5
Rimasta sola, perché così si sentiva, Pam
soffocò sul nascere le lacrime ributtandosi nella lilith.
Sniffò, sniffò e sniffò ancora, nel disperato
tentativo di far uscire tutti quei pensieri dalla testa, tutti quei sensi di
colpa.
Dopo aver svuotato il portamonete pagò con tutto
quello che aveva, dal fermacapelli al braccialetto d’oro ricevuto per il suo
ultimo compleanno, l’ennesimo tentativo del padre di accattivarsi i suoi favori
con regali costosi.
Teoricamente Thojir aveva
con sé abbastanza stupefacenti da far collassare metà dei presenti, ma non
voleva trovarsi tra le mani una strafatta che gli crollava davanti agli occhi o
peggio, e all’ennesima richiesta delirante di Pam di
mettere nuovamente mano alla sua scorta rispose con un rifiuto.
«Direi che per stasera ne hai sniffata anche troppa.
Torna domani e te ne darò ancora.»
«Come sarebbe domani? Io la voglio adesso!».
Pam era talmente fuori di
sé che cercò persino di strappare il sacchetto dalle mani di Thojir, il quale non aveva la stessa gentilezza di Jason e
rispose con un tremendo ceffone che scaraventò la ragazza a terra.
«Vattene, prima che perda la pazienza».
La poveretta si rialzò a fatica, sia per la violenza
del colpo che per i paurosi giramenti di testa che ormai non le davano tregua,
e barcollando si diresse a fatica verso l’uscita, guardata con un misto di
incredulità e disgusto da coloro cui andò inavvertitamente addosso nel suo
incedere stentato.
Una volta fuori si incamminò senza meta per le
strade buie, sotto una pioggia scrosciante, senza sapere dove andare o cosa
fare, mentre ai capogiri si erano nel frattempo andati a sommare violenti
spasmi, tosse e conati che a stento riusciva a controllare.
Sembrava ubriaca da come andava da una parte e
dall’altra, incapace di procedere lungo una linea retta.
Tutto le girava intorno, tutto era in movimento, e
non riusciva a pensare lucidamente, annebbiata com’era dai fumi della lilith.
Forse quella roba, pensò con uno scampolo di
lucidità, non era così di buona qualità come credeva.
O forse, e qui la colse la paura, questa volta aveva
davvero esagerato.
Crogiolatasi da sempre nella certezza di poter
sopportare tutto grazie alla sua attitudine alla magia, non aveva mai dato peso
alle chiacchiere e ai timori di chi aveva tentato di rammentarle i pericoli
della lilith, confidando nelle aride cifre delle
statistiche che ripetevano ogni volta come fosse quasi impossibile, per
un’aspirante stregone, andare incontro ai ben noti e spaventosi effetti
collaterali della polvere blu.
E invece, ora, si sentiva male come non lo era mai
stata, il corpo intero sembrava essersi trasformato in un enorme puntaspilli
conficcato in ogni parte, ed ogni passo, ogni respiro, ogni sbattere di ciglia
era un’agonia.
Come se non bastasse la vista, già provata
dall’acqua che cadeva ininterrottamente dal cielo, le si era appannata, al
punto da renderle quasi impossibile distinguere nitidamente ciò che aveva
attorno, il che le aveva impedito di rendersi conto di essere giunta, nel suo
peregrinare senza meta né ragione, nei pressi della superstrada.
Data l’ora, in girò non c’era quasi più nessuno.
Una coppietta di liceali si stava avviando in tutta
fretta verso la fermata della metro al riparo di un ombrello, ed entrambi
restarono paralizzati per lo stupore quando si videro venire incontro quella
ragazza fradicia e ridotta ad uno straccio, i lunghi capelli arruffati e
gocciolanti, il naso rosso come spellato e la bocca coperta di escrescenze
disgustose che, mescolate all’acqua, avevano formato una sorta di schiuma densa
e bianca.
«Aiutatemi…» mormorò
agonizzante protendendo un braccio verso di loro.
Dapprincipio non seppero cosa fare, ma quando si
avvidero che l’arto era ricoperto da grosse e molto minacciose scaglie simili a
enormi croste color roccia si spaventarono al punto di correre via nella
direzione da cui erano venuti, intimando al mostro di stare lontano.
