Boom
Da
quando la sirena aveva dato il suo primo vagito, un grido metallico che
strisciava tra le strade e rimbalzava contro le pareti degli edifici di
Milano, arrivando in alto, sino alle guglie bianche del Duomo, non
erano passati che sette mesi.
Dopo il primo allarme, che stordiva e
faceva fischiare le orecchie, ne suonava un altro, subito prima che la
terra tremasse e il frastuono delle bombe riecheggiasse. Quando il
secondo si alzava come uno squillo di tromba, preannunciando
l'inevitabile, era troppo tardi per scappare.
Tutta questione di fortuna, comunque.
Ma
la parte peggiore era indubbiamente l'attesa. Ciò che
Vittoria odiava
di più era non sapere se quelli sarebbero stati gli ultimi
istanti o
solo degli spaventosi minuti a cui ne sarebbero seguiti degli altri.
La
prima volta che era scesa nel rifugio aveva pianto. Era stato
inevitabile, gli occhi verdi le si erano riempiti di lacrime e la bocca
si era serrata. Il suo petto di bambina, in quella notte di giugno,
aveva continuato ad alzarsi e abbassarsi a ritmo di singhiozzo.
L'abbraccio di sua madre non le era stato di nessun conforto.
Il
mese peggiore era stato agosto, un susseguirsi di incubi a occhi
aperti. In quel periodo la realtà si era mescolata
facilmente alla
fantasia.
Poi c'era stata una pace illusoria, Milano era tornata
tranquilla, grigia nella sua nebbia, e la morsa del freddo assieme alla
fame mai saziata le avevano fatto dimenticare la paura delle bombe.
Dicembre era arrivato e si era già quasi concluso.
A Vittoria il
terrore degli aerei cominciò così a sembrare
qualcosa di lontano,
troppo irreale, avendo altro di cui preoccuparsi: le cene sempre meno
consistenti e il brodo via via più annacquato, per esempio.
Ma si sa, in questi casi, quando le cose pare che vadano un poco
meglio, pensare che tutto sia finito è l'errore
più grande.
Forse è solo l'inconscio che cerca di cullarci
nell'illusione. Forse.
Perché Vittoria, quando si era detta che, no, dopotutto non
stava andando troppo male, aveva commesso un enorme sbaglio. Vittoria
aveva sbagliato, e su tutta la linea.
Il
momento in cui la sirena prese a squillare, interrompendo la quiete
della notte, l'undicenne considerò per un attimo la
possibilità
d'essersi sognata tutto, poi sentì le dita di sua sorella
maggiore
stringersi attorno al suo braccio e strattonarla.
Non era un incubo.
«Flavia,
Vittoria!» gridava dal soggiorno sua madre, con una candela
accesa e la
vestaglia per metà sbottonata. Non appena Vittoria
uscì dal letto,
rimpianse quel calore tiepido. Il gelo invernale la cinse e un crampo
allo stomaco le fece tornare alla mente la misera minestra di qualche
ora prima. Aveva ancora fame, ma quello, al momento, era sicuramente il
minore dei problemi, così come il freddo pungente che le
ghiacciava il
sangue.
Muoviti, fai in
fretta, celere: queste le parole che le diedero la forza
di infilare le scarpe. L'allarme continuava a suonare.
Sul
pianerottolo incontrarono Maria del piano superiore e il piccolo Angelo
assieme alla zia; urlava, mentre la donna lo trascinava per una mano;
si precipitavano verso il rifugio, verso la salvezza dei piani
inferiori, sottoterra. Correvano per nascondersi come topi, lontano
dalla luce, nel sottosuolo.
Veloci.
La botola si chiuse sopra
le loro teste, lasciando fuori la guerra. Vittoria sospirò e
Flavia
l'abbracciò, carezzandole la testa castana. Le dita della
maggiore si
incastravano fra i capelli morbidi e arruffati della minore; qualcuno
pregava.
Si azionò la seconda sirena e Angelo, in braccio a Maria,
prese a singhiozzare con più forza, borbottando di tanto in
tanto
parole indecifrabili. Lo scantinato rimbombava i suoi lamenti, poi
Vittoria, nella luce tremula di una candela, lo vide coprirsi
improvvisamente le orecchie e tacere. Le iridi castane del bambino
rilucevano nell'ombra.
«Finirà mai?» biascicò poi,
nel miglior italiano che un marmocchio di sei anni potesse avere.
L'undicenne lo guardò sconcertata.
Finirà
mai? Mai? Vittoria chiuse gli occhi e nascose la testa
tra le ginocchia: provò a riaprirli.
Voglio svegliarmi.
Le bombe toccarono terra.
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