Storie originali > Fantasy
Segui la storia  |       
Autore: Carlos Olivera    19/11/2014    0 recensioni
Kyrador.
La più bella cosa che esiste al mondo.
Kyrador è il sogno di ogni uomo.
E' una pudica fanciulla che accende i desideri.
E' una veemente pantera che fa di te la sua preda.
E' una ricca vedova che promette molto ed esige il doppio.
Kyrador ti possiede.
Kyrador ha tutto ciò che puoi desiderare.
Può darti la felicità o condurti alla miseria.
Farti provare la gioia più sconfinata e il più assoluto dolore.
E' il piacere e l'agonia.
Il bianco e il nero.
La vita e la morte.
Semplicemente, Kyrador
Genere: Science-fiction, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
- Questa storia fa parte della serie 'Tales Of Celestis'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

5

 

 

Rimasta sola, perché così si sentiva, Pam soffocò sul nascere le lacrime ributtandosi nella lilith.

Sniffò, sniffò e sniffò ancora, nel disperato tentativo di far uscire tutti quei pensieri dalla testa, tutti quei sensi di colpa.

Dopo aver svuotato il portamonete pagò con tutto quello che aveva, dal fermacapelli al braccialetto d’oro ricevuto per il suo ultimo compleanno, l’ennesimo tentativo del padre di accattivarsi i suoi favori con regali costosi.

Teoricamente Thojir aveva con sé abbastanza stupefacenti da far collassare metà dei presenti, ma non voleva trovarsi tra le mani una strafatta che gli crollava davanti agli occhi o peggio, e all’ennesima richiesta delirante di Pam di mettere nuovamente mano alla sua scorta rispose con un rifiuto.

«Direi che per stasera ne hai sniffata anche troppa. Torna domani e te ne darò ancora.»

«Come sarebbe domani? Io la voglio adesso!».

Pam era talmente fuori di sé che cercò persino di strappare il sacchetto dalle mani di Thojir, il quale non aveva la stessa gentilezza di Jason e rispose con un tremendo ceffone che scaraventò la ragazza a terra.

«Vattene, prima che perda la pazienza».

La poveretta si rialzò a fatica, sia per la violenza del colpo che per i paurosi giramenti di testa che ormai non le davano tregua, e barcollando si diresse a fatica verso l’uscita, guardata con un misto di incredulità e disgusto da coloro cui andò inavvertitamente addosso nel suo incedere stentato.

Una volta fuori si incamminò senza meta per le strade buie, sotto una pioggia scrosciante, senza sapere dove andare o cosa fare, mentre ai capogiri si erano nel frattempo andati a sommare violenti spasmi, tosse e conati che a stento riusciva a controllare.

Sembrava ubriaca da come andava da una parte e dall’altra, incapace di procedere lungo una linea retta.

Tutto le girava intorno, tutto era in movimento, e non riusciva a pensare lucidamente, annebbiata com’era dai fumi della lilith.

Forse quella roba, pensò con uno scampolo di lucidità, non era così di buona qualità come credeva.

O forse, e qui la colse la paura, questa volta aveva davvero esagerato.

Crogiolatasi da sempre nella certezza di poter sopportare tutto grazie alla sua attitudine alla magia, non aveva mai dato peso alle chiacchiere e ai timori di chi aveva tentato di rammentarle i pericoli della lilith, confidando nelle aride cifre delle statistiche che ripetevano ogni volta come fosse quasi impossibile, per un’aspirante stregone, andare incontro ai ben noti e spaventosi effetti collaterali della polvere blu.

E invece, ora, si sentiva male come non lo era mai stata, il corpo intero sembrava essersi trasformato in un enorme puntaspilli conficcato in ogni parte, ed ogni passo, ogni respiro, ogni sbattere di ciglia era un’agonia.

Come se non bastasse la vista, già provata dall’acqua che cadeva ininterrottamente dal cielo, le si era appannata, al punto da renderle quasi impossibile distinguere nitidamente ciò che aveva attorno, il che le aveva impedito di rendersi conto di essere giunta, nel suo peregrinare senza meta né ragione, nei pressi della superstrada.

Data l’ora, in girò non c’era quasi più nessuno.

