mi piaceva non dovermi curare di ferire i sentimenti degli altri, e forse, ancora di più, in un modo più contorto e sottile, mi piaceva persino l'idea di infliggere almeno un po' della stessa pena, per sapere di non essere il solo a stare da cani.

Una persona in particolare stava facendo le spese di tutto questo. Perché lei era la mia valvola di sfogo, lo era stata fin dall'inizio; e perché era sempre lì, a fare finta di non sapere come passassi le notti quando non ero con lei, a rimpiazzare un buco e un posto dove non la volevo veramente. Lei volevo ferirla più di tutti.

La trovai una notte seduta sui due gradini di fronte alla soglia della dependance, in una luce fioca in cui si mischiavano quella della luna quasi piena e quella del porticato della villa a qualche decina di metri di distanza.

Una rapida fitta mi attraversò tutto quando, per un breve attimo, i fari della mia macchina illuminarono la sua figura, e la mente mi giocò il brutto scherzo di farmi vedere Elena. Ma poi i capelli più chiari e la gonna più corta sfatarono subito quell'illusione, lasciandomi ancora più incazzato con lei per cose di cui non aveva nessuna colpa.

Michelle si alzò in piedi nel vedermi scendere dall'auto. Solo quando fui più vicino, notai gli occhi gonfi di un pianto probabilmente finito solo da poco. Feci finta di non accorgermene e tirai fuori le chiavi dalla tasca.

"Lo sai che non puoi fermarti a dormire," le dissi, ribadendo una delle regole che avevo messo in chiaro fin dagli inizi della nostra storia.

"E' vero?" mi domandò con un tremolio nella voce. "Ti sei scopato Aimee Cooper?"

Mi bloccai mentre stavo per aprire la porta. Aimee Cooper non era una delle ragazze di passaggio per l'estate. Era una delle sue amiche con cui stava sempre appiccicata, quelle cose da sorellanza da prima elementare, o stronzate simili. L'avevo incontrata per caso un paio di sere prima mentre ritornavo da casa di Enzo, mi ero offerto di accompagnarla a casa, lei era stata più che felice di accettare. Il seguito è facilmente immaginabile.

"No."

"Bugiardo!" gridò dandomi una spinta così forte da farmi cadere le chiavi per terra, scoppiando in lacrime sull'ultima sillaba. "Dimmelo almeno, guardami in faccia, stronzo!" un'altra spinta contro il mio braccio, e poi un altro singhiozzo, "Bast-tardo! Trad-"

Le bloccai le mani afferrandole per i polsi prima che atterrassero con l'ennesimo violento colpo sopra la mia spalla, ed il resto della frase si perse in singhiozzi sempre più acuti.

"Stai facendo una scenata," le dissi abbassandole le braccia con una delicatezza che contrastava nettamente con la freddezza di cui invece caricai la mia voce.

Si allontanò con uno scatto.

"Era mia a-mica! M-mia amica!" mi urlò contro con forza, in mezzo ad altri singulti, ed io gettai un'occhiata verso la villa dove una luce si era adesso accesa al piano superiore. Ci mancava solo avere mio padre come pubblico. "Come hai potuto? Com-"

"Vuoi smetterla?" ribadii, "Sveglierai tutti quanti."

Si portò le mani sulla bocca e ci singhiozzò dentro, con le spalle che tremavano in scosse irregolari, i capelli sfuggiti dal cerchietto e macchie di mascara sulle guance.

Avrei dovuto provare pena per lei. Dopotutto, mi piaceva questa ragazza. Ci eravamo divertiti insieme, e alla fine, in qualche modo, le avevo perfino voluto bene. Avrei dovuto ricordare tutto quello e provare pena per lei e disgusto per me stesso che l'avevo ridotta così, ma non ci riuscivo. Non provavo niente.

Riuscivo a pensare solo a quanto fosse patetica lei a stare male per me, e patetico io a stare male per un'altra. Patetici entrambi, ecco cosa eravamo.

"Perché?…" mi domandò piano quando riuscì a calmare il pianto abbastanza da poter parlare di nuovo. "Perché lei, perché lo hai fatto, perché …"

Mi strinsi nelle spalle. "Mi andava."

"Dio, sei un bastardo," rispose, scossa da un altro singulto, meno rabbioso, più disperato. "Ed io pensavo … pensavo … Perché mi hai fatto questo?" Alzò il volto verso di me, gli occhi allargati e bagnati, le labbra tremanti e piene di pathos. "Io ti amo."

Cristo, pure questa adesso. Avrebbe dovuto impressionarmi, farmi sentire uno schifo? O magari, farmi gettare in ginocchio ed implorarla di perdonarmi? Sì, beh, nessuna di queste.

"Oh, ma per favore," risposi con una smorfia, "Finiscila e basta, ok?"

La sua mano aperta mi colpì la guancia. Forte, ma non abbastanza da procurarmi poco più che un diffuso pizzicore. Insomma, pure lo schiaffo fu patetico. Neanche quella soddisfazione. Poi corse via, e la sentii ricominciare a piangere mentre si dirigeva verso la propria auto lasciata fuori dal cancello.

Mi piegai per riprendere le chiavi cadute e chiusi pure quel capitolo, con una scrollata di spalle che mandò via anche quella fastidiosa sensazione di nausea e rimorso che stava minacciando di prendermi lo stomaco. L'avevo distrutta di proposito, perché io ero distrutto, e neanche mi importava.

Eccola l'eterna differenza.


***


Non dovrei neanche stare a pensarci. A fidanzati all'altro lato del globo, o matrimoni che nessuno ha ancora annullato.

Non dovrei, perché Elena è qui, ed è con me, tangibile quanto il suo odore tra le mie lenzuola al mattino, la pelle calda sotto alle mie mani, o il modo in cui socchiude leggermente gli occhi quando ride, ride per davvero. E se tutto questo è reale, perché dovrei dubitare che lo sia anche il resto. Che tutto questo significa qualcosa, e che non è solo una distrazione momentanea, un momento di pazzia al grido di nessun rimpianto, l'ultima boccata d'aria sulla strada verso il felici e contenti insieme a qualcun altro.

Non ho intenzione di dare ascolto ad un dubbio tanto subdolo. Ma è lì. Pronto a venire in superficie nei più piccoli momenti, rapida e dolorosa puntura che arriva, colpisce e se ne va, almeno fino a quando non si ripresenta di nuovo.

Elena non torna più sul discorso iniziato accidentalmente e poi rapidamente messo da parte ieri sera, prima di incontrare Alaric. Io nemmeno. Raccontandoci che va bene così, che non c'è nessuna fretta di farlo, senza sapere se è perché ci crediamo davvero o più per le conseguenze a cui una simile discussione potrebbe portare.

"Quindi, ho preso del sushi per cena, perché lo so che non mi lasci avvicinare ai fornelli, e mi sento in colpa a far cucinare sempre te," annuncia Elena, entrando in casa e sventolando in alto una busta bianca di cartone con su scritto "Kabuto, Ristorante Giapponese".

Seduto su uno sgabello al bancone della cucina, sollevo la testa dalle ultime email di Alaric, e spalanco stupito lo sguardo quando la vedo. Elena posa la busta sul bancone, gira la testa di lato, scuote un po' i capelli con fare volutamente teatrale.

"Perciò se non hai niente in contrario, o altri commenti da fare …"

Sorrido e allungo una mano per afferrarla per la vita e attirarla verso di me. Seppellisco le labbra nelle nuove onde un po' scalate che movimentano i suoi capelli, e sento che sorride anche lei mentre le sussurro lasciandole piccoli baci sul collo, "Non saprei, sono troppo distratto dal nuovo sexy taglio di capelli di qualcuno."

Sposto la bocca lungo tutto il suo profilo, e poi a cercare la sua. Una ciocca di capelli le cade in avanti, ci finisce in bocca, ed Elena si scosta per soffiarla via scocciata. Io allungo le dita per metterla al suo posto, questo ciuffo scuro che, nuovo taglio o no, continua sempre e comunque a scivolarle sugli occhi. E' la cosa più adorabile di sempre, e amo il fatto che non sia affatto cambiata.

