That
Love is All There is
Terre_del_Nord
Slytherin's Blood
Habarcat - I.004
- Pureblood
Sirius
Black
12, Grimmauld Place, Londra - ven. 25 dicembre 1970
Passammo il giorno di Natale a Grimmauld Place con
lo zio e la sua famiglia e, di nuovo, non riuscii a vedere Andromeda:
non capivo cosa le stesse accadendo, mi accorsi soltanto che nessuno ne
parlava più, come se lei non fosse mai esistita. Ricordai il
Natale precedente, già allora nessuno le rivolgeva la parola
e lei aveva un aspetto piuttosto afflitto, tipico di chi passa giornate
intere in camera propria a piangere. Con me era stata come al solito
gentile e disponibile, ma non si confidò, mi aveva guardato
come fossi l’unica persona che le era rimasta, timorosa di
potermi in qualche modo perdere. A fine giornata, sorprendendola sola
alla finestra di fronte all’albero di Natale, avevo preso
coraggio e mi ero avvicinato: piangeva, non mi disse nulla, solo mi
guardò amorevole e mi accarezzò i capelli.
“Non cambiare mai, Sirius, fai questo per me, e ti prego,
almeno tu, non odiarmi, se puoi.”.
“Perché dovrei odiarti, sei l’unica
persona con un cuore in tutta la famiglia!”.
Mio padre mi aveva chiamato dal salotto proprio in quel momento e
Andromeda mi aveva invitato a tornare subito dai miei senza dire
più nulla: da quel giorno non l’avevo
più vista e ad un anno di distanza, in quella stessa stanza,
mi ritrovavo a pensare al significato delle sue parole. Mi accorsi che
mia madre mi stava osservando torva, forse aveva capito che stavo
pensando a Andromeda, ma feci finta di nulla e continuai a comportarmi
in modo dignitoso, quel giorno stavo riuscendo a superare incolume
persino l’esame Bellatrix: la consideravo una pazza da
sempre, ma da qualche tempo mi sembrava peggiorare, da quando parlava
sempre di quel suo Lord Voldemort. Naturalmente ero abituato ai
discorsi sulla superiorità del sangue, perché non
c’era giorno che mio padre non dicesse sempre le stesse cose,
ma papà, pur con tanti difetti, non era un fanatico
sanguinario che farneticava di morte e distruzione. Persino quando
parlava con mia madre delle Cacce al Babbano, mi illudevo che dicesse
per scherzo: ero convinto che mia madre ne fosse capace, ma avrei
giurato sulla mia testa che, mai e poi mai mio padre amasse davvero
concedersi come divertimento una cosa del genere, non perché
lo stimassi, ma perché nonostante tutto non aveva la faccia
da assassino. Mia cugina invece si deliziava nel leggere e commentare
di carneficine, violenze e torture, facendomi rizzare i peli sulla
schiena: ero più che convinto che fosse capace di compiere
azioni simili in prima persona, o addirittura che lo stesse
già facendo.
Appena gli zii furono tornati a casa, mi fiondai in camera, nel mio
letto: per Natale i nostri genitori avevano destinato la camera di
fronte a mio fratello perché, a detta loro, ormai eravamo
entrambi grandi abbastanza da stare ognuno per conto proprio,
così da quella notte avrei dormito da solo.
All’inizio avevo preso la cosa come un dono gradito,
perché a lui sarebbe toccata la stanza più
piccola e perché finalmente avevo un mio nido tutto per me,
senza il rompiscatole tra i piedi tutto il tempo, però poi,
nell’inusuale silenzio della mia stanza mi sentii perso e
capii che d’ora in poi mi sarebbe stato ancora più
difficile divertirmi in quella casa. Mi alzai e, avvolgendomi la
coperta intorno alle spalle, guardai dalla finestra quella notte senza
luna, in cui la neve scendeva in morbide giravolte illuminate dai
lampioni babbani. Mi addormentai con la testa appoggiata al vetro dopo
un po’, ipnotizzato da quella danza ovattata, perdendomi in
un dormiveglia confuso in cui sogni e ricordi dolorosi si mischiavano.
Quando il gelo che mi mordeva i piedi mi fece ridestare, mi decisi
finalmente a tornare sotto le coperte: mi voltai e
l’enormità della mia stanza, da cui erano spariti
il letto e i mobili che ora erano nella stanza di fronte mi fece
stringere di nuovo le viscere. Com’era possibile che invece
di festeggiare mi trovassi a immalinconirmi così? Tra
l’altro l’avrei rivisto di sotto già a
colazione l’indomani e l’avrei trovato
immediatamente insopportabile e avrei faticato parecchio per non
insultarlo o fargli i dispetti. Accesi il lume accanto al letto deciso
a leggere a qualcosa, distrarmi era l’unica soluzione, di
certo quei pensieri strani su mio fratello erano dovuti agli eccessi
alimentari della giornata appena trascorsa: avevo notato che quando
avevamo ospiti, e la pressione e il controllo dei miei era superiore al
solito, annegavo la noia nel cibo e nel succo di zucca.