Una coppietta di liceali si stava avviando in tutta fretta verso la fermata della metro al riparo di un ombrello, ed entrambi restarono paralizzati per lo stupore quando si videro venire incontro quella ragazza fradicia e ridotta ad uno straccio, i lunghi capelli arruffati e gocciolanti, il naso rosso come spellato e la bocca coperta di escrescenze disgustose che, mescolate all’acqua, avevano formato una sorta di schiuma densa e bianca.

«Aiutatemi…» mormorò agonizzante protendendo un braccio verso di loro.

Dapprincipio non seppero cosa fare, ma quando si avvidero che l’arto era ricoperto da grosse e molto minacciose scaglie simili a enormi croste color roccia si spaventarono al punto di correre via nella direzione da cui erano venuti, intimando al mostro di stare lontano.

Sentendosi chiamare mostro Pam avvertì un nuovo, ulteriore colpo al cuore, ed inginocchiatasi a terra vomitò quello che per molti minuti era riuscita a tenere dentro, ma solo quando vide essa stessa le croste di cui non solo il braccio, ma tutto il suo corpo era ricoperto l’orrore si impadronì di lei.

Stava succedendo.

Quei due ragazzi non avevano esagerato chiamandola mostro.

Era esattamente quello che stava diventando.

Lo sarebbe diventata, senza dubbio.

Si sarebbe trasformata in una di quelle orride creature che aveva visto molte volte alla televisione, bestie animali che attaccavano e uccidevano chiunque prima di venire a loro volta abbattute.

Urlò, urlò con tutta la sua voce, e sull’orlo della pazzia prese a correre in ogni direzione, senza logica, mugolando versi incomprensibili mescolati a grida strazianti, mentre cercava a forza di graffi di strapparsi di dosso quelle scaglie, che pur avendo smesso di crescere le provocavano più dolore di una distesa di piastre arroventate.

Ben presto, la paura prese il sopravvento, rendendola sorda a qualunque altra cosa, compresa una luce abbagliante che da un istante all’altro le comparve davanti accecando quanto restava dei suoi occhi.

 

Sean non riusciva ancora a concepire quello che aveva fatto, e invece di dirigersi verso casa come avrebbe voluto aveva finito per svoltare all’incrocio sbagliato, trovandosi a girovagare senza meta per le strade che costeggiavano il porto.

Il senso di tutto ciò gli sfuggiva ancora, e benché cercasse con tutto sé stesso di convincersi che quello che aveva fatto era servito a salvare la sua vita e la sua carriera quella era la prima volta che uccidere qualcuno gli provocava un simile turbamento d’animo.

Di certo non c’entrava il sentimento.

Anche se quel truffatore forse aveva finito per pensare il contrario, lui non aveva mai considerato Vick un amico, ma solo un tipo equivoco del quale fidarsi al bisogno, un male necessario insomma.

Ma se era davvero così, se l’amicizia non ci aveva niente a che fare, non riusciva a spiegarsi da dove venisse tutto quel rimorso.

Probabilmente la causa era alla radice.

Si era sempre reputato una persona onesta, e fino a pochi anni prima mai si sarebbe visto nelle fila dei corrotti, di quelli che prendevano soldi dalle corporazioni criminali o dai trafficanti per tenere le strade di periferia pulite e le attività criminali lontane dalla luce del sole in cambio di un occhio di riguardo davanti alla legge.

Nelle periferie tutto aveva un prezzo, inclusa la sicurezza, e lui aveva accettato di prendere la sua parte.

In fin dei conti era un discorso molto semplice. Quello che non si poteva contrastare lo si comprava, e chi si faceva comprare a sua volta comprava la certezza dell’immunità. Era come un cerchio senza fine, e una volta entratici si poteva uscirne solo con la prigione, o dentro una bara.

Bisognava farci l’abitudine ed accettarlo, e se solo Vick lo avesse capito, invece di correre dietro ai soldi come al solito, forse sarebbe rimasto vivo.

Il giorno dopo sarebbe tornato al museo, e con un po’ di fortuna avrebbe trovato anche la scheda originale nelle mani di qualche inserviente. Una volta distruttala tutto sarebbe finito, e la vita avrebbe ripreso a scorrere per il suo corso naturale.