"Come è andata la tua giornata?" mi chiede Elena intrecciando le mani dietro alla mia nuca.

"Mmh … " Le rubo un altro bacio veloce. Ed un altro. "Bene. E la tua?"

"Molto …" Ride quando la interrompo per un altro bacio al volo. "… bene. Vuoi sapere cosa ho fatto oggi?" mi chiede sciogliendosi dalla mia presa sui suoi fianchi per andare a tirare fuori la cena dalla busta di carta.

"Dimmi."

"Sono stata a Berkeley."

La aiuto a togliere il coperchio dai due vassoi di sushi, spezzo le bacchette e gliene passo un paio.

"Davvero? Perché?"

"Non lo so …" si stringe nelle spalle e si appoggia con il gomito sul bancone, esaminando il cibo ma senza ancora toccarlo. "Ho pensato che dal momento che ho detto che sarei andata lì e che Jeremy si trasferirà tra poco … Non so, tanto valeva andare a vedere di che si tratta, no? Ovviamente il campus era mezzo deserto dato che non ci sono corsi, ma c'era questo orientamento per nuovi arrivati, fatto da questa gentilissima professoressa di antropologia, così … abbiamo parlato un po', ho fatto un giro. Mi hanno anche dato l'orario dei corsi per il prossimo semestre, ti immagini?"

"Wow," commento.

Elena solleva esitante lo sguardo. "Non ridere di me."

"Non lo sto facendo," dico serio, porgendole un maki con le mie bacchette. Accenna un sorriso e si avvicina per mangiarlo.

"Ti capita mai …" prosegue poi, appuntandosi i capelli dietro l'orecchio, " … di rimpiangerlo? Sai, il fatto di non essere andato al college?"

"No," rispondo, mentre prendo un pezzo di salmone. "Ma a te sì."

"Io … Beh, sì, forse, ma è stupido," scuote la testa e torna a tormentare il povero sushi con le sue bacchette. "Voglio dire, non posso tornare indietro nel tempo."

"Puoi sempre farlo adesso."

Piega le labbra in una vaga smorfia. "Forse in college comunitari per divorziate di mezza età e avvocati senza licenza [1], dubito che università vere mi accetterebbero di nuovo con sei anni alla gestione di un bar come unica credenziale. Andiamo, Damon, non sono una diciottenne fresca di liceo."

"E quindi? Non puoi dirlo senza averci provato. E poi, pure Jeremy sarebbe qui. Beh, dall'altra parte della baia, ma è pur sempre meno lontano che dall'altra parte del paese. Potresti essere vicino a lui, e anche a me."

Cazzo. Mi blocco con le bacchette a mezz'aria, nell'atto di prendere un altro pezzo di sushi, quando mi rendo conto di ciò che le ho appena detto. Ottimo lavoro, Damon, ottimo lavoro davvero, già che ci sei perché non chiederle anche di venire a vivere qui, tanto non avete passato insieme a malapena cinque giorni e lei non ha un fottuto matrimonio tra tre settimane. Realizzo che cazzo di errore sia stato nel momento in cui sollevo gli occhi e vedo quella frase imprimersi nel suo sguardo, nel modo in cui cambia la sua espressione.

Socchiude le labbra ma non risponde. Restiamo ad osservarci in un lungo, incerto momento di silenzio, in cui la mia gola si fa più spessa per il desiderio impellente di poter ringoiare quelle ultime dannate parole insieme a tutte le prospettive di lungo periodo che hanno implicato e che era tacito accordo non nominare.

"Damon …" comincia a dire.

Il suo telefono, appoggiato sul bancone, squilla in quell'esatto momento.

Il nome di Elijah salta su nel display, accompagnato da una deliziosa miniatura di loro due insieme, abbracciati, che è la ciliegina sopra il pugno alla bocca dello stomaco che arriva dritto e preciso nell'attimo in cui il mio sguardo ci si posa sopra. Elena allunga le dita per prenderlo in mano, assestando il colpo numero due.

"Mi dispiace, devo … Devo rispondere."

Evita il mio sguardo, mormora un "pronto" mentre si allontana di qualche passo per avvicinarsi alla finestra che guarda sul terrazzo.

"Niente," risponde, giocherellando con una tenda, "Stavo solo cenando velocemente prima di tornare a lavoro."

C'è un tale silenzio, nell'appartamento, che riesco a sentire piuttosto distintamente la replica perplessa di Elijah, dall'altro lato della linea.

"Così tardi? Non è già mezzanotte da te?"

Promemoria per Elena. Se racconti balle al tuo fidanzato, assicurati almeno di azzeccare il giusto fuso orario.

"Sì, io … intendevo …" farfuglia, mi getta uno sguardo veloce.

L'espressione di deplorazione per se stessa che intravedo quando lo fa è peggiore di tutte le foto della coppietta felice che possono esserci là fuori.

Si volta di nuovo dall'altra parte, apre la finestra scorrevole, ed esce sul terrazzo.

Vengo lasciato ad osservarla attraverso il vetro, senza riuscire a sentire una sola parola. Abbassa gli occhi, picchietta la punta della scarpa sul pavimento, non smette di tormentarsi un paio di ciocche di capelli. Quando riattacca, temporeggia qualche secondo invece di tornare subito dentro.

Getto le bacchette da sushi sopra il bancone, sopra una cena praticamente ancora intatta. Una delle due rotola via, fino a cadere per terra dall'altro lato. Improvvisamente, mi è passato tutto l'appetito.


"Scaricato," sentenziò Enzo, stravaccato all'altro lato del divano, allungando un braccio di lato per passarmi ciò che rimaneva della canna tra le sue dita. "Ripetilo un'altra volta, insieme a me. Sei stato sca-ri-ca-to."

Mi rivolse un ghigno, mentre gliela sfilavo di mano. Diedi un tiro, appoggiai la nuca all'indietro contro la spalliera, e soffiai il fumo verso il soffitto, grato che il torpore nel mio cervello fosse già abbastanza piacevole da non farmi degnare di dare una risposta alle sue stronzate, perché non sarebbe stata gentile.

"Neanche una scopata di addio?"

Il solo pensiero, considerate le circostanze, era così assurdo che sentii una risata, amara e artificiosa, salirmi su dalla pancia insieme alla mia risposta. "Decisamente nessuna scopata di addio."

Tre colpi contro la porta mi fecero raddrizzare la testa di scatto. Ci misi alcuni secondi per processare la mossa successiva. Tre nuovi colpi.

Bofonchiai un'imprecazione tra i denti e mandai frettolosamente il mozzicone a fare compagnia agli altri già ingialliti sul fondo della tazza scheggiata che stavamo usando come posacenere improvvisato. La nascosi alla vista infilandola nello piccolo spazio dietro al divano, e diedi un colpetto sulla spalla di Enzo, indicando ciò che era rimasto sul tavolino.

"Fai sparire."

Con la testa ancora frastornata per essermi alzato troppo rapidamente, spiai al di là della finestra per vedere chi fosse venuto a rompere le palle. Mio fratello era in piedi davanti alla porta con le mani affondate nelle tasche.

"E' solo Stef," dissi ad Enzo, che quindi lasciò l'erba esattamente lì dove si trovava, e tornò ad allungarsi scompostamente sul divano.

"State fumando erba?" fu la prima cosa che mi domandò Stefan non appena mise piede dentro, annusando l'aria e corrucciando la fronte in un modo molto da Stefan. "Qui, in casa sua? Papà ti ammazza se lo viene a sapere."

Mi buttai di nuovo a sedere, incrociando i piedi sul tavolino, scrollai le spalle.

"Chi se ne frega."

"Ciao, Stefan!" esclamò Enzo alzandosi in piedi ed allargando le braccia, con fare entusiasta. Mio fratello lo scrutò con diffidenza, mentre il mio amico gli passava accanto per dargli un paio di sonore pacche sulla spalla. "Come va la vita? Aspetta," si sporse in avanti come per osservarlo meglio e più attentamente. "E' barba quella che finalmente ti sta spuntando in faccia? Nah, scusa, era solo un riflesso."