Mi avvicinai alla scrivania e aprii il cassetto in cui avevo messo
“Storia del Quidditch” che Sherton mi aveva
regalato a Yule, e nel caos che mi si riversò addosso emerse
anche la scatola delle foto, quella in cui raccoglievo le immagini
troppo imperfette perché mia madre le accettasse
nell’album di famiglia. La presi e andai a letto, lasciando
il libro nella sua bella carta da regalo e rovesciando le foto tra le
coperte alla ricerca di un ricordo piacevole: la maggior parte risaliva
a qualche anno prima, ultimamente non amavo troppo l’idea di
farmi fotografare, perché non sopportavo di dovermi mettere
in posa, di dovermi pettinare come un cretino come piaceva alla mamma,
di dovermi vedere come voleva che fossi. Quelle di quando io e mio
fratello eravamo davvero piccoli erano strane, però, per lo
più Regulus mi baciava una guancia e io gli spettinavo i
capelli, sorridenti e felici. Che cos’era successo da allora?
Guardai verso la porta, chissà se stava dormendo o anche lui
si sentiva strano quella notte, forse dovevo alzarmi e andare a vedere,
ma … no, non era il caso. Emersa dal caos sopra le coperte,
una piccola striscia di carta da pacchi apparve tra le foto, la presi,
ci misi un po’ a metterla a fuoco ma poi ricordai, era
proprio lei, la carta di “Dulcitus” di due anni
prima, il Natale del giuramento. Altro che preoccuparsi per il
moccioso, tutti i problemi che avevo in quella casa nascevano da lui e
quella carta ne era una delle tante testimonianze. Ripresi le foto e le
ributtai alla rinfusa nella scatola, chiudendola con il laccio e avendo
cura d lasciare fuori la striscia d carta di Dulcitus. Ora ricordavo
perché l’avevo conservata, doveva tenermi fermo
nella mia decisione, dovevo resistere…
*
Sirius
Black
12, Grimmauld Place, Londra - mer. 25 dicembre 1968
“Aspettami, aspettami Sirius!”
Quel pomeriggio di
Natale, di ritorno dalla festa a casa dei Rosier, Andromeda era venuta
a trovarci con i genitori e le sorelle, graziose quanto lei, ma non
altrettanto simpatiche. Ogni nostra parola, anche la più
gentile, rivolta a una di quelle due, era accolta con freddezza: le
nostre cugine non erano entusiaste delle nostre visite se andavamo a
trovarle, né venivano da noi volentieri; annoiate
com’erano si capiva che ci consideravano solo due mocciosi di
scarso interesse per ragazze raffinate, mondane e ambiziose come loro.
E soprattutto, senza volerlo, ricordavamo costantemente loro come la
famiglia di Cygnus avesse fallito nel disegno di dare un erede maschio
alla nobile e antichissima casata dei Black. Andromeda era diversa: era
la mia cugina preferita, quella che aveva per noi sempre un sorriso e
una carezza, quella che da piccoli ci leggeva storie a letto per farci
addormentare, e che si divertiva con noi, vestendoci o pettinandoci
come delle bambole. Non l’avrei mai permesso a nessuno, sia
chiaro, ma con lei era diverso.
Con Andromeda Black
tutto era diverso. Era bellissima, come era naturale per una Black, con
quei capelli neri e gli occhi di ossidiana blu, i tratti del viso
regolari e perfetti. E dolcissimi. In questo non era una Black, no:
sembrava che la natura avesse donato a quel corpo, già
bellissimo a 15 anni, anche la generosità e la grazia di cui
era privo il resto della mia famiglia. Era l’unica che
conoscevo tra i miei parenti, ad avere un cuore che serviva non solo a
pompare quel nostro aristocratico, purissimo, antichissimo sangue
Black. Un cuore creato per amare.
Probabilmente ero
innamorato di lei, come si può esserlo a otto anni della
cugina più grande che si adora da sempre, quel tanto da
farmi aspettare con ansia il suo ritorno da scuola, le visite
reciproche, i pranzi per altro odiosi di famiglia. Quel tanto da farmi
anche rendere conto che, benché felice di vederci, qualcosa
era cambiato, qualcosa la turbava, muovendosi come una serpe velenosa
in fondo alla sua anima e rendendo i suoi occhi meno luminosi e
più tristi. Avrei voluto essere tanto grande e maturo da
chiederle cosa avesse, darle la mia mano e giurarle che avrebbe potuto
contare sempre su di me, ci sarei sempre stato, per lei. Ma avevo solo
otto anni e mi animava solo una feroce rivalità con mio
fratello, capace di spegnere qualsiasi raziocinio e mettermi
inevitabilmente nei guai, fin da allora. E nulla avrebbe reso diverso
quel giorno. Andromeda ci aveva portato per regalo una gigantesca
scatola piena di cioccorane, Gelatine "Tuttigusti +1", e altre
prelibatezze. Avevo sgranato gli occhi, felice e stupito, quando avevo
visto il marchio di Dulcitus sulla carta che ricopriva la scatola:
avevo saltato l’ultima visita a Diagon Alley due settimane
prima, costretto a casa, in punizione, quindi ero preda di un violento
desiderio represso. Quando Andromeda la porse a me, solo
perché ero più vicino a lei di mio fratello,
l’avevo afferrata subito, vorace, ed ero corso su per le
scale, diretto in camera, senza nemmeno dire grazie, senza curarmi di
nessuno, senza pensare di condividere con Regulus quel dono. Lui m
rincorse subito su per le scale, scordandosi che ero più
veloce e agile.