Fatta pace con la coscienza, almeno per un po’, l’ispettore si risolse ad andarsene a casa, ma d’improvviso, dal nulla, una figura gli comparve davanti alla macchina emergendo dal muro di pioggia e costringendolo ad una improvvisa sterzata

Riuscì a fermarsi solo dopo essersi giocato il parafango contro la ringhiera che delimitava il marciapiede, e sceso dalla macchina si affrettò a sincerarsi delle condizioni di quell’aspirante suicida.

Ciò che vide lo lasciò sgomento.

A terra, riversa agonizzante sull’asfalto bagnato, c’era una ragazza, ben vestita ma in uno stato pietoso, il corpo ricoperto di orrendi crostoni, la bocca impiastrata di vomito e gli occhi completamente rigirati all’indietro.

Non l’aveva certamente investita, ma ciò non toglieva che stesse comunque molto male.

Una drogata sicuramente, merce neanche troppo rara in quella parte della città, ma di sicuro non una qualsiasi a giudicare dai costosi indumenti che portava.

Il problema erano quelle croste.

Sean si inginocchiò davanti a lei, passandovi sopra il suo comunicatore per fare un rapido check-up dall’esito impietoso, ma non drammatico come pensava. Era viva, ma la mutazione era già incominciata, e a meno di non fare qualcosa subito sarebbe stata irreversibile.

Per un attimo l’agente fu combattuto su cosa fare, perché sapeva che avvertendo i soccorsi gli avrebbero sicuramente chiesto di spiegare cosa ci facesse in un posto simile nel cuore della notte, ma poi la sua coscienza di poliziotto ebbe il sopravvento, e senza ulteriori esitazioni si mise in contatto con la centrale più vicina.

«Sono l’agente Sean Neeson. Quarta postazione, nono distretto. Serve subito un’ambulanza con unità disintossicante all’incrocio tra Caledonia Avenue e la quarta strada. Abbiamo un nove-uno in fase embrionale.»

«Qui centrale operativa» rispose una voce dall’altra parte. «I soccorsi arriveranno in cinque minuti».

 

L’ambasciatore Klose aveva atteso sua figlia fino ad oltre mezzanotte prima di risolversi ad andarsene a letto, mugugnando che quella sarebbe stata l’ultima bravata di Pam per un bel po’ di tempo.

Una telefonata tirò giù dal letto lui e la moglie nel cuore della notte, e per un attimo il cuore dell’uomo si fermò in petto quando riconobbe all’altro capo della linea la voce del suo amico dottor Borisov, primario di chirurgia del Columbus Hospital.

Per fortuna, tra le varie cose che Pam si era venduta per comprare la polvere non vi era il suo tesserino di riconoscimento dell’ambasciata, altrimenti sarebbe finita in qualche ospedale di quart’ordine, invece che nella migliore struttura sanitaria della città.

L’ambasciatore e sua moglie corsero come pazzi a bordo del primo taxi che riuscirono a trovare, e una volta all’ospedale vi trovarono anche Christofer, avvertito a sua volta durante una festa di addio al celibato di un amico.

«Dov’è tua sorella?» domandò Klose con un’espressione che suo figlio e sua moglie non gli avevano mai visto quando l’oggetto della discussione era sua figlia Pam

«È ancora in sala operatoria».

Grazie al cielo le condizioni di Pam erano apparse meno gravi di quanto inizialmente pensato, e al termine di un lungo intervento di disintossicazione era stata dichiarata fuori pericolo.

Purtroppo però, le buone notizie finivano qui, e ce ne si accorse nel momento in cui, ripresa conoscenza, Pam non riuscì a riconoscere né sua madre né suo fratello, dimostrando oltretutto un livello cognitivo e comportamentale più simile a quello di una bambina che di una diciottenne.

Il dottor Borisov prese da parte l’ambasciatore chiamandolo fuori dalla stanza.

«La droga non ha intaccato l’M-Code, ma dei danni li ha comunque fatti.»

«Di che stai parlando, Ivan?»

«Per poterla salvare, siamo stati costretti ad eseguire un drenaggio massiccio, ma le particelle nocive nel frattempo hanno danneggiato la corteccia cerebrale. È probabile che non ricorderà nulla di quanto accaduto, ma questo sarà il minimo.»

