Note: speravate in
altro Thunderfrost... e invece vi tocca l'ultimo interludio ;)
Forse spezza un po' il pathos del finale, ma ci tengo e non volevo
sprecarlo. Dedico questo capitolo a Kiki, che adora Jarnsaxa!
Di solito non consiglio "soundtrack", ma se volete sapere
cosa ha ispirato la scena principale -> LINK
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- INTERLUDIO -
Destino
Con secoli di guerra
e incursioni
nemiche alle spalle, Asgard ha imparato a ricostruirsi in fretta.
Mentre carpentieri e seiðrmaðr
finiscono di riparare o imbragare gli edifici danneggiati, le strade
vengono appianate, gli alberi abbattuti rimossi, le colline intorno
al lago Aerinmund scongelate e ripulite. Il rumore di pietre, marmi e
macchinari è costante. Quella sera, in tutto il regno si
potranno
onorare degnamente i caduti e festeggiare la vittoria.
Il
balcone della sua stanza si affaccia
verso ovest, su una panoramica del Fölkvangar.
Járnsaxa
non ha voglia di vederlo.
Dopo aver vegetato per ore sul suo letto, in un dormiveglia riposante
solo per il corpo, si alza e si guarda intorno. La camera di un
diplomatico è ricca e curata. E non ha niente che lo
interessi.
Esce
con una stola incrociata sul
petto.
I
corridoi del suo piano sono deserti.
Bene. Non vuole vedere– nessuno.
E
per questo è meglio scendere
piuttosto che salire. Sopra ci sono tutti gli appartamenti di corte.
Istintivamente imbocca i passaggi usati dal personale di palazzo,
trovando la scala secondaria. La illuminano nicchie con lume magico.
Scende gli scalini a chiocciola per uno, cinque, dieci pianerottoli,
sino a farsi girare la testa.
A
quel punto si aggrappa al passamano e
barcolla fuori, ritrovandosi fra pareti tappezzate di arazzi. Il
piano sotto Hlíðskjálf.
Non
gli interessa.
Torna
indietro e spiraleggia per altri
piani, senza contarli. I pochi servitori che incrocia gli lanciano
occhiate distratte, facendosi da parte con l'agilità
dell'abitudine.
Sono impegnati nella preparazione del banchetto; troppo da fare per
dar peso a uno Jötun
eccentrico.
Járnsaxa
torna nei corridoi nobili
quando ha raggiunto la parte inferiore del palazzo. Evita
accuratamente la Sala di Borr e si lascia distrarre dalle storie di
alcuni arazzi, dita che sfiorano le nappe dorate e creano onde.
Quelle
stanze sono silenziose.
Pacifiche. Vaga, alla deriva... ogni passo un sussurro di suole, un
segreto rivelato sottovoce.
Quando
intravede due rune graffiate
nell'intonaco di una nicchia, però, si ferma. (Scarabocchi
di
bambini.)
Laguz e thurisaz.
Ride
dal naso, secco. Non c'è terra
franca su questo suolo.
Asgard
rifulge ancor più dorata perché
ogni fascio di luce getta un'ombra profonda. Ogni suo luogo porta i
segni di Loki. Járnsaxa non aveva idea di quanto profondo
fosse il
suo possesso, e questo in fondo è un altro dei suoi
fallimenti:
Laufeyson è stato principe, diplomatico e quasi-consorte del
regno
per secoli di vita. E presto anche...
Anche
molto di più.
Si
volta, pensieroso. Non è mai stato
passionale come Gerð, pensa.
Si riprenderà presto.
Presto.
Continua
lento, senza una meta,
attraversando il vecchio cuore del Válaskjálf.
Nella luce del tardo
pomeriggio, i corridoi diventano stretti e tortuosi, i muri di
intonaco grezzo; ci sono scale e scalini di pietra che hanno visto
scendere migliaia di suole. I suoi piedi nudi fanno presa sui bordi
consunti.
Quando
arriva in una parte che non ha
visitato con Thor il pavimento diventa di terra battuta, protetta da
magia. In fondo al corridoio, poco più di un budello,
intravede una
rotonda che funge da incrocio con altri tre passaggi. E' piccola. Ha
mazzi di erbe e un arazzo appesi sulle pareti concave, fra gli usci,
e un senso di segreto che porta Járnsaxa a esitare.
Deve...
aver oltrepassato una porta di
solito è chiusa, finendo in un'ala privata. Forse dovrebbe
tornare
indietro.
Quando
gira su se stesso lo raggiunge
un rumore d'acqua. Un gocciolio che cresce in sciacquio sommesso.
Járnsaxa ascolta.