Sentendosi chiamare mostro Pam
avvertì un nuovo, ulteriore colpo al cuore, ed inginocchiatasi a terra vomitò
quello che per molti minuti era riuscita a tenere dentro, ma solo quando vide
essa stessa le croste di cui non solo il braccio, ma tutto il suo corpo era
ricoperto l’orrore si impadronì di lei.
Stava succedendo.
Quei due ragazzi non avevano esagerato chiamandola
mostro.
Era esattamente quello che stava diventando.
Lo sarebbe diventata, senza dubbio.
Si sarebbe trasformata in una di quelle orride
creature che aveva visto molte volte alla televisione, bestie animali che
attaccavano e uccidevano chiunque prima di venire a loro volta abbattute.
Urlò, urlò con tutta la sua voce, e sull’orlo della
pazzia prese a correre in ogni direzione, senza logica, mugolando versi
incomprensibili mescolati a grida strazianti, mentre cercava a forza di graffi
di strapparsi di dosso quelle scaglie, che pur avendo smesso di crescere le
provocavano più dolore di una distesa di piastre arroventate.
Ben presto, la paura prese il sopravvento,
rendendola sorda a qualunque altra cosa, compresa una luce abbagliante che da
un istante all’altro le comparve davanti accecando quanto restava dei suoi
occhi.
Sean non riusciva ancora a concepire quello che aveva fatto, e invece
di dirigersi verso casa come avrebbe voluto aveva finito per svoltare
all’incrocio sbagliato, trovandosi a girovagare senza meta per le strade che
costeggiavano il porto.
Il senso di tutto ciò gli sfuggiva ancora, e benché
cercasse con tutto sé stesso di convincersi che quello che aveva fatto era
servito a salvare la sua vita e la sua carriera quella era la prima volta che
uccidere qualcuno gli provocava un simile turbamento d’animo.
Di certo non c’entrava il sentimento.
Anche se quel truffatore forse aveva finito per
pensare il contrario, lui non aveva mai considerato Vick
un amico, ma solo un tipo equivoco del quale fidarsi al bisogno, un male
necessario insomma.
Ma se era davvero così, se l’amicizia non ci aveva
niente a che fare, non riusciva a spiegarsi da dove venisse tutto quel rimorso.
Probabilmente la causa era alla radice.
Si era sempre reputato una persona onesta, e fino a
pochi anni prima mai si sarebbe visto nelle fila dei corrotti, di quelli che
prendevano soldi dalle corporazioni criminali o dai trafficanti per tenere le
strade di periferia pulite e le attività criminali lontane dalla luce del sole
in cambio di un occhio di riguardo davanti alla legge.
Nelle periferie tutto aveva un prezzo, inclusa la
sicurezza, e lui aveva accettato di prendere la sua parte.
In fin dei conti era un discorso molto semplice.
Quello che non si poteva contrastare lo si comprava, e chi si faceva comprare a
sua volta comprava la certezza dell’immunità. Era come un cerchio senza fine, e
una volta entratici si poteva uscirne solo con la
prigione, o dentro una bara.
Bisognava farci l’abitudine ed accettarlo, e se solo
Vick lo avesse capito, invece di correre dietro ai
soldi come al solito, forse sarebbe rimasto vivo.
Il giorno dopo sarebbe tornato al museo, e con un
po’ di fortuna avrebbe trovato anche la scheda originale nelle mani di qualche
inserviente. Una volta distruttala tutto sarebbe finito, e la vita avrebbe
ripreso a scorrere per il suo corso naturale.
Fatta pace con la coscienza, almeno per un po’,
l’ispettore si risolse ad andarsene a casa, ma d’improvviso, dal nulla, una
figura gli comparve davanti alla macchina emergendo dal muro di pioggia e
costringendolo ad una improvvisa sterzata
Riuscì a fermarsi solo dopo essersi giocato il
parafango contro la ringhiera che delimitava il marciapiede, e sceso dalla
macchina si affrettò a sincerarsi delle condizioni di quell’aspirante suicida.
Ciò che vide lo lasciò sgomento.