«Che vuoi dire?» domandò l’ambasciatore

«Ho già avuto a che fare con contaminazioni di questo tipo. Penso di poter escludere danni cerebrali significativi, ma abbiamo rilevato una sorta di regressione cognitiva provocata dai danni alle attività cerebrali.

È come se il suo cervello fosse tornato indietro ad un’età infantile».

L’ambasciatore si passò una mano sul volto, e volse un momento lo sguardo verso la parete vetrata che separava la stanza dal corridoio. Pam era ancora sul letto, assieme a Chistofer e a sua madre, intenta a colorare un album regalatole da alcune infermiere.

«E sarà…» mormorò con un filo di voce. «Irreversibile?»

«È del tutto soggettivo. Certo, la sua predisposizione alla magia fa propendere per l’ottimismo. La sua mente potrebbe tornare quella di prima da un momento all’altro. Oppure potrebbe ricominciare tutto daccapo, e con un po’ di pazienta età del corpo e della mente potrebbero tornare in pari.» quindi il dottore sospirò, facendosi scuro in volto «O potrebbe restare così a vita».

Di nuovo, l’ambasciatore guardò in basso, sull’orlo delle lacrime.

Solo in quel momento comprese veramente la portata dell’errore che aveva commesso, e maledì la sua incapacità come capofamiglia e come padre.

Aveva sbagliato tutto con quella ragazza, e ora entrambi ne pagavano le conseguenze.

Ma ormai piangere sul latte versato era inutile. Il passato non si poteva cambiare, neanche con tutta la magia ed il sapere del mondo. Tutto quello che poteva fare era cercare di recuperare il tempo e la figlia perduti, anche a costo di sacrificare molte altre cose, incluso il suo lavoro.

«Grazie.» disse cercando di farsi forza «Sei sempre un amico».

Cercando di guardare al futuro con più ottimismo possibile l’ambasciatore entrò nella stanza, offrendosi di dare il cambio alla moglie e al figlio nel tenere d’occhio Pam mentre loro andavano a prendere un caffè, quindi, rimasto solo con la figlia, andò a sedersi al suo fianco vicino al letto.

Guardandola sorridere, sentì qualcosa svegliarsi nel suo cuore.

L’ultima volta che l’aveva vista ridere e divertirsi in quel modo non riusciva neanche più a ricordarla; forse perché era passato troppo tempo, o forse perché non se n’era mai accorto.

«Signore, le piace?» domandò la ragazza mostrando al padre il giardino fiorito che aveva appena finito di colorare.

Lui sorrise, guardandola dolcemente e passandole una mano nei capelli.

«È bellissimo».

 

Jason si ritrovò ad un certo punto a camminare da solo per le strade di Kyrador, al buio, con la pioggia che cadeva incessantemente infradiciandogli i capelli ed appiccicandogli i vestiti alla pelle.

Forse aveva passato la misura.

Se n’era andato perché non voleva rivivere quanto già successo tre anni prima a suo fratello, ma a ben pensarci in fin dei conti non aveva fatto altro che scappare, di nuovo.

Quando gli scrosci divennero troppo forti, il giovane andò a rifugiarsi al riparo del casotto di una fermata d’autobus, abbandonandosi sulla panchina di attesa con la mente da tutt’altra parte.

Pam aveva i suoi difetti, ma alla fine era solo una ragazza senza certezze schiacciata da qualcosa più grande di lei, che come Alex aveva cercato altrove quel rifugio che la famiglia non aveva saputo essere.

D’altra parte, però, Jason sentiva di non avere la forza per passarci un’altra volta, senza contare che non riusciva a spiegarsi come mai una ragazza conosciuta solo poche ore prima potesse dargli un tale tormento d’animo.

A capo chino, gli occhi piantati sul pavimento sporco e bagnato, contava con la mente le gocce che scivolando giù dai capelli bagnati ticchettavano per terra alla luce fioca di una lampada, mentre davanti lui, lungo la strada deserta, di tanto in tanto transitava qualche autobus; alcuni si fermavano, facendo scendere uno o due passeggeri, che preoccupati solo di tornare a casa quanto prima passavano accanto al giovane senza quasi accorgersi di lui.