“Tanto non mi prendi, tanto non mi prendi!”.
Ridevo superando due
scalini per volta, il fiato grosso per la fatica e le risate con cui
animavo le scale, sempre tanto oscure e opprimenti, mentre mio fratello
arrancava sulle sue corte gambette da puttino.
“Quando arriverai avrò già finito
tutto!”.
Mi piaceva canzonarlo,
adoravo fargli venire le lacrime agli occhi e vederlo piangere come una
bimbetta: mio fratello non mancava mai di darmi delle straordinarie
soddisfazioni, era la vittima perfetta! Soprattutto perché a
quei tempi era l’unica vittima disponibile. Mi voltai, con il
mio miglior ghigno canzonatorio stampato in faccia, in tempo per vedere
i riccioli scuri di mio fratello sparire sull’ultimo
pianerottolo, cui seguì il solito tonfo sordo, le solite
urla del ritratto di non so quale austero trisavolo, e infine il pianto
straziante di Regulus. Stavo scendendo con la derisione stampata in
faccia per far si che alla sofferenza fisica del ginocchio sbucciato si
aggiungesse la mia classica presa per i fondelli, quando la voce d
nostra madre emerse dal salone, tre piani più in basso,
attirata dalle urla da animale portato al macello del bamboccio.
“Cosa hai combinato stavolta, disgraziato?”
Immancabilmente, secondo
"Lady Walburga Black", se Regulus piangeva, era colpa mia. Mia madre e
zia Druella salirono all’istante, i movimenti impediti dalle
loro ricche vesti, trovando Regulus in lacrime, il ginocchio sinistro
sbucciato e il nobile sangue Black che gli disegnava bizzarri ghirigori
sulla pelle diafana della gamba. Ed io in piedi dinanzi a lui, la
scatola di ciocco rane stretta al petto come un ramo a cui, naufrago,
mi aggrappavo per non annegare: Mia madre mi strappò via la
scatola e la diede a Regulus, lasciandomi in mano appena una striscia
di carta, poi mi diede uno schiaffo che mi girò il viso
dall’altra parte. Mi morsi il labbro inferiore per non
piangere, non potevo farlo in pubblico, da bravo Black, ma se anche
fossimo stati soli, non avrei versato una sola lacrima, per non darle
quella soddisfazione.
“Guarda cosa gli hai fatto!”.
Mi strattonò
perché osservassi il sangue di mio fratello, il nobile
sangue di un Black, versato e sprecato sul gradino di pietra antica,
sibilandomi addosso, infuriata, con i bellissimi occhi azzurri accesi
d’odio. Benché avesse un aspetto così
terribile, io non avevo paura di lei, no, nemmeno allora; era finito
persino il tempo in cui m sentivo male vedendo che non mi amava, che mi
considerava “ imperfetto”, e come tale non meritavo
di stare al suo cospetto. Osservai Regulus che ancora frignava e
soffocai a stento il mio ghigno di scherno continuando a guardare tutti
loro con la mia migliore espressione innocente e stupita, quella di chi
è capitato lì per caso e non si cura affatto di
ciò che gli altri pensano o dicono, o fanno. Decisi di stare
lì dinanzi a tutti loro, a mio fratello, a mia madre e a mia
zia, pronto alla punizione inevitabile, come se fosse qualcosa che non
riguardava me: sapevo che il cucciolo era il suo prediletto,
perciò qualsiasi cosa avessi fatto o non fatto, detto o
taciuto, sarei stato punito, tanto valeva toglierle almeno la
soddisfazione di vedermi piangere o ribellarmi. O supplicare.
“Che cosa ho mai fatto per meritare un figlio come te! Fila
in camera e non farti più vedere, ci penserà tuo
padre a farti sparire quella faccia da schiaffi! Razza
d’insolente!”.