A terra, riversa agonizzante sull’asfalto bagnato,
c’era una ragazza, ben vestita ma in uno stato pietoso, il corpo ricoperto di
orrendi crostoni, la bocca impiastrata di vomito e gli occhi completamente
rigirati all’indietro.
Non l’aveva certamente investita, ma ciò non
toglieva che stesse comunque molto male.
Una drogata sicuramente, merce neanche troppo rara
in quella parte della città, ma di sicuro non una qualsiasi a giudicare dai
costosi indumenti che portava.
Il problema erano quelle croste.
Sean si inginocchiò davanti a lei, passandovi sopra
il suo comunicatore per fare un rapido check-up dall’esito impietoso, ma non
drammatico come pensava. Era viva, ma la mutazione era già incominciata, e a
meno di non fare qualcosa subito sarebbe stata irreversibile.
Per un attimo l’agente fu combattuto su cosa fare,
perché sapeva che avvertendo i soccorsi gli avrebbero sicuramente chiesto di
spiegare cosa ci facesse in un posto simile nel cuore della notte, ma poi la
sua coscienza di poliziotto ebbe il sopravvento, e senza ulteriori esitazioni
si mise in contatto con la centrale più vicina.
«Sono l’agente Sean Neeson.
Quarta postazione, nono distretto. Serve subito un’ambulanza con unità
disintossicante all’incrocio tra Caledonia Avenue e la quarta strada. Abbiamo
un nove-uno in fase embrionale.»
«Qui centrale operativa» rispose una voce dall’altra
parte. «I soccorsi arriveranno in cinque minuti».
L’ambasciatore Klose aveva atteso sua figlia
fino ad oltre mezzanotte prima di risolversi ad andarsene a letto, mugugnando
che quella sarebbe stata l’ultima bravata di Pam per
un bel po’ di tempo.
Una telefonata tirò giù dal letto lui e la moglie
nel cuore della notte, e per un attimo il cuore dell’uomo si fermò in petto
quando riconobbe all’altro capo della linea la voce del suo amico dottor Borisov, primario di chirurgia del Columbus Hospital.
Per fortuna, tra le varie cose che Pam si era venduta per comprare la polvere non vi era il
suo tesserino di riconoscimento dell’ambasciata, altrimenti sarebbe finita in
qualche ospedale di quart’ordine, invece che nella migliore struttura sanitaria
della città.
L’ambasciatore e sua moglie corsero come pazzi a
bordo del primo taxi che riuscirono a trovare, e una volta all’ospedale vi
trovarono anche Christofer, avvertito a sua volta
durante una festa di addio al celibato di un amico.
«Dov’è tua sorella?» domandò Klose
con un’espressione che suo figlio e sua moglie non gli avevano mai visto quando
l’oggetto della discussione era sua figlia Pam
«È ancora in sala operatoria».
Grazie al cielo le condizioni di Pam
erano apparse meno gravi di quanto inizialmente pensato, e al termine di un
lungo intervento di disintossicazione era stata dichiarata fuori pericolo.
Purtroppo però, le buone notizie finivano qui, e ce
ne si accorse nel momento in cui, ripresa conoscenza, Pam
non riuscì a riconoscere né sua madre né suo fratello, dimostrando oltretutto
un livello cognitivo e comportamentale più simile a quello di una bambina che
di una diciottenne.
Il dottor Borisov prese da
parte l’ambasciatore chiamandolo fuori dalla stanza.
«La droga non ha intaccato l’M-Code, ma dei danni li
ha comunque fatti.»
«Di che stai parlando, Ivan?»
«Per poterla salvare, siamo stati costretti ad eseguire
un drenaggio massiccio, ma le particelle nocive nel frattempo hanno danneggiato
la corteccia cerebrale. È probabile che non ricorderà nulla di quanto accaduto,
ma questo sarà il minimo.»
«Che vuoi dire?» domandò l’ambasciatore
«Ho già avuto a che fare con contaminazioni di
questo tipo. Penso di poter escludere danni cerebrali significativi, ma abbiamo
rilevato una sorta di regressione cognitiva provocata dai danni alle attività
cerebrali.
È come se il suo cervello fosse tornato indietro ad
un’età infantile».