Gli diede un buffetto da cui mio fratello si scansò infastidito. Io sogghignai, incapace di controllarmi. Stefan mi gettò un'occhiata offesa.

"Non è divertente."

Lo era.

"Vuoi una birra, Stefan?" domandò Enzo aprendo il frigo. Ne tirò fuori una bottiglia che si mise a scrutare con particolare attenzione. Poi gliela porse con un sorriso a trentadue denti. "E' una chiara. Sai com'è, io adoro le bionde. Ti piacciono le bionde, Stefan?"

La faccia di mio fratello raggrinzì ulteriormente, in quell'espressione mezza perplessa e mezza giudicante che può avere solo chi non riesce a seguire le logiche di chi è del tutto fatto.

"No, grazie," scosse la testa, tornò a rivolgersi a me. "Stai bene? Sono passato al negozio, non c'eri. Rose mi ha chiesto come sta il tuo virus intestinale, non ti vede da due giorni, e mi sono preoccupato, ma chiaramente …" indicò il casino di bottiglie e tabacco che ingombrava il tavolino, "… era una stronzata. Cosa stai facendo, Damon?"

"Ah, l'eterna domanda!" esclamai con calcata enfasi. "Cosa facciamo? Chi siamo? Dove andiamo? Cos'è l'esistenza se non un'infinita sequenza di insignificanti eventi destinati a ripetersi?"

Enzo, appoggiato in avanti con i gomiti sul bancone, scoppiò a ridere, e bastò quello per trascinarmi di nuovo a sghignazzare insieme a lui. Stefan strinse sia la mascella che i pugni nelle tasche.

"Ce la fai ad essere serio per un momento?"

"E tu ce la fai a non essere sempre così un dito al culo?"

"Sai cosa?" sbottò lui. "Vaffanculo."

"No, fanculo te, Stef!" gli gridai dietro, mentre lui se ne andava sbattendo la porta dietro di sé.

Enzo mi porse una delle due bottiglie aperte che aveva preso dal frigo. Lo afferrai con uno scatto in avanti, buttai giù una lunga sorsata insieme alla frustrazione e all'auto-commiserazione che adesso grazie a Stefan erano tornate a mettersi di traverso sulla gola. Grazie, fratellino, per aver rovinato una altrimenti perfettamente piacevole giornata priva di pensieri.

Allo schiocco della porta lasciato da mio fratello, seguirono interi minuti di silenzio. Fissai lo sguardo su una venatura del legno vecchio e macchiato del tavolo, estraniandomi completamente.

Poi  Enzo disse, "E' colpa sua. Dovrebbe saperlo, di non andare a fare la lagna con qualcuno che è appena stato scaricato."

"Non sono stato scaricato," replicai sovrappensiero, senza staccare gli occhi da quella dannata riga più scura in mezzo al legno. "Non siamo mai stati insieme. Non c'è mai stato niente. Niente … Adesso è solo chiaro che niente mai ci sarà."

"Per via di quell'insulso palestrato con cui sta? Ma per favore."

"No," dissi, sbattendo le palpebre. Magari fosse stata colpa di Donovan. Sarebbe stato molto più facile. "Sono io. Sono io che non sarò mai la persona che vorrebbe lei."


Apro la finestra a scorrimento e mi appoggio con una spalla contro lo stipite della soglia. Elena mi ha sentito arrivare, ma il suo profilo continua a rimanere voltato in avanti, verso il buio che inghiotte la baia.

"Stai bene?" le chiedo.

Ci provo, ci provo davvero a non metterci dentro quell'indefinito miscuglio amaro che mi si è piantato sullo stomaco fin dallo squillo promemoria su cosa esiste al di fuori de "Le avventure di Elena e Damon a San Francisco", ma nel mio tono un accento di durezza ci finisce lo stesso.

Elena scuote la testa. "Gli ho mentito in faccia. A qualcuno che mi ama, e si fida di me, una menzogna dopo l'altra. Che tipo di persona fa una cosa del genere? No, non sto bene."

"Quindi ne deduco che non avete avuto quella conversazione sul fatto di rimandare la data a, non so … mai più?"

Lei serra strette le labbra, non sembra divertita dalla mia battuta. Non lo sono neanche io. Il suo silenzio dovrebbe essere indicazione sufficiente, ma quel miscuglio sul mio stomaco vuole farsi del male e vuole sentirselo dire da lei.

"Hai intenzione di dirglielo, prima o poi?"

Si volta finalmente verso di me, ha lo sguardo lucido di colpa e di accusa.

"E' dall'altro lato del mondo, cosa dovrei fare? Spezzargli il cuore, mandare tutto all'aria per telefono? Penso di dovergli un po' più di questo."

"Bene. Lasciami riformulare, allora. Non al telefono, hai intenzione di dirglielo? Va meglio così?" domando con un leggero sorriso sarcastico.

Mi osserva con gli occhi appena spalancati e le labbra socchiuse in quella leggera smorfia incredula che ha quando le piace accusarmi di fare lo stronzo insensibile. Scuote la testa tra sé e sé, si volta dall'altra parte.

"Non lo so cosa ho intenzione di dirgli," replica. "Forse lo saprò quando lo rivedo."

Stringo le labbra e accuso il colpo, preciso e puntuale, di un altro non lo so.

"Capisco."

Mi stacco dallo stipite e mi giro per tornare dentro, perché oltre a questo non vedo cosa altro cazzo ci sia da dire, ma la mano di Elena mi afferra subito l'avambraccio per farmi voltare di nuovo verso di lei.

"Non intendevo dire che …"

"Cosa?" ribatto, liberandomi della sua presa, "Che stai ancora pensando davvero di sposarlo?"

Gli occhi le si allargano, offesi e feriti dalla mia accusa.

"Non ho detto questo!"

"No, ma lo pensi," le dico avvicinandomi di un passo, fino a che il mio volto non è che a pochi centimetri dal suo, fino a che non sento io stesso tutta la frustrazione trattenuta riversarsi nel mio tono di sfida. "Dimmi che non c'è neanche una piccola, minuscola parte di te che sta ancora considerando la cosa."

"Io … i-io…" Scuote la testa, preme i palmi sugli occhi in un moto esasperato e, quando parla di nuovo, la sua voce si rompe in una così fragile e intensa che, da qualche parte dentro di me, finisce per spezzare qualcosa anche lì. "Ho cercato così a lungo e così duramente di dare una direzione alla mia vita, una direzione qualsiasi, e poi tutto è cambiato e io … Non riesco neanche a pensarci, Damon! Tornare e affrontare tutto quanto, e le persone a cui sto facendo del male, e cosa farò adesso … E mi sento così egoista e ingiusta, per essere così felice, di essere qui con te e di non riuscire a pensare a nient'altro," prende un profondo respiro, cerca il mio sguardo. Finisce con quello che è poco più di un sussurro, "Non riesco a pensare a nient'altro."

Curva appena le labbra, dopo averlo detto, e il conflitto in quell'accenno di sorriso, e negli occhi che nella penombra sono perfino più scuri, e il modo in cui mi spiazza sempre, è a questo che dò la colpa per il fatto di sentirmi sempre così fottutamente debole di fronte a lei. Ancora di più quando allunga incerta la mano per posarla sulla mia guancia, e appoggia piano il volto contro il mio, anche mentre io rimango perfettamente immobile.

"Non può essere abbastanza?"

Vorrei poter rispondere di sì, dio solo sa quanto lo vorrei, perché forse lo è, almeno per un altro momento, o un'altra notte. Ma rimango in silenzio, mentre la punta delle sue dita mi accarezza il viso, mentre si sporge sulla punta dei piedi e inclina il volto di lato, mentre le sue labbra mi sfiorano esitanti. Sull'angolo della bocca, sulla fossetta appena sotto il labbro inferiore, sull'altro angolo, ancora e ancora, ogni sfioramento leggero che preme sempre più pesante sul mio petto, soffocandomi a poco a poco.

"Elena …" cerco di dire, posando la mia mano sulla sua ancora premuta sulla guancia, per stringerla appena.