Sembra
quasi una voce, e lo chiama.
Si
è mosso prima di rendersene conto.
Una volta al centro della rotonda guarda un corridoio spoglio, poi un
altro, ma l'acqua è vicina – adesso scorre come un
rio di
montagna, proprio a pochi passi. Sull'arazzo una fanciulla bionda
versa acqua da una brocca, circondata da creature della foresta. Gli
orli della stoffa lasciano passare uno spiffero. Járnsaxa
alza il
braccio e lo scosta.
Oltre
c'è il luogo più... non ha
parole per finire.
Il
polmone segreto di Asgard,
pensa. Forse è la magia di quel luogo a dirglielo.
In
segno di rispetto si ferma sulla
soglia, cuore che corre.
La
sala è di roccia viva: è buia,
profonda e fresca come una grotta, con stalagmiti sottili che si
avvitano verso la volta irregolare. Uno stillicidio di falda ne
illumina a tratti le venature, intersecate da incisioni runiche; luce
senza sorgente soffonde ogni superficie, rivelando per terra un
mosaico i cui rami frondosi guidano i passi. Dev'essere a livello del
terreno, forse anche più in basso. Voci femminili mormorano
canzoni,
riverberando sulle pareti e mescolandosi al sottofondo acqueo.
Il
pavimento del sacrario è in salita.
Al centro, lungo il tronco fittile di Yggdrasil, sette polle
circolari affiancano come grappoli tre vasche scavate nella roccia.
Le
polle sono grandi calici di marmo,
metallo, pietra, forse anche osso, coperti di rune o nudi. Quattro a
sinistra, tre a destra – alcune leggiadre altre solide, e si
riversano nelle vasche grazie a bracci che si volvono e convolvono.
La
fontana scende verso Járnsaxa,
sviluppandosi in profondità più che in altezza. E
tuttavia lui si
sente sovrastato.
Sembra
non esserci nessuno. Trattenendo
il fiato, avanza di un passo.
Il
mosaico è fresco e leggermente
umido. D'improvviso si sente creatura acquatica (lontra, salmone
guizzante) e pianta di sottobosco, con radici aggrappate nelle
profondità del terreno. Lì dentro la vita vibra
con una potenza
diversa.
Tra
le stalagmiti alla sua destra
compare la regina madre. Sorride, maniche del vestito verde che
ondeggiano sfiorando il pavimento.
«Benvenuto
alla Fontana di Mímir,
Járnsaxa figlio di Jønir.»
Mímir.
«Non
può essere» mormora, scettico,
guardando le vasche e dimenticando di scusarsi, dimenticando
qualsiasi buona maniera.
«Hai
ragione.» Gli va incontro,
aprendo le braccia in segno di accoglienza. «Non è
quel luogo, se
mai è esistito. Ma è così che lo
chiamiamo noi» Járnsaxa la
guarda, agitato da sentimenti confusi «perché
mostra molte cose a
chi sa osservare.»
«Mia
regina?»
«Oh,
chiamami Frigga, bambino» dice,
gentile, posandogli le dita di una mano nell'incavo del braccio.
Járnsaxa
non sa cosa dire. Si
accontenta di un: «Io non ho quel dono, mia
signora.»
Lei
continua a sorridere.
«Vieni
con me?»
La
segue. Frigga Fyörgindottir ha
l'eloquio di un diplomatico e la grazia di una madre. E' difficile
non accontentarla.
Quando
sono accanto alla fontana,
circondati da colonne ruvide e dal brillio delle pareti umide, da cui
erompono figure di ninfe e strane creature, Frigga alza una mano dal
bel polso.
«Questo
è il luogo dove molte cose
possono essere taciute, e molte rivelate. Un tempo vivevo qui gran
parte dei miei giorni, alla ricerca di una risposta. Ho imparato
molto. Mi parlava e parla ancora attraverso l'acqua.»
Járnsaxa
viene attraversato da un
tremito. «Chi parla? Dove
siamo?» sussurra.
La
regina lo guarda un istante. «In un
luogo sacro senza storia e senza età, che io ho trovato e
tenuto al
sicuro.» Si ferma a riflettere. «Potremmo chiamarla
una convergenza
di energie quasi infinite, di natura insondabile. Forse un luogo dove
ci parla il destino.»
Járnsaxa
deglutisce.
«Il
destino non esiste» azzarda.
Frigga
sorride ancora. «Non come lo
intendono i più, è vero. Non esiste una strada
inevitabile»
risponde. «Ma esiste una traccia in continuo movimento, in
cambiamento costante, che può essere conosciuta.
Guarda.»