L’ambasciatore si passò una mano sul volto, e volse
un momento lo sguardo verso la parete vetrata che separava la stanza dal
corridoio. Pam era ancora sul letto, assieme a Chistofer e a sua madre, intenta a colorare un album
regalatole da alcune infermiere.
«E sarà…» mormorò con un
filo di voce. «Irreversibile?»
«È del tutto soggettivo. Certo, la sua
predisposizione alla magia fa propendere per l’ottimismo. La sua mente potrebbe
tornare quella di prima da un momento all’altro. Oppure potrebbe ricominciare
tutto daccapo, e con un po’ di pazienta età del corpo e della mente potrebbero
tornare in pari.» quindi il dottore sospirò, facendosi scuro in volto «O
potrebbe restare così a vita».
Di nuovo, l’ambasciatore guardò in basso, sull’orlo
delle lacrime.
Solo in quel momento comprese veramente la portata
dell’errore che aveva commesso, e maledì la sua incapacità come capofamiglia e
come padre.
Aveva sbagliato tutto con quella ragazza, e ora
entrambi ne pagavano le conseguenze.
Ma ormai piangere sul latte versato era inutile. Il
passato non si poteva cambiare, neanche con tutta la magia ed il sapere del
mondo. Tutto quello che poteva fare era cercare di recuperare il tempo e la
figlia perduti, anche a costo di sacrificare molte altre cose, incluso il suo lavoro.
«Grazie.» disse cercando di farsi forza «Sei sempre
un amico».
Cercando di guardare al futuro con più ottimismo
possibile l’ambasciatore entrò nella stanza, offrendosi di dare il cambio alla
moglie e al figlio nel tenere d’occhio Pam mentre
loro andavano a prendere un caffè, quindi, rimasto solo con la figlia, andò a
sedersi al suo fianco vicino al letto.
Guardandola sorridere, sentì qualcosa svegliarsi nel
suo cuore.
L’ultima volta che l’aveva vista ridere e divertirsi
in quel modo non riusciva neanche più a ricordarla; forse perché era passato
troppo tempo, o forse perché non se n’era mai accorto.
«Signore, le piace?» domandò la ragazza mostrando al
padre il giardino fiorito che aveva appena finito di colorare.
Lui sorrise, guardandola dolcemente e passandole una
mano nei capelli.
«È bellissimo».
Jason si ritrovò ad un certo punto a camminare da solo per le strade
di Kyrador, al buio, con la pioggia che cadeva
incessantemente infradiciandogli i capelli ed appiccicandogli i vestiti alla
pelle.
Forse aveva passato la misura.
Se n’era andato perché non voleva rivivere quanto
già successo tre anni prima a suo fratello, ma a ben pensarci in fin dei conti
non aveva fatto altro che scappare, di nuovo.
Quando gli scrosci divennero troppo forti, il
giovane andò a rifugiarsi al riparo del casotto di una fermata d’autobus,
abbandonandosi sulla panchina di attesa con la mente da tutt’altra parte.
Pam aveva i suoi difetti,
ma alla fine era solo una ragazza senza certezze schiacciata da qualcosa più
grande di lei, che come Alex aveva cercato altrove quel rifugio che la famiglia
non aveva saputo essere.
D’altra parte, però, Jason sentiva di non avere la
forza per passarci un’altra volta, senza contare che non riusciva a spiegarsi
come mai una ragazza conosciuta solo poche ore prima potesse dargli un tale
tormento d’animo.
A capo chino, gli occhi piantati sul pavimento
sporco e bagnato, contava con la mente le gocce che scivolando giù dai capelli
bagnati ticchettavano per terra alla luce fioca di una lampada, mentre davanti
lui, lungo la strada deserta, di tanto in tanto transitava qualche autobus;
alcuni si fermavano, facendo scendere uno o due passeggeri, che preoccupati
solo di tornare a casa quanto prima passavano accanto al giovane senza quasi
accorgersi di lui.
«È raro incontrare qualcuno a quest’ora e a questa
fermata.» sentì dire ad un certo punto
Il ragazzo alzò gli occhi: dinnanzi all’ingresso
aperto del box era comparso un anziano signore, abiti semplici e sguardo
gentile, più o meno riparato dalla pioggia sotto un ombrello che doveva
sicuramente aver conosciuto tempi migliori.