Mi prese per un braccio
e mi trascinò dentro la nostra stanza, sbatté la
porta alle mie spalle e diede tre giri di chiave, borbottando qualcosa
sulla mia indegnità, con mia zia che le dava ragione,
comprensiva. Poi scesero tutti e tre per le scale, la voce di mio
fratello rispondeva gioiosa ai complimenti di mia zia, impastata, si
capiva benissimo che stava parlando a bocca piena, sgranocchiando la
mia cioccolata. Sospirai, nonostante il freddo aprii la finestra poi
salii sul mio letto, incrociai le braccia sotto la nuca e rimasi ad
osservare il cielo terso che occhieggiava da fuori: una leggera brezza
soffiava carica dei suoni e dei profumi di una giornata londinese di
festa. Avevo appena otto anni ma avevo già capito: avevo
l’aspetto e il nome di un Black, ma non ero uno di loro, e ne
ero ben fiero. Non ero fatto per stare al 12 di Grimmauld Place, e
giurai, sul mio nobile sangue, che avrei fatto di tutto, per fuggire
lontano da lì, per sempre. Mi rilassai. Ora avevo un
proposito, mi lasciai cullare in un tenue torpore, assaporando nella
mia immaginazione quello che mi avrebbe donato la vita, se fossi
fuggito verso la libertà. Persi i sensi e mi abbandonai a un
sonno leggero in cui anche Andromeda, la sua dolcezza, il mio amore per
lei, si dissolvevano. E mio fratello, e i dispetti che
m’inventavo per lui, diventavano solo un eco lontano
…
*
Sirius
Black
12, Grimmauld Place, Londra - ven. 25 dicembre 1970
Mi alzai di nuovo, presi dello scotch magico dalla scrivania e fissai
la striscia di carta accanto al mio letto, in posizione un
po’ nascosta così che io la vedessi ma i miei non
se ne accorgessero, ripromettendomi di trovare quanto prima nei libri
di incantesimi una formula di adesione permanente, così che
non potessero strapparla via mai più. Finito il lavoro
guardai soddisfatto il risultato, ora la stanza era un po’
più mia, col tempo avrei aggiunto altre tracce di me, avrei
fatto vedere chi ero, avrei fatto vedere che ero Sirius, non il figlio
di mia madre. Ma dovevo anche essere cauto e resistere: altri sei mesi
e sarei partito per la Scozia, altri nove e sarei andato a Hogwarts per
diventare un vero Mago. E allontanarmi da tutti loro per sempre.
***
Meissa
Sherton
Herrengton Hill, Highlands - sab. 03 gennaio 1971
"Scacco matto!”
Ero il volto della felicità, avevo combattuto a lungo quella
sera e ora, per la prima volta, uscivo vincitrice da una partita
perfetta contro mio padre.
“Partita da manuale!
Complimenti!”
Si sporse sulla scacchiera e mi stampò un bacio sulla
fronte: lo guardai, adorante. Mio padre avrebbe compiuto quarant'anni
in primavera, aveva i miei stessi capelli corvini, lunghi, gli occhi
color dell’acciaio, l’incarnato abbronzato dalla
vita all’aperto, i lineamenti decisi e la bocca perfettamente
disegnata, esaltata da una leggera barba e da corposi baffi con cui
amavo tanto giocare quando ero più piccola. Era alto, forte,
proporzionato, aveva una naturale distratta eleganza, anche vestito con
semplicità, come in quel momento. Si alzò,
rimestò la legna nel caminetto che riscaldava e illuminava
la stanza: eravamo nelle stanze di mio padre, nei sotterranei della
torre di nord-ovest, in cui passava ore a studiare libri di erbologia e
pozioni e a consultare il futuro leggendo le antiche rune del Nord e le
pietre veggenti ereditate dal nonno. Benché non ci avesse
sprecato la sua magia, il fuoco si ravvivò immediatamente,
spandendo ovunque il suo colore aranciato: sulle pareti di pietra, sui
mobili antichi, sugli arazzi e le teche, sui libri di discipline
magiche e di scienza babbana, sulle ampolle che occhieggiavano
dall’altra parte della stanza, sulle foto che ritraevano me,
i miei fratelli e i miei genitori, sugli antichi quadri da cui ci
guardavano i nostri antenati. E su di me, che restavo sul tappeto
persiano di fronte al caminetto, con la mente che vagava lontana, gli
occhi persi nel buio senza stelle di quella sera. Fuori dalle finestre
ad arco acuto, la neve ricopriva tutto il mio mondo di
un’impenetrabile coltre: il giorno era finito da un pezzo, io
e mio padre eravamo scesi lì dopo cena, lasciando in salotto
mia madre con Wezen, Rigel in punizione nella sua stanza, e Mirzam
diretto a Inverness. Un’ombra di tristezza
attraversò il mio viso, erano finite le vacanze di Natale e
quello era l’ultimo giorno nelle Highlands,
l’indomani saremmo ripartiti: stavolta sarebbero passati tre
mesi prima del nostro ritorno. Mi passai una mano su una ciocca di
capelli, fermandola dietro all’orecchio, sperando di
mascherare quel momentaneo turbamento; ma il gesto non
sfuggì a mio padre, come non gli era sfuggita
l’espressione che da giorni avevo in volto: stava in piedi
alla finestra, con un bicchiere di vino italiano in mano e aveva appena
acceso magicamente un giradischi babbano preso a Londra, da cui ora
usciva una musica melodiosa, il “Notturno 72”.