Perché lo so che in un secondo la farò allontanare, perché ho capito quello che lei ancora non vuole ammettere, e non ho intenzione di giocare a questo perverso castello di bugie. Non quelle che racconta al suo fidanzato, che può andarsene a fanculo esattamente dove è adesso per quel che me ne frega, ma quelle con cui continuiamo a prenderci in giro che tutto questo possa davvero andare da qualche parte, come se non fossimo entrambi completamente fottuti dentro come siamo, come se non lo fossimo sempre stati tanto per cominciare.

Ma Elena mi mette a tacere con un altro bacio, premendo fermamente le labbra sulle mie, con la tenacia e l'urgenza di chi non vuole lasciar andare. Ed io mi arrendo. L'ho detto che sono fottutamente debole.

Circondo con una mano la sua nuca, con l'altra il suo fianco, cedo e prendo con la stessa tenacia e la stessa urgenza. La spingo dentro casa, inciampando appena sulla soglia che delimita il terrazzo, e contro la prima parete che trovo, quella accanto alla vetrata. Elena sospira quando lo faccio, tirandomi la maglietta con le sue mani sottili, e sento anche i denti nel modo in cui mi bacia, denti e lingua e gemiti e bisogno. Restituisco con la stessa combinazione, dolorosamente duro contro la cima delle sue cosce, e so che ci sono un milione di cose che le direi in questo momento e che non le dirò mai.

Dobbiamo smettere, adesso, e chiarire una volta per tutte, mentre mi sfila la maglietta, e percorre la mia schiena con i palmi e con le unghie.

Non sposare quel coglione, mentre le abbasso la canotta intorno ai fianchi e piego la testa per arrivare con le labbra alle morbide curve del seno, tracciarle tutte con la lingua.

Sono felice anche io, e cristo se dovrebbe essere abbastanza, ma per qualche dannata ragione non lo è, mentre faccio saltare aperto il bottone dei suoi shorts e questi cadono intorno alle sue caviglie.

Elena li calcia via, la faccio voltare, appoggia una mano per sorreggersi alla parete adesso davanti a lei. La copro con la mia, e lei ci intreccia le dita così strette da non farmi arrivare il sangue alle nocche, respirando affannosamente mentre con labbra e lingua percorro tutta la curva delle spalle, e poi quella del collo, serrando più stretta la presa sulla mia mano quando con l'altra le accarezzo l'addome e vado ad affondare le dita dentro le sue mutandine. E' incredibilmente calda e bagnata, e respiro più affannosamente anche io, e mi perdo nel suo sciogliersi sotto alle mie dita, nel suo inclinare la testa per cercare la mia bocca, nel leggero cedimento che hanno le sue ginocchia.

E' maledettamente intenso quando entro in lei, e solo poco dopo la sento tremare ovunque, le mie gambe incerte pure loro. Abbandono esausto la testa nell'incavo della sua spalla e la circondo con entrambe le braccia. Stringe stretto anche lei, fino a che non so più chi si stia davvero aggrappando a chi. Torno a baciarla prima ancora di aver del tutto ripreso fiato, piano, sfiorandola ovunque con le labbra, schiena, spalla, collo.

Poi sulla sua guancia. La trovo umida, e leggermente salata.


***


Non dormo, quella stessa notte. Rimango sveglio, sdraiato sulla schiena, per quella che mi appare davvero come un'infinità di tempo, Elena raggomitolata contro di me con la testa posata sopra al mio torace nudo. Penso che non stia dormendo neanche lei, la presa del suo braccio attorno alla mia vita è troppo salda per qualcuno addormentato, ma fa finta di sì, ed io glielo lascio fare.

Non può essere abbastanza? è un disco rotto dentro al mio cervello.

Si intromette in ogni sprazzo di sonno frammentario in cui cado senza rendermene conto, un assopimento inquieto in mezzo al quale ci finisce pure mio padre, che mi ritrovo vivo e vegeto a San Francisco, intento a riprendersi in mano la mia vita e rimpiazzarla con Elijah, perché per qualche motivo ho mandato tutto a puttane e lui deve rimettere le cose a posto per me. Mi sveglio di soprassalto, con il cuore che martella contro le costole.

Mi volto verso Elena, adesso davvero addormentata con un braccio attorno al cuscino, le quattro e ventisette sul display del cellulare. Lentamente, mi alzo stando attento a non svegliarla.

In soggiorno, mi verso un bicchiere del bourbon più forte che ho, e mi siedo nella penombra per confrontare e fuggire il fantasma del pezzo di carta che sono andato a riprendere dal fondo del cassetto in cui l'avevo cacciato, e che adesso mi fissa dalla superficie del tavolo sul quale l'ho gettato. E' qualcosa che non facevo da giorni, da quando ho lasciato Mystic Falls insieme a Elena.

Sollevo lo sguardo quando alcuni passi leggeri fanno scricchiolare appena il parquet. Elena, scalza e in piedi sulla soglia che apre sulla camera, si passa una mano tra i capelli lasciati sciolti, facendoli ricadere di lato sulla spalla.

"Mi sono svegliata e tu non c'eri," dice piano.

Distolgo lo sguardo, mi rigiro in mano il bicchiere che ancora non ho toccato.

"Non riuscivo a dormire."

Si avvicina, mi accarezza con la mano sulla spalla nel passarmi accanto, prende la sedia accanto alla mia. Lei osserva me, io osservo il bourbon.

"E fissare un pezzo di carta ed un bicchiere di whisky aiuta?"

"Non proprio."

Indica con un cenno della testa la lettera che giace immobile sopra al tavolo.

"E' per caso la stessa che avevi a New Orleans? Di tuo padre?"

Annuisco, mentre alcune luci provenienti da fuori rompono brevemente la semioscurità della stanza e le passano sul viso illuminando la sua espressione interrogativa.

"Perché non la leggi e basta?"

Corrugo la fronte, soppeso la sua domanda. Esito un secondo, prima di dirlo ad alta voce.

"Mi odiava."

"Non ti odiava."

Forse. Ma se fosse stato ancora così? Ed avesse voluto ribadirlo una dannata ultima volta. La cosa più folle è che sono passati anni. E' morto, cazzo, a marcire sotto terra, e non dovrebbe neanche più avere nessuna importanza. Scuoto la testa.

"Non puoi saperlo."

"Sì, invece, lo so," si sporge verso di me, mi sfiora gentilmente le dita, ed infonde nel suo tono quella dolcezza piena di comprensione che mi ricorda perché sono sempre stato destinato ad essere così fottuto quando si tratta di lei. "Per come l'ho conosciuto, tuo padre non era uno in grado di odiare il proprio figlio."

Oh, giusto. La sua tardiva confidenza con mio padre, le chiacchierate in cui io non ero incluso, avergli presentato il nuovo fidanzato appeso al braccio. Come se avessi davvero voglia di stare a sentire anche solo una parola su tutto questo.

"E tu pensi di conoscerlo perché?" domando storcendo le labbra, "Perché parlavate del tempo mentre gli servivi i pancakes?"

Elena si irrigidisce, ed un moto ferito le guizza negli occhi quando incrocio il suo sguardo. Mi fa sentire uno schifo per averlo detto.

"Non c'è bisogno di essere cattivo," replica lei.

Ha ragione. Sono io che a volte non riesco a farne a meno.

Allungo le dita verso la sua mano sopra al tavolo, e la prendo tra la mia, per chiederle scusa. La carezzo lentamente, per un lungo momento di silenzio.

Lei la stringe appena. "Puoi parlare con me, Damon."

Lo so. Quello che non so è come la prenderebbe.

Mi alzo in piedi, le poso un bacio sulla fronte. "Magari un'altra volta."


Quando mio padre diceva di "dovermi parlare", era un istinto automatico chiedermi cosa diavolo avessi fatto questa volta. In quel caso, quando lo avevo incrociato per caso fuori dall'ingresso mentre, appena tornato, chiudeva con un clic del telecomando la sua berlina, la prima cosa che avevo pensato era stata che Stefan avesse vuotato il sacco, sia sul fatto di aver saltato il lavoro il giorno prima, che sulle attività alternative su cui avevo ripiegato.