«Aspetti un autobus?» domandò sedendosi accanto a
lui
Lui non rispose, guadagnandosi un’occhiata
perplessa, ma comunque amichevole.
«Questi temporali di fine primavera sono una vera
seccatura. Ricordo che una volta, molti anni fa, ce ne furono tantissimi, uno
dietro l’altro e tutti molto violenti, tanto che il fiume tracimò e la parte
bassa della città si ritrovò sommersa per due interi giorni.
Le strade erano piene di gente che spalava, e c’era
fango dappertutto. Persino la piazza dell’orologio era stata distrutta.»
Jason piegò le labbra in una espressione di
rassegnazione mista a divertimento.
Sicuramente si riferiva alla Grande Alluvione del
centosessantatre che aveva cancellato un intero quartiere costringendo le
autorità a deviare sia il corso che la foce del fiume Rytumouth
lontano dal centro della città, ma quel vecchio gli aveva dato subito l’idea di
non starci tanto con la testa.
«Anche lei però mi sembra un po’ troppo anziano per
girare di notte e con un simile tempaccio. Non ha paura che le venga qualche
malanno?»
«Ragazzo mio, queste mie vecchie ossa ne hanno
passate così tante che non sarà certo un po’ di pioggia ad incrinarle.»
Ma Jason aveva ben poca voglia di parlare, ed il suo
improvvisato interlocutore non faticò ad accorgersene.
«C’è qualcosa che non va, figliolo?»
«Probabilmente nulla che lei possa capire. Con tutto
il rispetto.»
«Mettimi alla prova. Potrei sorprenderti. Del resto,
se c’è qualcosa che ci tormenta è sciocco tenerselo dentro.»
Jason non aveva la benché minima idea di chi fosse
quel vecchio con l’espressione ebete, chiacchierone e anche un po’ invadente,
eppure non riuscì a resistere all’impulso di parlare, riversando in poche
parole tutta l’inquietudine e il senso di impotenza che in qualche modo si era
sempre portato nell’animo, e che gli eventi di quella sera avevano in fondo
solo contribuito a far riaffiorare.
L’anziano ascoltò, senza proferire parola, quasi il
suo intento fosse appunto solo quello di dare al giovane un’occasione per
sfogarsi.
«E me ne sono andato» concluse infine Jason. «Non ce
la facevo a passarci un’altra volta. Non dopo quello che è accaduto a mio
fratello.
Io capisco Pam, anche se
non posso dire di sapere sul serio quello che sta passando, ma d’altra parte
l’idea di dover rivivere un’altra volta quel tormento mi fa tremare le gambe.»
«Io purtroppo non posso dire di conoscere le persone
come conosco questa città,» disse l’anziano dopo un lungo silenzio. «Ma in fin
dei conti, Kyrador, come qualunque altra opera
architettonica piccola o grande, è frutto del lavoro dell’uomo.
Quindi, in qualche modo, è come se ne rispecchiasse
la personalità.
Ci sono tante luci, ma anche tante ombre. La maggior
parte delle persone che vivono circondate dalla luce vogliono credere che la
loro realtà sia universale, e scelgono di ignorare il buio che si annida oltre
la siepe delle loro convinzioni.
Forse hanno paura, o forse non vogliono distruggere
quel sogno di quiete in cui vivono, anche a costo di sapere, nel profondo del
cuore, che si tratta appunto solo di un’illusione.
Ma di una cosa sono certo. Non lo fanno per
cattiveria, né per cinismo.»
«La città… sarebbe come le
persone!?» disse stupito Jason
«Una città è forse la cosa materiale più vicina alla
natura della mente umana. Ci sono gioie, dolori, sogni, incubi, speranze,
illusioni. L’Uomo è speciale perché è poliedrico, e racchiude al suo interno
entrambe le facce dell’esistenza. L’infinita complessità della sua mente può
portarlo a raggiungere i più incredibili traguardi come spingerlo alle azioni
più abominevoli.»
L’anziano alzò gli occhi ad osservare le gocce di
pioggia che tamburellavano sulla superficie trasparente del casotto.