“Sono giorni che ti vedo
preoccupata, non sorridi quasi più”.
Tornò accanto a me, mi prese per mano e
m’invitò a sollevarmi dal tappeto su cui avevamo
giocato a scacchi, si sedette sulla sua poltrona accanto al caminetto e
mi fece sedere a mia volta sulle sue ginocchia. Ne approfittai, felice,
e abbandonai subito la testa sul suo petto, un po’
perché mi piaceva stare con lui così, respirare
il suo profumo e scaldarmi col suo calore, un po’
perché in quella posizione avrei potuto parlargli senza
guardarlo direttamente negli occhi. Sapevo già che sarebbe
andato a fondo di quella storia, a qualunque costo: probabilmente
aspettava l'occasione da giorni. Da sempre era solito abbandonare
qualsiasi suo impegno, anche quelli più importanti, per
correre da me, ed anche per questo lo amavo infinitamente. Tenevo gli
occhi abbassati sulle mie mani, giocando coi bottoni della sua camicia
blu notte, e le mie guance arrossivano per la vergogna.
“Dimmi cosa succede e
farò di tutto per renderti il sorriso, lo sai, devi solo
chiedere”.
Mi accarezzava i capelli, le sue mani erano grandi e forti e per alcuni
anche pericolose, ma c’era solo infinita dolcezza, sempre e
solo dolcezza, per me.
“Non è nulla
… sono solo triste al pensiero di lasciare
Herrengton”.
M’interruppi subito, la voce mi era uscita simile a un
sussurro. Mi arrischiai a guardarlo, manteneva l’espressione
incoraggiante, ma non era uomo da lasciar correre su nulla, in un modo
o nell’altro avrebbe saputo la verità.
“Lo immagino, sono triste
anche io, ma lo sai, per la mamma e per il bambino è
più prudente restare a Amesbury durante
quest’inverno”.
Annuii, avevamo fatto quel discorso molte volte, era ragionevole e
giusto. Mentre il viso mi si colorava del rosso della mortificazione,
mio padre tornò a guardarmi con attenzione.
“Ed ora dimmi la
verità, Meissa, perché ti conosco: quello che
provi non è tristezza, ma paura, e io voglio sapere chi o
cosa ti sta togliendo la serenità”.
Alzai di nuovo lo sguardo sul suo viso, Alshain vide nei miei gli occhi
verdi di sua moglie che lo fissavano. Attese: conosceva il valore della
pazienza, arma che tutti, amici e nemici, gli riconoscevano, come ne
riconoscevano l’implacabile determinazione e
l’assoluta razionalità.
“Padre ... continuerai a
volermi bene anche se… anche se… sì,
anche se non finissi a Serpeverde?”.
Sentivo le parole uscirmi con difficoltà, quasi sputassi
macigni, temevo di vedere rabbia in lui; ma per quanto scrutassi a
fondo, in quegli occhi del colore del mare in tempesta non riuscivo a
vedere altro che il riflesso di una ragazzina impaurita.
Sembrò persino meravigliato che fosse quello il motivo dei
miei turbamenti.
“Chi ti ha messo in testa
quest’idea? Certo che ti amerei ugualmente, sei mia
figlia!”.
“E’ per quello che
si sono detti Rigel e Lucius…”.
La sua espressione cambiò, la mascella si contrasse e gli
occhi s’incupirono: sapeva che c’era
qualcos’altro nel mio turbamento ed era proprio
ciò che aveva sospettato.
“Uno dei due ti ha detto
questo? Hanno cercato di convincerti di questo?”.
Non volevo mettere mio fratello di nuovo nei guai, dopo Yule era stato
in punizione per tutte le vacanze, ma temevo di aver già
compiuto il danno.
“No, io ... ho sentito quando
hai chiesto a Rigel cos’era successo alla festa, giorni fa
…”.
“Capisco. Allora è
arrivato il momento di fare un certo discorso, noi due
….”.
Mi sorrise, mi passò la mano sul viso, in una tenera
carezza, e mi baciò la fronte: era sereno ma anche un
po’ triste, un tempo passava molte più sere
davanti al fuoco con me, seduta sulle sue ginocchia, a tirargli i
baffi. Allora lui era stato senz’altro più felice,
proprio per merito della sua famiglia, che era tutto per lui; negli
ultimi tempi i suoi affari e i suoi viaggi gli avevano rubato spesso
questi piaceri, e il più delle volte, al ritorno, aveva
un’espressione cupa e tesa. Mi chiedevo se vivere vicino ai
Malfoy non avrebbe peggiorato le cose: non avevo idea di cosa stesse
accadendo, ma anche un cieco avrebbe notato che il suo umore peggiorava
ogni volta che incrociava Abraxas.
“E’ passato molto
tempo da quando ti ho parlato di mia madre, di Ryanna Meyer, ti ricordi
in quale casa ha frequentato Hogwarts?”.