«È raro incontrare qualcuno a quest’ora e a questa fermata.» sentì dire ad un certo punto

Il ragazzo alzò gli occhi: dinnanzi all’ingresso aperto del box era comparso un anziano signore, abiti semplici e sguardo gentile, più o meno riparato dalla pioggia sotto un ombrello che doveva sicuramente aver conosciuto tempi migliori.

«Aspetti un autobus?» domandò sedendosi accanto a lui

Lui non rispose, guadagnandosi un’occhiata perplessa, ma comunque amichevole.

«Questi temporali di fine primavera sono una vera seccatura. Ricordo che una volta, molti anni fa, ce ne furono tantissimi, uno dietro l’altro e tutti molto violenti, tanto che il fiume tracimò e la parte bassa della città si ritrovò sommersa per due interi giorni.

Le strade erano piene di gente che spalava, e c’era fango dappertutto. Persino la piazza dell’orologio era stata distrutta.»

Jason piegò le labbra in una espressione di rassegnazione mista a divertimento.

Sicuramente si riferiva alla Grande Alluvione del centosessantatre che aveva cancellato un intero quartiere costringendo le autorità a deviare sia il corso che la foce del fiume Rytumouth lontano dal centro della città, ma quel vecchio gli aveva dato subito l’idea di non starci tanto con la testa.

«Anche lei però mi sembra un po’ troppo anziano per girare di notte e con un simile tempaccio. Non ha paura che le venga qualche malanno?»

«Ragazzo mio, queste mie vecchie ossa ne hanno passate così tante che non sarà certo un po’ di pioggia ad incrinarle.»

Ma Jason aveva ben poca voglia di parlare, ed il suo improvvisato interlocutore non faticò ad accorgersene.

«C’è qualcosa che non va, figliolo?»

«Probabilmente nulla che lei possa capire. Con tutto il rispetto.»

«Mettimi alla prova. Potrei sorprenderti. Del resto, se c’è qualcosa che ci tormenta è sciocco tenerselo dentro.»

Jason non aveva la benché minima idea di chi fosse quel vecchio con l’espressione ebete, chiacchierone e anche un po’ invadente, eppure non riuscì a resistere all’impulso di parlare, riversando in poche parole tutta l’inquietudine e il senso di impotenza che in qualche modo si era sempre portato nell’animo, e che gli eventi di quella sera avevano in fondo solo contribuito a far riaffiorare.

L’anziano ascoltò, senza proferire parola, quasi il suo intento fosse appunto solo quello di dare al giovane un’occasione per sfogarsi.

«E me ne sono andato» concluse infine Jason. «Non ce la facevo a passarci un’altra volta. Non dopo quello che è accaduto a mio fratello.

Io capisco Pam, anche se non posso dire di sapere sul serio quello che sta passando, ma d’altra parte l’idea di dover rivivere un’altra volta quel tormento mi fa tremare le gambe.»

«Io purtroppo non posso dire di conoscere le persone come conosco questa città,» disse l’anziano dopo un lungo silenzio. «Ma in fin dei conti, Kyrador, come qualunque altra opera architettonica piccola o grande, è frutto del lavoro dell’uomo.

Quindi, in qualche modo, è come se ne rispecchiasse la personalità.

Ci sono tante luci, ma anche tante ombre. La maggior parte delle persone che vivono circondate dalla luce vogliono credere che la loro realtà sia universale, e scelgono di ignorare il buio che si annida oltre la siepe delle loro convinzioni.

Forse hanno paura, o forse non vogliono distruggere quel sogno di quiete in cui vivono, anche a costo di sapere, nel profondo del cuore, che si tratta appunto solo di un’illusione.

Ma di una cosa sono certo. Non lo fanno per cattiveria, né per cinismo.»

«La città… sarebbe come le persone!?» disse stupito Jason

«Una città è forse la cosa materiale più vicina alla natura della mente umana. Ci sono gioie, dolori, sogni, incubi, speranze, illusioni. L’Uomo è speciale perché è poliedrico, e racchiude al suo interno entrambe le facce dell’esistenza. L’infinita complessità della sua mente può portarlo a raggiungere i più incredibili traguardi come spingerlo alle azioni più abominevoli.»