Lei
indica le vasche. La prima a monte
è rettangolare.
«Una
per il passato» dice. Poi indica
la seconda, ellissoidale. «Una per il presente.» E
la terza,
dodecagonale: «Una per il futuro. Ognuna con significati ed
eventi
importanti per chi chiede, che interagiscono con quelli delle polle,
mostrando la via. Ma l'acqua può anche restare nella polla
dove
viene versata, e anche questo dirà qualcosa.»
«Che
cosa dicono le polle?» chiede
lui, incapace di stare zitto.
E
dovrebbe. Dovrebbe. Quella conoscenza
è pericolosa.
Frigga
indica la prima e l'ultima polla
a sinistra delle vasche, in fila proprio davanti a loro .
«Vita,
morte» la sua mano si sposta
«e in mezzo a loro gioia e dolore, i fratelli che si tengon
per
mano.» Si rivolge alle restanti tre, dall'altra parte delle
vasche.
«E dopo i tempi e le essenze della vita, ecco le circostanze
che la
influenzano: i luoghi dove andiamo o veniamo condotti, ciò
che
creiamo – discendenza fisica o spirituale – e la
magia che
incontriamo, sia dentro sia fuori di noi.»
«Voi»
Járnsaxa esita. Lei sorride,
incoraggiante. «Credevo che la Vista fosse un dono... diverso
per
voi.»
«Non
è solo il filato a rivelarmi
segreti, Járnsaxa. Ogni creatura e creazione può
esser tramite di
quella voce. Luoghi come questi – foci come questo
– sono
una porta spalancata per chi è in grado di aprirla. Da sola,
la
Vista interiore è spesso un mero spioncino.»
La
sua mente assetata di conoscenza
assorbe ogni parola, gloriandosene. Nell'animo, Járnsaxa si
sente
profondamente incerto e affascinato.
La
regina madre gli offre una mano.
«Vieni, bambino: ti mostrerò il tuo futuro, se
vuoi.»
Il
suo cuore si colma di paura.
«Credevo
che non poteste parlare di
quanto la Vista vi rivela, pena disgrazie terribili.»
«Non
posso dirti ciò che vedo. Ma in
una di queste polle tu potresti vedere
qualcosa, e
comprenderlo. Non manchi di talento.»
È
un onore immenso. Un mistero
sconosciuto ai più.
«Davvero?»
«È
già accaduto.»
Non
dovrebbe cedere alla tentazione,
ma... ora che può, vuole sapere. Vuole sentirsi dire che il
dolore
che prova non durerà per sempre.
E
Frigga Fyörgindottir è una donna
benevola. Sarebbe stato bello averla come seconda madre.
Lentamente,
Járnsaxa avanza. Frigga lo
conduce a monte, davanti alla vasca del passato. A un suo gesto, dai
recessi della grotta emergono sette ancelle vestite di bianco, che
portano brocche d'argento e intonano un nuovo canto. Un'ottava porge
alla regina una brocca d'oro, che lei consegna a Járnsaxa.
«Immergila
e attingi alla fonte»
mormora.
Poi
si unisce al canto delle donne,
inginocchindosi e immergendo le mani nella vasca del passato.
Mentre
i suoi gesti tracciano percorsi
a lui illeggibili, Jársaxa obbedisce. La sorgiva zampilla
sul fondo
della grotta, alle loro spalle, raccogliendosi in una cavità
liscia
e grigia.
Quando
ritorna gli tremano le mani.
«Pronto?»
chiede la bocca della
regina.
Annuisce.
Gli
guida la mano, stringendo il manico
insieme a lui.
Quando
spinge verso il basso, quando
cade la prima goccia, il canto delle ancelle cambia.
Le
ragazze inclinano le brocche e acqua
pura si riversa nelle sette polle. Mulinando in un brillio di
cristallo, si incanala e serpeggia con grazia nelle volute dei
canali, sfocia nelle vasche insieme alla sua – alcune in una
soltanto, altre in tutte, mescolandosi ai bivi dei bracci senza
apparente scopo.
Járnsaxa
la segue. Guidato
dall'istinto, percorre la sala fiancheggiando il bordo delle vasche e
osserva.
Nella
vasca del passato nevi e
fantasmi. Nella vasca del presente foreste, Gerð
e un guizzo di capelli biondi nella tempesta.
Nella
vasca del futuro, una promessa.
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L'idea della fontana è mia, vagamente ispirata dal
mitologico stagno di Mimir, ma tutta originale.
Il prossimo capitolo è l'ultimo, e tutto
OTP! Smut and feels, chi sale a bordo? ;D
Dai che ce la faccio prima di Natale!
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