“Non è stata a
Serpeverde come te?”.
“No, Mey, gli Sherton sono
Serpeverde da sempre, certo, ma tua nonna, come quasi tutta la famiglia
purosangue dei Meyer, era una Corvonero. Per questo, Lucius ti ha
chiamato in quel modo, lo faceva anche suo padre con me, da ragazzini,
prima del mio smistamento. Ma non è di lui che dobbiamo
parlare. Guarda …”.
Si sporse a prendere un album di foto da un cassetto della sua
scrivania, erano molto vecchie, e io non ricordavo di averle mai viste:
conoscevo il viso di mia nonna perché ovunque a Herrengton
c’erano i suoi ritratti, a dimostrazione di quanto mio nonno
l’avesse amata, le immagini che sfogliavo ora,
però, andavano ben oltre, perché
l’autenticità e la spontaneità di quel
sentimento scaturivano dalle risate, dai baci, dall’amore con
cui guardavano i loro figli, dalla tenerezza con cui si tenevano per
mano. Non stavano in una posa concordata, non stavano fingendo, erano
veri, reali.
“I miei genitori si sono amati
davvero, per oltre 40 anni, anche se venivano da case diverse: da
quell’amore sono nato io, e di conseguenza tu e i tuoi
fratelli. Non avrei ereditato da loro niente di davvero importante, se
i miei sentimenti per i miei stessi figli dipendessero dal colore di
una cravatta, non credi? Tu sei mia figlia, Meissa, sei il mio sangue,
sei forse quanto di meglio mi ha donato la vita. E’
ciò che hai nell’anima che conta per me, non i
colori che avranno i tuoi vestiti”.
Mi accarezzò di nuovo il viso, e mi guardò in un
modo che mi fece sentire una vera stupida, come potevo aver dubitato
del suo amore per me? Come potevo aver creduto alle sciocchezze che
Lucius Malfoy aveva detto a mio fratello, guadagnandosi tra
l’altro un pugno in faccia? Sorrisi.
“Allora ti ho rasserenato
almeno un po'?”
Annui, senza parlare, lui mi diede un altro caloroso bacio sulla fronte.
“E’ colpa mia se sei
rimasta turbata, e ti chiedo scusa. Ho esagerato parlando come se fossi
la futura Serpeverde di casa, ma sai … per intere
generazioni nella nostra famiglia sono nati solo dei maschi, in sette
secoli sono nate solo quattro bambine tutte poi smistate a Corvonero;
poi dieci anni fa sei nata tu, nel giorno dell’equinozio di
primavera, e sei cresciuta con un carattere forte, determinazione,
ambizione, talenti degni di Salazar stesso.”.
Mi fece sedere sull’altra sedia, si alzò,
rimestò il fuoco, si versò da bere e fece
ripartire il disco. Andò alla finestra, osservando le stelle
che finalmente facevano capolino tra le nubi.
“Tutto questo, lo ammetto, mi
ha esaltato, anche se, obiettivamente, vedo da me che stai sviluppando
anche altre "virtù", che potrebbero diventare persino
più rilevanti: non mi stupirei nemmeno di vederti a
Grifondoro, sai? No, non fare quella faccia schifata, sto parlando sul
serio. Ma basta divagare, il punto è che tu sei e sarai
sempre mia figlia, indipendentemente dal risultato dello
smistamento,finché rispetterai la nostra famiglia. Agli
Sherton non interessano i dettagli, ma un’unica cosa,
sostanziale e ben più profonda: credo tu sappia benissimo di
cosa sto parlando...”.
Mi guardò a lungo, per farmi capire quanto importante fosse
quel discorso.
“… parlo della
nostra natura magica, del nostro essere da sempre perfetti e puri: il
mondo ci chiama “purosangue”, noi siamo purosangue,
è questo che fa sì che il nostro potere sia
massimo, intoccabile ed indiscutibile. Innumerevoli maghi e streghe
potenti sono venuti a renderti omaggio al momento della tua nascita,
come è accaduto quando è nato Wezen, e gli altri
tuoi fratelli prima di te. Come può un neonato che non ha
ancora manifestato alcun potere, meritare quegli onori, Meissa? Ovunque
ti giri qua dentro, gli stemmi ti ricordano che la nostra è
la famiglia de "Les Bien-Aimès", “i prediletti di
Salazar”, ma onestamente, cosa ci fa essere tali dopo un
millennio, se chi ha fatto la storia è ormai cenere da oltre
1000 anni? Cos'altro se non il nostro sangue, la sua purezza e
perfezione? ”.
Avevo sentito mio padre fare discorsi simili ai miei fratelli, ma era
la prima volta che lo faceva a me: non potevo crederci, mi trattava
come un'adulta, mi considerava davvero sua pari; ero orgogliosa e
spaventata allo stesso tempo, perché rendendomi consapevole
diventavo anche responsabile.