La villa era immersa nell'ombra quando entrai, solo piccole strisce di luce a filtrare dalle fessure delle imposte, tutte serrate per tenere fuori l'afa umida delle estati in Virginia, lo stesso buon odore di sempre. Fresco e pino e infanzia. Avevo ignorato la sensazione, e seguito mio padre nello studio in cui era andato a posare le sue cose.

"Quindi," esordì posando la giacca sopra una sedia ed arrotolandosi sui gomiti la camicia stropicciata dalla giornata. Mi misi a sedere, volutamente scomposto, con una caviglia posata sul ginocchio opposto. "Il mese prossimo, c'è una cena a casa del governatore, durante la quale annuncerà il suo supporto alla mia candidatura alle primarie per le prossime elezioni. Ci sarete anche tu e Stefan. E mi aspetto," mi strappò dalle mani la spillatrice che avevo preso dalla scrivania, con cui stavo giocando a farle prendere a morsi l'aria, "Che ti impegni per fare una buona impressione."

"Fammi indovinare. Vuoi mostrare un po' di quei famosi valori famigliari dei Salvatore in cui siamo così bravi?" dissi facendo il gesto della pistola con due dita e strizzando l'occhio nella sua direzione.

"Sono serio."

"Anche io," sorrisi, prendendo in mano una penna a sfera. "Ci sarà anche Charlotte? Potrebbe essere un'occasione carina per riunire tutta la famiglia, non credi?" Spalancai lo sguardo e la bocca, come se fossi appena stato colpito da un'idea geniale. "Magari possiamo invitare anche il suo nuovo ragazzo! Ha ventotto anni, fa l'insegnante di yoga. Sarebbe divertente e … Niente. Affatto. Imbarazzante."

Sottolineai la mia frase con un paio di clic della penna, e mantenni intatto il mio sorriso anche di fronte a quell'espressione che gli prendeva sempre la faccia al sentir nominare Charlotte, quel misto di amarezza e risentimento velocemente trasformato in qualcosa di più duro e più freddo.

"Incasinami questo, Damon, e scoprirai di non avermi mai visto incazzato."

Mettendo su la mia migliore espressione seria, feci un veloce, sarcastico gesto da "agli ordini sissignore" con la mano sulla fronte.

"Mi hanno detto che hai rifiutato Dartmouth," proseguì incrociando le braccia sul petto.

"Già," confermai, iniziando a far cliccare la penna più sonoramente contro la superficie del tavolo.

"Perché?"

"Quale parte," replicai, alzando su di lui uno sguardo interrogativo, "di ´Puoi prendere Dartmouth  ed infilartela dove sai bene` non ho reso abbastanza …" un altro, più violento, clic per guadagnare abbastanza slancio, "chiara?"

La penna saltò via dal tavolo, disegnò un arco curvo nell'aria davanti alla sua faccia, e rotolò sul pavimento con un tintinnio plasticoso.

Il suo cellulare suonò. Lo tirò fuori dalla tasca gettandomi un'occhiata accesa di irritazione a malapena trattenuta.

"Resta qui," mi avvertì mentre si preparava a rispondere. "Non ho ancora finito."

Roteai gli occhi al soffitto mentre lui lasciava la stanza, mi alzai per andare a raccogliere la penna che avevo fatto saltare dall'altro lato della scrivania. Quando mi sporsi per prenderla, qualcosa tra i documenti sul tavolo, un nome, attirò la mia attenzione. Corrugai la fronte, gettai un rapido sguardo oltre la porta. Mio padre era ancora al telefono.

Sfilai attentamente la cartella dalla pila in mezzo alla quale si trovava, la aprii.

Scorsi velocemente tra i fogli al suo interno, tra i numeri, i nomi e le note, che però non mi aiutarono a dare senso alla cosa né tantomeno a rispondere alla domanda principale: cosa diavolo voleva mio padre dal Mystic Grill?

Lo sentii salutare ed essere sul punto di chiudere la telefonata, così richiusi tutto in fretta e lo rimisi al suo posto. Mi infilai le mani in tasca e mi appoggiai in piedi contro la scrivania, nello stesso attimo in cui rientrava. Mi gettò uno sguardo cauto, ma non disse niente.

"Quindi," domandai, "Hai finito, posso andare?"

"Solo una cosa," disse, infilandosi il telefono e le mani in tasca. Mi guardò dritto negli occhi. "Hai tempo fino alla fine dell'estate, per decidere una volta per tutte se intendi ciondolare a vita in un negozio di musica e ai bordi di questa casa, o combinare finalmente qualcosa di serio. Poi, se non è così … dovrai trovarti un altro posto dove stare."


***


Esco presto al mattino dopo, quando Elena dorme ancora.

L'intera giornata la impiego tenendo fede alla mia promessa verso Stefan di aiutarlo a togliere la compagnia dall'orlo della bancarotta, cosa che se non altro mi aiuta a restare concentrato su qualcosa e a non lasciare vagare la mente verso altri generi di pensieri. Questo implica passare ore appresso a tale Kai della Gemini Co., giovane quanto insopportabile venture capitalist multi-milionario che però al momento rappresenta la migliore possibilità che abbiamo. Gli parlo del piano di ristrutturazione messo in piedi da mio fratello prima che Elijah lo spedisse dentro al cesso, e di tutti i benefici che gli aprirebbe il fatto di investire in una compagnia finanziaria della Virginia con connessioni ben oliate dentro Washington, il tutto mentre giochiamo a mini-golf in un percorso costruito appositamente al ventesimo piano dei quartieri generali della sua compagnia. Lo lascio vincere ma giocando con abbastanza impegno da fargli credere di esserselo effettivamente meritato, e quando si mostra convinto, so che se anche mio fratello ha giocato bene le sue carte, quelle più diplomatiche e concilianti in cui è tanto bravo, abbiamo davvero una possibilità di riuscire in ciò che ci siamo proposti. E' sempre abbastanza un azzardo, e portare dentro un ragazzino viziatello che ha fatto le prime fortune investendo in videogiochi online non è esattamente ciò che il caro vecchio papà avrebbe considerato in linea con la sua visione delle cose, ma in un certo senso il pensiero di quanto una cosa del genere lo manderebbe in bestia dà a tutto un certo gusto aggiunto.

Elena non è a casa quando ritorno, sul finire del pomeriggio. Un paio di ore fa, un suo imperscrutabile messaggio mi ha fatto sapere che Sono uscita a fare due passi, ho pensato molto. Dobbiamo parlare. Stasera?. Le due temibili parole, dobbiamo parlare. Per qualche motivo, non mi piace l'idea di dove tutto questo stia andando a parare.

Prendo il telefono, chiamo Stefan per tenerlo aggiornato con gli ultimi sviluppi.

"Kai è nostro," gli faccio sapere. "Ancora poco, ed avrai una compagnia di nuovo senza debiti, un consiglio più fedele, e nessun direttore finanziario a metterti i bastoni tra le ruote. Contento?"

"Ho incontrato Fairchild oggi, ed ho il suo voto. E' rimasto solo Cartwright, ma non dovrebbe essere un problema. Se saprà che tutti gli altri sono d'accordo, non si arrischierebbe mai a restare fuori e non avere la sua parte. E' solo che …"

"Cosa?" chiedo, mentre mi tolgo la camicia e la butto sopra il letto.

So riconoscere la puzza della coscienza di mio fratello anche da tremila miglia di distanza.

"Ho ricevuto l'invito per il suo matrimonio oggi. Il che mi ricorda che si sta sposando la migliore amica della mia ragazza, e che continuerò ad averci a che fare. Tutto ciò prospetta per future feste di compleanno abbastanza strane. Caroline non sarà contenta, lo sai quanto ci tiene alle feste di compleanno. Mi sento un pessimo individuo."

Alzo gli occhi al cielo, perché Stefan era stato il primo ad essere d'accordo con tutto. Portare dentro Kai, e con lui portare i soldi. Io che prometto di non interferire e starmene defilato, lasciando che il molto più benvoluto Steffy sia quello ragionevole intento a portare avanti l'eredità del nome Salvatore. Il nome rimane, il consiglio è felice, e possono finalmente andare a mettere la caparra per quella barca che li farà sentire per un altro po' dei giovani capitani di ventura. In cambio di questo, acconsentono a cambiare un po' di cose e far fuori Elijah con un voto a sorpresa. Facile e indolore, è il compromesso in cui vincono tutti.

