Evelyn respirò a fondo, poi spinse la porta d’ingresso dello
stabilimento.
La porta si aprì con scricchiolio sinistro.
Evelyn indietreggiò.
Sentì dei passi di corsa venire verso di lei.
Venire verso di lei di corsa.
“Scusa, zuccherino” Una ragazza la prese per le spalle, la
spostò di lato come se fosse una pastorella di porcellana e corse dentro.
Evelyn fissò allibita la porta che l’altra le aveva lasciato
richiudere sul muso.
Curvò le labbra a formare una piccola “o”.
La porta di riaprì all’improvviso.
“Yipe!”, gridò Evelyn, facendo un salto indietro.
“Yipe!”, gridò la ragazza, facendo un salto indietro.
Si guardarono.
“Dai, entra”, disse la ragazza, e la prese per un braccio
tirandola dentro la fabbrica.
Evelyn prese in considerazione l’idea di staccarsi a morsi
il braccio, come i coyote quando finiscono nella tagliola, e fuggire lontano
lontano.
Riflettè se la casa di zia Libby potesse considerarsi
abbastanza lontano.
Poi si trovò a fissare in viso la ragazza, che la guardava
come per dire “E allora?”.
Era una giovane donna dal viso pallido e dolce e dai capelli
scuri, con la riga da un lato, raccolti in uno chignon sulla nuca. Sembrava una
Madonna rinascimentale.
Solo che il bandeaux di capelli che le girava intorno
alla fronte era pettinato a onde piatte.
Evelyn la guardò a bocca aperta.
Fangirlò.
O meglio, avrebbe fangirlato, se nel
millenovecentocinquantatrè fossero esistite le fangirl.
Cominciò a sentire il familiare filo di bava formarsi
all’interno del labbro inferiore.
“Er…” disse la ragazza. La guardò di sottecchi.
“Scusami. Uh… Tizia?… Caia?… Sempr…”
“Uh. Scusa. Scusa-scusa. Mi chiamo Evelyn”, rispose Evelyn.
Non un’altra. Proprio Evelyn.
Risucchiò la bava con rumore di scolo del lavandino.
“Sei quella nuova?”
“Uh, credo di sì.”
Si guardarono.
Evelyn diventò color ciclamino.
“Cioè, se per nuova s’intende la nuova lavorante, sì. Voglio
dire, non sono una ragazza nuova. Ho diciassette anni, quindi non si può dire che io sia
nuova; un usato in buone condizioni, diciamo, ma non nuova-nuova, perché se io
dicessi di essere nuova e poi si scoprisse che ho diciassette anni sarebbe una truffa
bella e buona.”
Si impappinò. Si chiese anche se aveva usato tutti i congiuntivi giusti.
La ragazza non disse niente, ma Evelyn vide passare
rapidamente sulla sua fronte le parole luminose “lontano” e “lontano”
Che sono poi una parola sola. “Lontano”.
“Ma non è questo che intendevi, vero? Intendevi se sono
nuova qui. Cioè, sono nuova di questo paese, ma non dell’Inghilterra del
Sud, intendo, non dell’Inghilterra. Insomma, non è che io sia un’emigrante
italiana, o un dissidente irlandese, o sia arrivata qui dalla Siberia nella
stiva di un cargo per sfuggire al terribile regime militare del…”
La ragazza la fissava ora con sguardo perplesso.
Evelyn deglutì.
“Sono quella nuova.”
La ragazza sorrise.
Sembrava una maestra elementare che avesse appena insegnato
a un bambino balbuziente a sillabare “Mississippi”. Missisippi?
Mississipi?Myss…
Sembrava una maestra elementare che avesse appena insegnato
a un bambino balbuziente a sillabare "Ohio."
“Piacere,
Evelyn. Merry.”
Evelyn la guardò.
“...Christmas?”, azzardò. Le sembrava un po' presto.
La ragazza si adombrò di nuovo.
“Merry è il mio nome.”
“Oh.”
“Cioè, sarebbe Mary Rose”, spiegò. “Ma se mi chiami Mary
Rose ti ammazzo. Cioè, non è che ti ammazzo-ammazzo, intendo in senso figurato.
Mi segui?”
Evelyn considerò l’ipotesi di gridare di nuovo “Yipe!” e
scappare veloce come un fulmine.
Che era una metafora. O un’iperbole?
Evelyn considerò l’ipotesi di gridare di nuovo “Yipe!” e
scappare veloce.
“Quel che voglio dire, uh, è che non sono una persona
violenta o che altro, insomma, è una metafora, cioè no, un’iperbole, cioè,
insomma, un modo di dire per dire che non mi piace che mi chiamino…”
La ragazza sospirò.
“Mi chiamo Mary Rose, ma tu puoi chiamarmi Merry.”
“Evelyn sorrise, sollevata.
Aveva trovato un’amica.