“Il tuo sangue è
tutto, Meissa, rispettalo e vivi serena, tutto qua. Se poi hai dei
dubbi vieni da me o da tua madre, e non badare alle ciance degli altri,
ai loro stupidi pregiudizi. C'è altro di cui vuoi
parlarmi?”
Mio padre bevve tutto d’un sorso il vino nel bicchiere, in
silenzio, guardandomi dall’alto in basso intensamente, con
un’espressione indecifrabile, poi sospirò e mi si
avvicinò di nuovo. Avevo altro da chiedergli e lui lo
sapeva, qualcosa che ascoltando i miei fratelli, mi aveva davvero messo
il terrore addosso, ma non avevo il coraggio di chiedergli se fosse la
verità. Non volevo sapere, volevo poter sperare ancora per
un pò che fosse tutto uno scherzo. Provai a mentirgli.
“No padre, solo …
quando inizieremo la mia istruzione?”
Indagò i miei occhi, sapeva che avevo mentito, ma
lasciò perdere. Gli baciai la mano che m aveva appoggiato
sulla guancia, in una carezza.
“In primavera. Fino a 11 anni
non puoi sapere nulla di più, e non posso farti vedere nulla
finchè siamo nel Wiltshire, col Ministero che... Ora
torniamo di sopra, è tardi, dai”.
Si era rabbuiato ma quando gli sorrisi tornò sereno, mi
alzai e lo aiutai a rimettere in ordine la scatola degli scacchi e i
cuscini sul tappeto persiano, lui spense il fuoco, recuperò
il mantello e se lo appoggiò al braccio, poi mi cinse le
spalle mentre mi avvinghiavo al suo fianco, respirando il suo profumo e
il suo calore; percorremmo il corridoio di pietra che si affacciava
sulle scogliere e salimmo fino all’ala sinistra del chiostro
che racchiudeva il cortile delle rose. Entrati nel salone salutai mia
madre, poi salimmo fino alla mia camera, dove mio padre mi
augurò la buona notte con un altro bacio sulla fronte e mi
lasciò alle cure di Kreya, richiudendo infine la porta
dietro di sé, con la bacchetta alla cintola e il suo
inconfondibile profumo di cedro e sandalo. Mi guardai intorno:
l’armadio e i cassetti erano vuoti, gli ultimi bauli erano
stati portati via a novembre per il trasloco. Eppure, avevo il cuore
più leggero, perché mio padre mi avrebbe amato
per sempre: prima di spegnere la luce guardai il ritratto di mia nonna.
Le sorrisi. Aveva creato l’uomo migliore e il destino me
l’aveva donato per padre. No, non avrebbe fatto nulla che
potesse ferirmi. Mai. Scivolai nel sonno. Ero serena, ero pacificata
col mondo. Ero ancora troppo giovane per comprendere che quel discorso
che mi aveva rasserenato aveva in sé qualcosa di temibile e
oscuro, che presto avrebbe condizionato tutta la mia vita.
***
Meissa
Sherton
Amesbury, Wiltshire - mart. 12 gennaio 1971
"E’
metà gennaio e voi ragazzi non siete mai venuti a trovarmi.
Devo offendermi seriamente?”
Orion Black esordì così quella sera, mentre
stavamo tutti attorno al caminetto del salotto al termine della cena.
Appena arrivato, con fare misterioso, aveva tirato fuori dal panciotto
un pacchetto di cioccorane prese da Dulcitus per me, poi mi aveva
sfidato a scacchi fino all’ora di cena, chiedendomi come
stessi e raccontandomi di quando con mio padre aveva lanciato la
polvere “fosforella” nei bagni dei prefetti
l’ultimo anno, mandando fuori d testa il custode della
scuola. "Zio" Orion era una presenza costante nella nostra vita nel
Wiltshire, ed era forse l’unica persona che vedevo
volentieri. Quell’uomo, distinto e falsamente burbero, era il
miglior amico dei nostri genitori, il nostro padrino e una persona
piuttosto buffa: con lui, le serate finivano sempre in sonore risate,
ci raccontava degli aneddoti sulle gesta all’epoca della
scuola, i dispetti ai danni dei Grifondoro, le vittorie della squadra
di Serpeverde di cui nostro padre era stato cercatore, ci parlava di
luoghi misteriosi e ricchi di fascino della scuola, di cui i miei
fratelli avevano già approfittato grazie alle sue
indicazioni, le scorribande nella foresta proibita e anche qualche poco
ortodossa visita ad alcuni locali di Hogsmedge molto apprezzati dai
ragazzi. Un clima ben diverso da quello che si respirava quando ci
facevano visita altri conoscenti di mio padre: dopo un paio di giorni
dal nostro arrivo, ci fece visita niente meno che il Ministro della
Magia, con la scusa di un saluto di cortesia, in realtà per
verificare con mio padre se ci fossero “falle”
nella nostra sistemazione; dopo due ore di perlustrazione, durante le
quali cercò invano di convincere papà a far