L’anziano alzò gli occhi ad osservare le gocce di pioggia che tamburellavano sulla superficie trasparente del casotto.

«Chi vive nella luce ha paura di guardare l’oscurità, soprattutto se l’ha già conosciuta. Ma è solo accettando e comprendendo il dualismo insito in ogni cosa che si può arrivare ad avere piena coscienza dell’infinita complessità dell’essere umano, ed eventualmente anche le ragioni che talvolta lo portano ad agire in modo sbagliato» quindi il vecchio intercettò lo sguardo di Jason, trafiggendogli l’animo. «Senza contare che chi ha il coraggio di guardare nel buio quasi sempre è anche colui che riesce a combatterlo.»

Jason sussultò, spalancando leggermente la bocca.

«Avere la forza di guardare nel buio con la convinzione di poter aiutare chi si trova al suo interno e vorrebbe uscirne, anche se non lo sa.

Questa è la maggior prova di forza che un essere umano possa dimostrare.»

Quelle parole risuonavano come le trombe del giudizio, martellando la mente di Jake senza tregua.

Forse quel vecchio svitato aveva ragione: forse cercare di salvare Pam, o quantomeno starle vicino, era l’unico modo per mettere a tacere quella coscienza che lo tormentava ogni qualvolta ripensava a suo fratello.

Ma non c’era solo quello a turbarlo, e l’anziano ne sembrava consapevole.

«Il fatto è che non posso fare a meno di pensare che quella ragazzina viziata in fin dei conti ha ragione.

Io sono solo un fallito. Ho fallito con mio fratello, ho fallito venendo in questa città. Ho fallito in ogni cosa.

E ora sono ridotto così. Mi trascino ogni singolo giorno come un cane bastonato aspettando la sera, in un circolo vizioso che si ripete all’infinito.

E dire che quando sono arrivato qui mi sentivo così carico, così pieno di energia e di aspirazioni.

Mi avevano detto che qui a Kyrador tutti i sogni potevano diventare realtà, ma il mio è andato a sbattere contro il muro di pietra della realtà.

Mi domando se persino in un mondo come questo valga ancora la pena di sognare.»

«Credimi, ne vale la pena. Soprattutto qui.»

Di nuovo, il giovane trasalì.

«Lo hai detto tu. Questa è la terra dei sogni. Piccole o grandi, semplici o sterminate, tutte le ambizioni in questo luogo hanno il potere di mutarsi in realtà.

E a chiunque dimostri di possedere la forza e la determinazione necessarie per andare avanti affrontando ogni sorta di avversità, Kyrador concede sempre l’occasione di realizzare i propri sogni. Il tutto è saperla cogliere quando si presenta.»

«Il problema è proprio questo. Non sono più sicuro di avere la forza per lottare.»

«Allora, neanche Kyrador di aiuterà. Lei premia solo chi persevera e non si arrende, o anche solo chi nonostante tutto ha ancora la forza di credere nella sua magia. Perché a seconda che si combatta con più o meno forza, è il fatto stesso di credere in lei a generare la magia.»

Jason girò lentamente la testa, ed i due si guardarono nuovamente negli occhi.

«Credi, ragazzo. Credi in te stesso e credi in Kyrador. E lei ti premierà.»

In quel momento un altro autobus si fermò davanti al casotto, lasciando scendere una coppietta di ritorno da una serata di piacere.

«È la tua linea?» domandò il vecchio senza guardare né Jason né il mezzo

«Sì…» rispose il ragazzo con un filo di voce

In realtà non sapeva neppure di che linea si trattasse, ma un attimo dopo era comunque a bordo, seduto in ultima fila; il tormento che gli si agitava in petto era tutt’altro che scomparso, eppure in qualche modo sembrava essersi alleggerito, benché quel turbinio di emozioni e pensieri riuscisse ancora a togliergli concentrazione rendendolo incapace di pensare lucidamente.

Stette ad osservare il volto, sorridente ed insieme severo, di quello strambo vecchio fino a che l’autobus non si fu rimesso in moto, e fatta meno di una decina di metri, volle girarsi un’ultima volta, ma fattolo si avvide, non senza una certa sorpresa, che nel casotto non c’era più nessuno, a parte un vecchio ombrello chiuso malamente che grondava acqua appoggiato sulla panchina.