Ma no, oggi è una di quelle giornate in cui Stefan deve sentirsi una pessima persona.

"Ti passerà, fidati," replico, ingoiando il gusto acido che mi ha riempito al bocca al solo sentir nominare il matrimonio del secolo. Apro l'armadio per prenderne una maglietta pulita.

"Ciò non toglie che mi sembra una mossa poco corretta nei suoi confronti, ciò che stiamo facendo."

Sento chiavi girare nella porta. Mi sbrigo a spazzare via i suoi residui di scrupoli prima che si metta davvero a ripensarci, condannandosi ad anni e anni sotto la presa di Elijah.

"Se l'è cercata lui il giorno in cui ha deciso da solo che i suoi metodi più sicuri erano migliori dei nostri. Impiegheresti anni a tornare in sesto, lasciandolo fare, e lo hai detto tu stesso che lo trovi impensabile," gli ricordo. "Forse un voto a sorpresa non è il modo più gentile per sbattere fuori qualcuno, ma è così che funzionano le cose. Papà dovrebbe avertelo insegnato."

"Parli come lui."

Mi blocco con le maniche della T-shirt infilate per metà. Alzo lo sguardo verso lo specchio a figura intera nell'anta interna aperta dell'armadio, e vedo la mia faccia cambiare per lo strano pugno che hanno appena assestato le sue parole inaspettate. Ma non ho tempo di stare a chiedermi se abbia o meno ragione. Dietro a me nello specchio, sulla soglia della stanza, Elena incrocia le braccia sul petto ed inclina la testa con fare interrogativo.

"Ti richiamo, Stef," mi affretto a riattaccare.

Entra in camera, mentre io getto il telefono sul letto e finisco di infilarmi la maglietta.

"Di cosa stavi parlando?" mi chiede.

"Aggiornamenti fraterni," rispondo con un sorriso veloce.

Mi avvicino, mi sporgo per darle un bacio. Elena fa un passo indietro, mi scruta con sospetto.

"Hai per caso appena detto che stai licenziando Elijah?"

"Tecnicamente," spiego. "Non posso licenziarlo. Non che non vorrei. Il termine votarlo fuori è più corretto. Molto più difficile da ottenere. Perciò apprezzerei moltissimo se evitassi di dirglielo," aggiungo unendo le mani in un gesto di gratitudine. "Rovinerebbe un po' la festa a sorpresa, no?"

Ed eccola lì. Di nuovo quella faccia. Quella in cui mi guarda con fare incredulo e da cui si può quasi sentire l'incazzatura iniziare ad irradiarsi verso tutto ciò che le sta intorno.

"Non puoi fare una cosa del genere," sentenzia decisa, io mi trattengo dal non farmi sfuggire una smorfia. "Voglio dire, non è giusto, non è neanche qui al momento, insomma non ha nessuna idea … Ed adora lavorare là, ha dato così tanto, ed era così affezionato a tuo padre, lo so per certo. Non puoi fargli questo, non se lo merita, non è giusto," mi butta addosso, tutto insieme, con una tale intensità indignata che neanche avessi appena rivelato di star architettando uno sterminio di massa di cuccioli di orsi polari.

"Tragico, lo so, non vedo cosa posso farci."

"Non riesco a crederci che lo faresti veramente." Scuote la testa. "Dimmi una cosa, era tutto pianificato? Agire così alle sue spalle, per liberarsene mentre non c'è? Come puoi fare una cosa così meschina?"

Serro le labbra in una linea, ed è il momento in cui inizio leggermente ad incazzarmi pure io. Perché non può davvero essere seria. Se sta cercando qualcosa su cui proiettare e scaricare il suo senso di colpa, così da non doversi sentire la persona peggiore in tutta questa storia, allora tanto vale farlo fino in fondo.

"Già, tempismo perfetto, non è vero?" dico con un sorriso stretto. "Oh, a proposito, Stefan ha ricevuto il tuo invito di matrimonio. Deve dare conferma?"

La menzione taglia dritta attraverso di lei. Nel lampo che le attraversa gli occhi e che li rende più scuri, in tutta la sua fermezza che vacilla di colpo, e nel modo in cui sostiene il mio sguardo con uno ancora più ferito e arrabbiato.

"Non ci provare. Non farne una questione che riguarda me."

"Perché no?" ribatto aspro. "Sei tu che ne stai facendo una questione tua. Cosa diamine te ne frega?"

"Perché non è giusto! Non se lo merita, niente di tutto questo!"

"Però ti sta bene, scoparti qualcun altro!"

E' così veloce e così violento, che a malapena lo vedo arrivare. Sento solo il dolore caldo e diffuso lasciato dalla sua mano sulla mia guancia, dopo che il ceffone l'ha già dato. Quando incontro di nuovo i suoi occhi, la rabbia che li riempiva quando ha alzato la mano se ne è già andata, rimpiazzata dallo stesso dolore ferito che brucia anche sulla mia guancia e dentro il mio petto.

Si porta entrambe le mani sulla bocca, ed è sull'orlo delle lacrime.

"Oh mio dio," mormora piano, tremando appena, mentre compie un minuscolo passo indietro e mi guarda con gli occhi allargati dallo shock. "Cosa stiamo facendo? Non possiamo essere così, Damon. Stiamo facendo del male ad altre persone. Stiamo facendo del male … a noi. E' tutto troppo complicato, troppo …"

"Allora vai," la interrompo. Mi guarda smarrita, e la gola mi fa male, mentre lo dico, molto più della guancia, molto più di qualsiasi altra cosa. "Se è così, se la pensi così … Vattene. E' sempre complicato, Elena. Vuoi prendere la via d'uscita più facile? Eccola qui. Prendila e vattene."

Si porta di nuovo una mano sulle labbra, e non replica, ed io non so davvero se è meglio o peggio così, perché qualsiasi cosa potrebbe dire adesso mi annienterebbe in un modo o nell'altro e, onestamente, quello sguardo sulla sua faccia, quello sguardo spalancato e pieno, e perso e bagnato, e poi oh così dispiaciuto, già dice tutto.

Le passo davanti, mentre una lacrima non regge più e le cade sulla guancia. Non dice niente, neanche quando raggiungo la porta ed in un attimo sono fuori da lì.


***


Il bancone di un pub, il mio telefono, un bicchiere di whisky posato lì accanto.

Per una molto lunga, molto torturata, ora, sono queste le uniche cose che mi riempiono la testa e la visuale.

Ho lasciato il mio appartamento, ed Elena, un paio di ore fa. Ho camminato, e camminato, attraverso i viali più ampi e tutte le strade costellate di bar e pub affollati che conosco così bene da sapere che ci sono posti dove non devi per forza sentirti troppo solo e malinconico, se non vuoi farlo. Sono quelli dove c'è sempre abbastanza folla e musica e voci alte che non ti costringono a stare ad ascoltare il suono della tua stessa mente fin troppo fottutamente incasinata.

Ho perso il conto delle volte in cui ho preso in mano il telefono, l'ho controllato e l'ho riposato,  pur sapendo in partenza di non trovarci niente di nuovo, non fosse solo per il fatto che è l'unica cosa che ho continuato a fissare tra una bevuta e l'altra per quello che sembra già un lasso di tempo infinito. Continuo a tornare a quell'ultima comunicazione di Elena, a quel corto Ho pensato, dobbiamo parlare che poteva voler dire tutto senza dire niente. Me lo chiedo adesso, cosa fosse che aveva da dire. Un sì, una pausa, un no, un non lo so. Immagino che non lo saprò mai. Tanto, non ha neanche più nessuna cazzo di importanza.