«Chi vive nella luce ha paura di guardare
l’oscurità, soprattutto se l’ha già conosciuta. Ma è solo accettando e comprendendo
il dualismo insito in ogni cosa che si può arrivare ad avere piena coscienza
dell’infinita complessità dell’essere umano, ed eventualmente anche le ragioni
che talvolta lo portano ad agire in modo sbagliato» quindi il vecchio
intercettò lo sguardo di Jason, trafiggendogli l’animo. «Senza contare che chi
ha il coraggio di guardare nel buio quasi sempre è anche colui che riesce a
combatterlo.»
Jason sussultò, spalancando leggermente la bocca.
«Avere la forza di guardare nel buio con la
convinzione di poter aiutare chi si trova al suo interno e vorrebbe uscirne,
anche se non lo sa.
Questa è la maggior prova di forza che un essere
umano possa dimostrare.»
Quelle parole risuonavano come le trombe del
giudizio, martellando la mente di Jake senza tregua.
Forse quel vecchio svitato aveva ragione: forse
cercare di salvare Pam, o quantomeno starle vicino,
era l’unico modo per mettere a tacere quella coscienza che lo tormentava ogni
qualvolta ripensava a suo fratello.
Ma non c’era solo quello a turbarlo, e l’anziano ne
sembrava consapevole.
«Il fatto è che non posso fare a meno di pensare che
quella ragazzina viziata in fin dei conti ha ragione.
Io sono solo un fallito. Ho fallito con mio
fratello, ho fallito venendo in questa città. Ho fallito in ogni cosa.
E ora sono ridotto così. Mi trascino ogni singolo
giorno come un cane bastonato aspettando la sera, in un circolo vizioso che si
ripete all’infinito.
E dire che quando sono arrivato qui mi sentivo così
carico, così pieno di energia e di aspirazioni.
Mi avevano detto che qui a Kyrador
tutti i sogni potevano diventare realtà, ma il mio è andato a sbattere contro
il muro di pietra della realtà.
Mi domando se persino in un mondo come questo valga
ancora la pena di sognare.»
«Credimi, ne vale la pena. Soprattutto qui.»
Di nuovo, il giovane trasalì.
«Lo hai detto tu. Questa è la terra dei sogni.
Piccole o grandi, semplici o sterminate, tutte le ambizioni in questo luogo
hanno il potere di mutarsi in realtà.
E a chiunque dimostri di possedere la forza e la
determinazione necessarie per andare avanti affrontando ogni sorta di
avversità, Kyrador concede sempre l’occasione di
realizzare i propri sogni. Il tutto è saperla cogliere quando si presenta.»
«Il problema è proprio questo. Non sono più sicuro
di avere la forza per lottare.»
«Allora, neanche Kyrador
di aiuterà. Lei premia solo chi persevera e non si arrende, o anche solo chi nonostante
tutto ha ancora la forza di credere nella sua magia. Perché a seconda che si
combatta con più o meno forza, è il fatto stesso di credere in lei a generare
la magia.»
Jason girò lentamente la testa, ed i due si
guardarono nuovamente negli occhi.
«Credi, ragazzo. Credi in te stesso e credi in Kyrador. E lei ti premierà.»
In quel momento un altro autobus si fermò davanti al
casotto, lasciando scendere una coppietta di ritorno da una serata di piacere.
«È la tua linea?» domandò il vecchio senza guardare
né Jason né il mezzo
«Sì…» rispose il ragazzo
con un filo di voce
In realtà non sapeva neppure di che linea si
trattasse, ma un attimo dopo era comunque a bordo, seduto in ultima fila; il
tormento che gli si agitava in petto era tutt’altro che scomparso, eppure in
qualche modo sembrava essersi alleggerito, benché quel turbinio di emozioni e
pensieri riuscisse ancora a togliergli concentrazione rendendolo incapace di
pensare lucidamente.
Stette ad osservare il volto, sorridente ed insieme
severo, di quello strambo vecchio fino a che l’autobus non si fu rimesso in
moto, e fatta meno di una decina di metri, volle girarsi un’ultima volta, ma fattolo
si avvide, non senza una certa sorpresa, che nel casotto non c’era più nessuno,
a parte un vecchio ombrello chiuso malamente che grondava acqua appoggiato
sulla panchina.