 

Lee fu costretto a svegliarsi molto presto, prima ancora del sorgere del sole, per l’ennesimo viaggio di lavoro.

Fu sorpreso di non trovare Sandy al suo fianco, ma lo fu ancora di più quando, uscito dalla doccia, la incontrò in cucina, intenta a preparare la colazione e un cestino da viaggio.

«Che ci fai in piedi a quest’ora?»

«Ho pensato di farti una sorpresa. Dopotutto sarà un viaggio lungo, e la roba che propinano nei vagoni ristoranti è una tale porcheria».

Lee sorrise. Ogni volta che la guardava rimaneva sorpreso da quanto la amasse. Stare lontano da lei e dalla sua adorabile figlia era un tormento, e pregava che prima o poi venisse per lui il momento di raggiungere quel traguardo che inseguiva da così tanto tempo.

Mentre aspettava che le uova finissero di cuocere si sedette, e per caso l’occhio gli cadde su di una scheda di memoria appoggiata in un angolo del tavolo.

«E questa?»

«Già, mi sono dimenticata di dirtelo ieri sera. Ally l’ha trovata ieri durante la gita. Qualcuno deve averla persa, e andando via lei si è dimenticata di consegnarla a qualcuno. Oggi la accompagno a scuola e poi passerò a restituirla».

Più per curiosità che per altro Lee provò ad inserirla nel suo comunicatore, ma come fiumi di nomi, numeri ed immagini presero a scorrere davanti ai suoi occhi la sua espressione si caricò di stupore, unito ad un senso di sdegnata incredulità.

«Oh, mio Dio…» mormorò esterrefatto.

«Che succede?» gli chiese stranita la moglie

«Dove hai detto che l’ha trovato?»

«Al museo. Dentro la replica della nave coloniale».

Lee non si fidava interamente di nessuno al ministero della giustizia o nel corpo di polizia cittadino, e ciò che aveva appena visto fece calare ancora di più il suo livello di stima nei confronti di quella gente, così chiamò l’unica persona che conosceva che sapeva essere al di sopra di ogni sospetto in quanto a rettitudine.

«Procuratore Griffith? Scusi l’ora inappropriata, ma avrei bisogno di parlarle. È molto urgente».

 

Jason non riusciva a togliersi dalla testa le parole del vecchio, che a distanza di ore continuavano a risuonargli nelle orecchie.

L’autobus dove era salito lo aveva scaricato a due miglia da casa, distanza che alla fine aveva percorso a piedi, lo sguardo piantato a terra e l’espressione spenta.

Non era sicuro di poter davvero cambiare il destino che Kyrador non sembrava volerlo aiutare a cambiare, ma almeno per quanto riguardava Pam una decisione l’aveva presa.

Si convinse a ritrovarla.

Almeno lei non voleva perderla. Voleva fare qualcosa di giusto nella sua vita.

Con questo pensiero in testa si risolse infine a tornare verso casa, un appartamentino piccolo e umile al secondo piano di una palazzina che stava quasi sotto il Rainbow Bridge.

Aveva giusto il tempo di farsi una veloce dormita prima di prendere servizio al museo, e finito il turno sarebbe andato a cercare Pam all’ambasciata di Fhirland nel tentativo di farla ragionare, e convincerla a smettere con quell’esistenza pericolosa.

Stava quasi per infilare la chiave nella serratura, quando un rumore di sassi calpestati gli fece girare lo sguardo, e grande fu il suo stupore quando vide camminare nella sua direzione il biondino che aveva umiliato alla sala giochi, sorridente e sicuro di sé come qualcuno che sente di avere tutto sotto controllo.

«Ce ne hai messo di tempo. Lo sai quante ore sono che ti aspetto?»

«Che vuoi?» domandò il ragazzo, che non aveva né tempo né voglia di intavolare una discussione, o peggio ancora una rissa

«Ho chiesto di te alla sala giochi, e mi hanno detto dove abitavi. Jason, giusto?»

«Mi spiace, non concedo autografi. Ripassa più tardi.»