Penso di chiamarla più o meno ogni volta che il telefono lo prendo in mano. Non lo faccio neanche mezza. Non so se voglio scoprire se davvero ha mollato tutto così, o se sta solo aspettando, come me, che le cose si calmino un po' e tornino a quando non dobbiamo per forza urlarci in faccia e tutto questo può essere così maledettamente meraviglioso e non così maledettamente doloroso come una scheggia piantata nel mezzo del costato.

"Posso avere un Martini dry?" dice una voce di donna accanto a me. "Senza ghiaccio."

Getto un'occhiata di lato, mentre lei aspetta di essere servita dal barista, e qualcosa in lei mi sembra familiare. La riconosco l'attimo dopo, anche se i capelli castani sono sciolti e ondulati sulle spalle invece che tirati su nella solita pratica coda alta. Tamburella le dita mentre aspetta la sua ordinazione. Si volta appena, si blocca piacevolmente sorpresa quando mi vede.

Sorrido, perché mi ha riconosciuto anche lei. Ovvio che lo ha fatto.

"Tu … tu sei il ragazzo del Ferry Building!" esclama. Poi muove una mano nell'aria, sorride appena imbarazzata. "Scusa, è stupido, è così che ti chiamo."

"Ragazza delle sei e trentacinque," rispondo, prendendo un sorso. "E' così che io chiamo te."

"Beh," si gira per prendere e pagare la sua bevuta. "Adesso puoi chiamarmi Charlotte. O Charlie, è così che mi chiamano tutti."

Decisamente meglio, o qua ci sarebbero le basi per un gigantesco complesso materno. Charlie sia.

"Damon."

"Sei qui da solo, Damon?"

Il mio sguardo va automaticamente verso l'immobile telefono, per rinnovare la fitta al costato quel tanto che basta.

"Sì." Inclino la testa, studio brevemente lei e quello stesso sorriso un po' timido e un po' flirtante che mi lancia ogni mattina. "Tu?"

Charlie lancia un veloce sguardo oltre la sua spalla, verso un tavolo con altre tre ragazze, che ci osservano, ridono, alzano i loro bicchieri nella nostra direzione in segno di incoraggiamento.

Si siede nello sgabello accanto al mio, le faccio spazio.

"Posso esserlo."


Non alzai lo sguardo, quando sentii aprirsi la porta del negozio, seguita dal leggero tintinnio che annunciava la rara entrata di un cliente. Tonight, Tonight [2] usciva a basso volume dagli speakers, e la mia ricerca internet sugli esorbitanti prezzi degli affitti per buchi di stanze in zona New York mi aveva appena fatto realizzare che avrei avuto bisogno di risparmiare almeno altri quattro mesi del mio misero stipendio, per potermi permettere di non morire di fame nei primi trenta giorni. Quattro mesi che non avevo, dato che il mio caro papà mi avrebbe sbattuto fuori tra due.

"Stiamo per chiudere tra dieci minuti, quindi suggerisco vivamente di tornare domani quando non dovrò rimanere oltre orario per mettere in ordine quello che ha intenzione di lasciare fuori posto, buona serata e grazie mille," dissi asciutto all'importuno cliente che aveva avuto la brillante idea di presentarsi appena prima dell'orario di chiusura.

"Speravo che potessi fare un'eccezione?"

Mi voltai di scatto, non senza un imprevisto battito mancato a tradimento.

Elena, sulla soglia del negozio, sorrise. Di quel sorriso piccolo che le alzava solo appena gli angoli delle labbra, una mano intenta a tormentare la cinghia della borsa a tracolla.

Non la vedevo da giorni. Dalla notte dopo il Grill in cui avevo riaccompagnato a casa lei e suo padre, nel viaggio in macchina più pieno di silenzi nella storia dei viaggi pieni di silenzi.

Indossava un vestitino verde, al ginocchio, e bastò un solo secondo, un'occhiata a quel vestitino e al modo in cui incrociò nervosa le caviglie e le basse scarpe di tela, per riaprire tutto quello mi si apriva dentro quando era vicina e poi si dimenticava sempre di richiudersi perfino quando non lei non c'era.

"Ciao," disse.

 Distolsi lo sguardo.

"Ciao."

"Io … ti ho portato questi," sollevò un braccio, mi mostrò un sacchettino ben incartato. "Sono i biscotti grandi con le scaglie di cioccolato, li abbiamo fatti freschi di questa mattina, avevi detto un po' di tempo fa che avremmo dovuti venderli di nuovo perché erano i tuoi preferiti, e … Giuro che non li ho fatti io," scherzò, porgendomelo e tentando un altro sorriso.

Se fosse stata una qualsiasi altra occasione, e non una dove per giorni eravamo stati troppo impegnati a far finta che non avessi provato a baciarla ottenendo un secco, spaurito, no come risposta, se fosse stata una sera qualsiasi e non avessi avuto da ingoiare un malloppo di orgoglio ferito e consapevolezza di quanto unidirezionali fossero diventate le cose, allora avrei chiuso in fretta ogni serranda, e avrei preso la Camaro, e avrei guidato in una di quelle radure nascoste appena fuori città, una con alberi e verde e vista sulle cascate, e sarei rimasto seduto sul cofano  con lei a fare cena con i biscotti fino a che non avesse fatto buio, e anche di più.

Ma non lo era. Spensi il computer, Elena aspettò qualche secondo con il sacchettino ancora teso, e poi li posò un po' delusa lì vicino sul bancone.

"Stavo pensando che forse-"

"Ho da fare stasera," risposi, continuando a rimettere a posto le ultime cose.

"Ti vedi con Michelle?"

Il tono casuale, buttato là, con cui lo chiese, terminò in una leggera nota acuta che no, non aveva nessun diritto di essere lì.

"Michelle ed io ci siamo lasciati."

Staccai anche gli speakers, e l'assenza di una replica da parte sua rese l'improvviso silenzio nel locale ancora più lungo e ancora più denso.

"Oh. Io non … Mi …" Si fermò, si schiarì la voce. "Perché?"

Allora sollevai lo sguardo verso il suo. Lo trovai particolarmente allargato e improvvisamente incerto. Sorrisi a labbra strette.

"Sono andato a letto con la sua migliore amica."

Una linea le solcò la fronte, la sua espressione cambiò.

"Tu … Cosa?" domandò spiazzata, neanche lo avessi fatto a lei. "Perché faresti una cosa del genere?"

"Cavoli, non lo so," roteai gli occhi al cielo. "Perché non dovrei?"

"Perché è una cosa orribile!"

"Allora forse faccio cose orribili!"

Elena richiuse di colpo la bocca, scosse la testa.

"Pensavo che fossi cambiato, Damon."

Le passai davanti, andai ad aprire la porta con uno scatto brusco, con la testa le feci cenno di uscire. Non ero in vena, lo ero meno che mai, per quel suo solito ritornello.

"Notizia dell'ultim'ora, Elena. Le persone non cambiano."

Elena si avvicinò a passi decisi. Ma invece di prendere la porta, si piazzò di fronte a me, guardò in su con quella scintilla testarda nello sguardo.

"Ed è questo che ti ostini a non voler capire! Tu non sei così, ma ti piace far finta di sì per usarla come scusa per allontanare di proposito tutti quanti, e questo, in questo, pensavo che fossi cambiato."

"Non darmi lezioni sull'allontanare le persone," dissi, serrando più strette le dita attorno alla maniglia della porta. "Tu in questo sei molto più brava di me."

Si schermì, con un passo indietro.

"Io non allontano le persone."

"No. Solo me."

Il riferimento non detto lo sapevamo entrambi quale fosse, ma rimase lo stesso sospeso nell'aria. Nel silenzio con cui ci guardammo, nella nota più triste che ferita con cui mi erano uscite fuori quelle parole, nel modo in cui si ammorbidì la sua espressione.

"Sono tua amica, Damon. Non ti allontanerei mai." Piegò appena un lato delle labbra. "Non potrei neanche se volessi."

Piano, chiusi la porta. Mi ci appoggiai contro con la spalla, guardai appena fuori sulla strada, e poi di nuovo verso il suo viso, le sopracciglia leggermente increspate, e tutta quella sincerità e tutto quell'affetto che non era davvero più abbastanza rispetto a ciò che avrei voluto che fosse, ma che restava quanto di più vicino ci potesse essere.