Lee fu costretto a svegliarsi molto presto, prima ancora del sorgere
del sole, per l’ennesimo viaggio di lavoro.
Fu sorpreso di non trovare Sandy al suo fianco, ma
lo fu ancora di più quando, uscito dalla doccia, la incontrò in cucina, intenta
a preparare la colazione e un cestino da viaggio.
«Che ci fai in piedi a quest’ora?»
«Ho pensato di farti una sorpresa. Dopotutto sarà un
viaggio lungo, e la roba che propinano nei vagoni ristoranti è una tale
porcheria».
Lee sorrise. Ogni volta che la guardava rimaneva
sorpreso da quanto la amasse. Stare lontano da lei e dalla sua adorabile figlia
era un tormento, e pregava che prima o poi venisse per lui il momento di
raggiungere quel traguardo che inseguiva da così tanto tempo.
Mentre aspettava che le uova finissero di cuocere si
sedette, e per caso l’occhio gli cadde su di una scheda di memoria appoggiata
in un angolo del tavolo.
«E questa?»
«Già, mi sono dimenticata di dirtelo ieri sera. Ally l’ha trovata ieri durante la gita. Qualcuno deve
averla persa, e andando via lei si è dimenticata di consegnarla a qualcuno.
Oggi la accompagno a scuola e poi passerò a restituirla».
Più per curiosità che per altro Lee provò ad
inserirla nel suo comunicatore, ma come fiumi di nomi, numeri ed immagini
presero a scorrere davanti ai suoi occhi la sua espressione si caricò di
stupore, unito ad un senso di sdegnata incredulità.
«Oh, mio Dio…» mormorò
esterrefatto.
«Che succede?» gli chiese stranita la moglie
«Dove hai detto che l’ha trovato?»
«Al museo. Dentro la replica della nave coloniale».
Lee non si fidava interamente di nessuno al
ministero della giustizia o nel corpo di polizia cittadino, e ciò che aveva
appena visto fece calare ancora di più il suo livello di stima nei confronti di
quella gente, così chiamò l’unica persona che conosceva che sapeva essere al di
sopra di ogni sospetto in quanto a rettitudine.
«Procuratore Griffith? Scusi l’ora inappropriata, ma
avrei bisogno di parlarle. È molto urgente».
Jason non riusciva a togliersi dalla testa le parole del vecchio, che
a distanza di ore continuavano a risuonargli nelle orecchie.
L’autobus dove era salito lo aveva scaricato a due
miglia da casa, distanza che alla fine aveva percorso a piedi, lo sguardo piantato
a terra e l’espressione spenta.
Non era sicuro di poter davvero cambiare il destino
che Kyrador non sembrava volerlo aiutare a cambiare,
ma almeno per quanto riguardava Pam una decisione
l’aveva presa.
Si convinse a ritrovarla.
Almeno lei non voleva perderla. Voleva fare qualcosa
di giusto nella sua vita.
Con questo pensiero in testa si risolse infine a
tornare verso casa, un appartamentino piccolo e umile al secondo piano di una
palazzina che stava quasi sotto il Rainbow Bridge.
Aveva giusto il tempo di farsi una veloce dormita
prima di prendere servizio al museo, e finito il turno sarebbe andato a cercare
Pam all’ambasciata di Fhirland
nel tentativo di farla ragionare, e convincerla a smettere con quell’esistenza
pericolosa.
Stava quasi per infilare la chiave nella serratura,
quando un rumore di sassi calpestati gli fece girare lo sguardo, e grande fu il
suo stupore quando vide camminare nella sua direzione il biondino che aveva
umiliato alla sala giochi, sorridente e sicuro di sé come qualcuno che sente di
avere tutto sotto controllo.
«Ce ne hai messo di tempo. Lo sai quante ore sono
che ti aspetto?»
«Che vuoi?» domandò il ragazzo, che non aveva né
tempo né voglia di intavolare una discussione, o peggio ancora una rissa
«Ho chiesto di te alla sala giochi, e mi hanno detto
dove abitavi. Jason, giusto?»
«Mi spiace, non concedo autografi. Ripassa più
tardi.»
«Molto spiritoso. Cos’è, ti è bastato vincere un
incontro per crederti chissà chi? Quello per me era solo riscaldamento.»