«Molto spiritoso. Cos’è, ti è bastato vincere un incontro per crederti chissà chi? Quello per me era solo riscaldamento.»

«Se hai finito, vorrei andare a letto. A differenza di te, io ho un lavoro, e mi piacerebbe andarci con qualche ora di sonno sulle spalle.»

«Incredibile. Ancora non mi hai riconosciuto?»

«Cosa!?»

Il biondino sorrise di nuovo, quindi mise una mano nel taschino del gilè, prendendone fuori un articolo di giornale scaricato sul suo comunicatore che mostrò a Jason, il quale solo a quel punto riconobbe la persona che aveva davanti.

«Owen Clark» esclamò ad occhi sbarrati. «Il capitano dei Vivid

«Alla buon’ora. È dura trovare qualcuno che non mi riconosca appena mi vede. Il lato spiacevole dell’essere i campioni regionali in carica della categoria a squadre.»

«Sfortunatamente» rispose Jason abbozzando un sorriso imbarazzato. «Io tifavo per quegli altri».

Owen rise alla battuta, per poi farsi serio.

«Sei in gamba. Mi sei piaciuto per come combatti. Sei sfrontato e imprevedibile. Non hai paura di prendere di petto chi ti è apparentemente superiore, una qualità rara nel chandra professionistico.

L’anno prossimo i Vivid parteciperanno alle selezioni nazionali per le olimpiadi di Eyban del 355, ma immagino che lo saprai già. Contavamo di andarci tutti insieme, ma il caso ha voluto che due dei nostri non abbiano saputo resistere al richiamo dei combattimenti in solitaria».

Quindi, fu il momento della proposta che Jason aveva atteso tutta la vita.

«Ora alla squadra mancano un tiratore scelto e un combattente. Il tiratore credo di averlo già trovato, mentre per il combattente, mi domandavo se fossi interessato».

Jason sentì un nodo allo stomaco, e le chiavi gli scivolarono di mano.

«Bene inteso, non sarà facile. Ci sono altri quattro potenziali sostituti, e solo alla vigilia delle selezioni sceglieremo il fortunato. Dovrai sudartelo questo posto, ma se continuerai a mostrare le stesse qualità di ieri sera, confido che avrai buone possibilità di entrare in squadra».

Era come un sogno. Non poteva crederci.

Allora, non era solo una favola.

Quella città aveva davvero il potere di fare avverare i sogni. Era davvero la terra in cui tutto era concesso, dove chiunque poteva arrivare al traguardo tanto sognato.

L’aveva denigrata, rimproverata, rinnegata per tutte le delusioni che gli aveva dato, ma ora che finalmente aveva fatto cadere su di lui la sua benedizione, Jason la sentì come la cosa più bella del mondo.

Il suo inferno fattosi paradiso.

Una violenta esplosione di energia deflagrò dentro di lui, e senza sapere perché si mise a correre, seguito con gli occhi da un sorridente Owen, che allo stesso modo aveva conosciuto Kyrador prima come un inferno, e poi, con il tempo, come un paradiso, e che quindi poteva capire i sentimenti sbocciati davanti ai suoi occhi nel cuore di quel ragazzo.

Jason corse, corse come non mai, inerpicandosi su per il viadotto e quindi lungo Rainbow Bridge, alla ricerca di un modo per fare uscire tutta quella energia che minacciava di scoppiargli nelle vene. Ogni altro pensiero era sparito, pensava solo a correre.

Nel mentre, il sole iniziava la sua ascesa nel cielo, benedicendo Kyrador con la sua luce e dando inizio ad un nuovo giorno per la più bella città di Celestis, la terra dove i sogni diventano realtà, e dove tutto può succedere.

Raggiunta Harris Island Jason continuò a correre, sempre più veloce, e raggiunta la statua dell’esploratore vi si arrampicò come un ragno, giusto in tempo per veder comparire la prima fetta di sole da dietro l’imponente cintura dei palazzi del centro, quell’eremo di felicità e di perfetta utopia che per lungo tempo aveva osservato da lontano, ma che ora di colpo gli pareva un po’ più vicino, alla sua portata.

«Io ti amo, Kyrador!» urlò a pieni polmoni.

 

  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: Carlos Olivera