"Fa parte del non allontanarmi, avermi ignorato per giorni?" domandai, odiando ogni briciola della dannata debolezza con cui sapevo, a dispetto di tutto, di non poterla comunque perdere.

Abbassò lo sguardo, con un inconscio gesto nervoso chiuse una mano intorno al ciondolo scuro che portava al collo.

"Sto con Matt," disse, girandosi a guardare fuori. "Amo Matt."

"Felice che lo abbiamo chiarito," replicai, incrociando le braccia sul petto, anche se il sarcasmo con cui lo dissi forse fu chiaro solo a me.

Elena annuì, smise di torturare il suo ciondolo con le dita. Fece per andare, esitò all'ultimo momento. Poi si voltò, si sporse rapida sulle punte, mi baciò la guancia. Altrettanto rapidamente,  uscì senza guardarmi un'altra volta.


Runaway, The National


Charlie ride mettendosi una mano davanti alla bocca. E' quasi carina come cosa. Penso che mi piacerebbe molto meno se non fossi già al mio sesto o settimo bicchiere di whisky, e lei non fosse al quarto Martini dry. Ma ci siamo, quindi è carina, o quasi.

"Lo sai," dice lei, mentre io finisco anche ciò che era rimasto sul fondo del bicchiere. "Pensavo che tu …" mi indica, sovrappone un po' le parole, "… non ti saresti mai deciso a parlarmi."

"Mi stavo solo rendendo più desiderabile," rispondo avvicinandomi appena di più, con la voce già abbassata a quel tono più seducente che entra automaticamente in gioco in certe situazioni, anche quando il mio istinto di auto-conservazione dovrebbe suggerirmi di meglio. Soprattutto quando il mio istinto di auto-conservazione dovrebbe suggerirmi di meglio.

"Ci sei riuscito," sorride, con lo sguardo sulla mia bocca.

Dio, quante volte l'ho fatto? Uno sbiadito deja-vu di un me post-Katherine taglia i miei pensieri per una frazione di secondo, ma comunque abbastanza da aprire uno squarcio su tutte le volte in cui alcol e sesso erano un ottimo modo per ripagare la stronza che mi aveva lasciato incazzato e ammaccato. Non cambiava assolutamente niente, alla fine di tutto, niente per lei che a malapena se ne fregava, niente per me che restavo ugualmente incazzato e ammaccato. E lo sapevo che era così, ovvio che lo sapevo, ma era sempre meno peggio che lasciare spazio a tutto il resto.

Così come so adesso che Elena non è Katherine, dio se non lo è. Ma io sono sempre io. Ed ha dell'incredibile, il modo in cui tale consapevolezza si intromette in mezzo ad ancora più alcol ed una ragazza perfettamente carina e perfettamente disponibile. Non si può scappare, da una cosa del genere. Neanche quando la ragazza delle sei e trentacinque colma la distanza degli ultimi centimetri, posa le labbra sulle mie.

E' un po' sbadato come bacio, ma non ci faccio troppo caso.

"Non faccio mai così, ma …" sussurra sulla mia bocca. "Casa tua o mia?"

Mi guarda un po' incerta, ed io non ho una risposta.

Non ce l'ho perché è qui che tutto quanto mi riempie la mente, e l'addome, e perfino il costato sempre un po' scheggiato. Le lacrime di Elena mentre vado via, Elena che si stira nel sonno al mattino presto, e tutti i piccoli suoni quando la bacio lentamente, e il modo in cui ride, e quello in cui si arrabbia, e quanto salda sia la sua presa quando mi stringe. E' la sola risposta che ho, anche maledettamente complicata e incasinata come è, tornare da lei.

Ma lo so fin dal momento in cui apro la porta, accendo la luce, e sento il silenzio fermo che riempie il mio appartamento. Lo so in quel momento, ma ugualmente cerco nella sala, nella camera, anche sulla terrazza, accendendo ogni luce e perlustrando per il minimo segno di ciò che c'era fino a poche ore fa, e adesso non più. Una spazzola sul ripiano del bagno, un libro tirato fuori dalla libreria, vestiti lasciati disordinatamente sopra una sedia.

Mi appoggio alla parete che separa il soggiorno dalla camera, mentre l'alcol che mi ottura la testa e le vene rende ogni cosa filtrata come attraverso la patina di un patetico sogno triste. Scivolo contro la parete finché non sono seduto per terra, e la stanza gira un po' prima di assestarsi, proprio come tutto ciò che Elena mi ha lasciato in pezzi nel petto.

Tiro fuori il telefono. Risponde al terzo squillo, un "ehi" instabile almeno quanto la domanda che le faccio.

"Dove sei?"

L'annuncio di un volo per Austin in partenza al gate 72 risponde per lei.

"Avevi ragione, Damon. Non posso … Non posso restare, non in una situazione così. E' ingiusto nei confronti di tutti, anche nostri. E' stato un errore," dice, e non so se a fare più male è l'idea che lo pensi davvero o quei residui di lacrime che ancora si sentono nella voce. "Ho trovato un volo che parte tra mezzora, riesco ad essere a casa per domani mattina. Devo, capisci? Devo sistemare un po' di cose."

"Non farlo," mi sento dire, l'alcol e la spaventosa idea di una notte senza Elena a parlare più della mia parte ragionevole. "Almeno non stasera, non così … Vengo a prenderti. E le sistemerai domani, o quando diamine vuoi. Non stanotte."

Un altro volo annunciato in sottofondo riempie il silenzio nella sua risposta.

"Mi dispiace," sussurra dentro il microfono.

E poi riattacca, e poi più niente, e poi è finita.

Mi faccio scivolare il telefono di mano, cade sul pavimento. Lo lascio lì, fisso il vuoto, e non riesco più a rialzarmi neanche io.

—————————————————————

Note:

[1] Se avete colto la citazione, sappiate che vi amo. No, seriamente. Vi amo.

[2] Tonight, Tonight - Smashing Pumpkins


Note autrice

I'm sorry. I'm so, so sorry.

Per il ritardo, innanzitutto, sia nel postare il capitolo che nelle risposte ai commenti (li ho amati tutti, voi non ci crederete ma mi fate davvero commuovere, tipo lacrimuccia nell'occhio quando vi leggo. Sono una sentimentale, che ci volete fare). E' solo che questo capitolo l'ho dovuto scrivere a piccole dosi, piano piano, perché tutto insieme non ce la facevo, e immagino che possiate intuire perché. Potete odiarmi, se volete. Il prossimo torna a Mystic Falls insieme a Elena, e inizieranno a tirarsi un po' le fila di tutto.


E sono molto più che emozionata di annunciare che, d'ora in poi, Stubborn Love la potrete trovare anche sul blog It's Gonna Be Damon (qui per seguirlo anche su facebook), che pubblicherà in esclusiva le anteprime dei capitoli prima della loro pubblicazione. So che se siete delle brave Delena lo conoscete già, ma se non fosse così cogliete l'occasione per rimediare, e fare le brave Delena, perché é una miniera inesauribile di bellissime riflessioni e analisi sia sul Damon e Elena che su TVD tutto.

Di questo

ringrazio Ross e Scarlett, che si sono prese a cuore questa storia e l'hanno portata anche lì,
ringrazio la nostra
Bloodstream che ha realizzato delle meravigliose gif ispirate a scene di Stubborn Love,
ringrazio tutte voi che mi avete incoraggiato a continuare e sostenuto fin qui.


Ringrazio anche le mie adorabili beta, che qui si sono unite in un triplice lavoro per correggermi le sviste e sopportare le mie paranoie, e chiudo la nota con l'ormai solito angolino musicale per quelle che sono interessate: Us ones in between per la citazione iniziale e Runaway dei The National per l'ultima scena (qui la playlist), e con un nuovo gigantesco grazie per tutto questo incredibile supporto che non smette mai di stupirmi.

ps. chi di voi, sul gruppo facebook, aveva azzeccato gli spoiler di "due verità una bugia"?

un bacio,

ever

   
 
Leggi le 22 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > The Vampire Diaries / Vai alla pagina dell'autore: everlily