«Se hai finito, vorrei andare a letto. A differenza
di te, io ho un lavoro, e mi piacerebbe andarci con qualche ora di sonno sulle
spalle.»
«Incredibile. Ancora non mi hai riconosciuto?»
«Cosa!?»
Il biondino sorrise di nuovo, quindi mise una mano
nel taschino del gilè, prendendone fuori un articolo di giornale scaricato sul
suo comunicatore che mostrò a Jason, il quale solo a quel punto riconobbe la
persona che aveva davanti.
«Owen Clark» esclamò ad occhi sbarrati. «Il capitano
dei Vivid.»
«Alla buon’ora. È dura trovare qualcuno che non mi
riconosca appena mi vede. Il lato spiacevole dell’essere i campioni regionali
in carica della categoria a squadre.»
«Sfortunatamente» rispose Jason abbozzando un
sorriso imbarazzato. «Io tifavo per quegli altri».
Owen rise alla battuta, per poi farsi serio.
«Sei in gamba. Mi sei piaciuto per come combatti.
Sei sfrontato e imprevedibile. Non hai paura di prendere di petto chi ti è
apparentemente superiore, una qualità rara nel chandra
professionistico.
L’anno prossimo i Vivid
parteciperanno alle selezioni nazionali per le olimpiadi di Eyban
del 355, ma immagino che lo saprai già. Contavamo di andarci tutti insieme, ma
il caso ha voluto che due dei nostri non abbiano saputo resistere al richiamo
dei combattimenti in solitaria».
Quindi, fu il momento della proposta che Jason aveva
atteso tutta la vita.
«Ora alla squadra mancano un tiratore scelto e un
combattente. Il tiratore credo di averlo già trovato, mentre per il
combattente, mi domandavo se fossi interessato».
Jason sentì un nodo allo stomaco, e le chiavi gli
scivolarono di mano.
«Bene inteso, non sarà facile. Ci sono altri quattro
potenziali sostituti, e solo alla vigilia delle selezioni sceglieremo il
fortunato. Dovrai sudartelo questo posto, ma se continuerai a mostrare le
stesse qualità di ieri sera, confido che avrai buone possibilità di entrare in
squadra».
Era come un sogno. Non poteva crederci.
Allora, non era solo una favola.
Quella città aveva davvero il potere di fare avverare
i sogni. Era davvero la terra in cui tutto era concesso, dove chiunque poteva
arrivare al traguardo tanto sognato.
L’aveva denigrata, rimproverata, rinnegata per tutte
le delusioni che gli aveva dato, ma ora che finalmente aveva fatto cadere su di
lui la sua benedizione, Jason la sentì come la cosa più bella del mondo.
Il suo inferno fattosi paradiso.
Una violenta esplosione di energia deflagrò dentro
di lui, e senza sapere perché si mise a correre, seguito con gli occhi da un
sorridente Owen, che allo stesso modo aveva conosciuto Kyrador
prima come un inferno, e poi, con il tempo, come un paradiso, e che quindi
poteva capire i sentimenti sbocciati davanti ai suoi occhi nel cuore di quel
ragazzo.
Jason corse, corse come non mai, inerpicandosi su
per il viadotto e quindi lungo Rainbow Bridge, alla
ricerca di un modo per fare uscire tutta quella energia che minacciava di
scoppiargli nelle vene. Ogni altro pensiero era sparito, pensava solo a
correre.
Nel mentre, il sole iniziava la sua ascesa nel
cielo, benedicendo Kyrador con la sua luce e dando
inizio ad un nuovo giorno per la più bella città di Celestis,
la terra dove i sogni diventano realtà, e dove tutto può succedere.
Raggiunta Harris Island Jason continuò a correre,
sempre più veloce, e raggiunta la statua dell’esploratore vi si arrampicò come
un ragno, giusto in tempo per veder comparire la prima fetta di sole da dietro
l’imponente cintura dei palazzi del centro, quell’eremo di felicità e di
perfetta utopia che per lungo tempo aveva osservato da lontano, ma che ora di
colpo gli pareva un po’ più vicino, alla sua portata.
«Io ti amo, Kyrador!» urlò
a pieni polmoni.