sparire un paio di oggetti che teneva sottochiave in mansarda, se ne
andò senza toccare un solo boccone della superba cena che
Kreya aveva preparato per lui. L’atmosfera pesante che si
respirava all’arrivo di Abraxas Malfoy, cugino di 2^ grado di
nostro padre, non aveva però eguali: non sapevo ancora il
perché, ma ogni volta che era prevista una sua visita mi
mandavano subito in camera mia, sicché, benché
fosse spesso da noi, io vedevo lo “zio” solo in
occasioni ufficiali e ricorrenze. Di solito appena si ritiravano in
sala da pranzo, io sgattaiolavo fuori e mi sistemavo sul pianerottolo
del primo piano, spiando non vista: quelle cene trattavano per lo
più argomenti che non capivo, per i quali lo
“zio” si infervorava moltissimo, mentre nostro
padre si mostrava sempre piuttosto scettico; sembrava che Malfoy
cercasse di convincerlo a fare qualcosa, che tra l’altro
turbava parecchio sia mia madre sia mio fratello, ma non riuscivo mai a
capire di più, perché a quel punto mio padre lo
invitava a seguirlo in salotto, gettava degli incantesimi
“muffliato” e parlavano animatamente fino a notte
fonda. In un paio di occasioni la discussione degenerò ancor
prima di ritirarsi in privato, facendosi tanto accesa che sentii la
voce di mio padre, come sempre calma ma gelida come la morte, invitare
il cugino a sparire e non farsi rivedere prima di aver recuperato il
senno. Dopo le visite di Malfoy, rimaneva pensieroso e turbato, per
alcuni giorni usciva prestissimo e rientrava molto tardi, oppure
restava a casa a parlare via camino con Orion Black, prendendo accordi
per vedersi a Londra.
“Mei è stata un
po’ influenzata, Orion, non ci pareva il caso portarla a
Grimmauld Place, hai due ragazzi anche tu!”.
“Tutte storie, Dei,
è da Yule che mi sfuggono, soprattutto Mirzam!”.
Mio fratello divenne porpora e finse di rivolgere
l’attenzione alle fiamme del caminetto.
“Terrò a bada
Walburga, se è questo il problema, d’accordo? Ma
per favore smettila di farmi questo torto”.
E sorrise vedendo l’occhiataccia che aveva rimediato da mio
fratello.
“Facciamo così:
venite venerdì, ci saremo solo Walby, io e i ragazzi, e
potremo parlare tranquillamente; il sabato successivo poi è
il compleanno di Regulus, e lì mi offenderei davvero se lo
mancaste, tra l’altro i ragazzi ci sperano tanto, sono ancora
elettrizzati dalla Danza delle Spade, Mir, sembrano finalmente usciti
dal loro stato catatonico!”.
Mio padre in piedi davanti al caminetto dapprima tossicchiò
sommessamente poi si mise a ridere apertamente, scuotendo la testa
sotto lo sguardo interrogativo del suo amico.
“Ma quale stato catatonico,
Orion! Siete voi due che li trattate come due principini! Troppe
regole, troppa etichetta, sempre sotto una campana di vetro! Lasciali
partire per Herrengton quest'estate e al ritorno non li
riconoscerai!”.
Strizzò l’occhio al suo amico, che lo
guardò scettico reprimendo a stento una rispostaccia.
“Sì, lo so che
farebbe bene a entrambi cambiare aria, e star lontano dalle sottane
della madre, ma per carità non farmeli volare su
quell’ippogrifo, è un uccellaccio
demoniaco!”.
“Alceos non è un
uccellaccio, è il MIO ippogrifo e non lo farò di
certo montare da due damerini inglesi qualsiasi!”.
Non riuscii a trattenermi, lasciando il nostro ospite e i miei
allibiti: fu Orion a rompere il silenzio con una sonora risata mentre
io diventavo viola di vergogna.
“Ma senti che piccola scozzese
impertinente! Sei proprio la degna figlia di tuo padre! Ma ricordatelo:
quando sposerai uno dei miei figli, dovrai pagarmi profumatamente se
non vorrai che gli riveli quanto hai appena detto! Damerini inglesi,
roba da matti!”.
Il mio colorito peggiorò, da quando li avevo visti a Yule,
pensavo che fossero carini, e mi auguravo che fossero anche simpatici,
visto che avrei dovuto frequentarli spesso fino al ritorno in Scozia.
Ma da qui a pensare che avrei dovuto sposare uno di loro…..
“Hai perso la lingua eh! Lo
immaginavo: sei rimasta colpita anche tu dal fascino di noi
Black”.
Orion mi guardava gongolante, mentre la faccia mi andava in fiamme.
“Basta con queste
stupidaggini, Orion! E tu, fila in camera, è
tardi!”.
Mi avviai, sorpresa dall’uscita urtata di mio padre, con un
piccolo saluto intimidito a Orion, ma nel salire rimasi appostata sul
solito pianerottolo, ad ascoltare.
“Stai scherzando o sei
impazzito? Era solo una battuta, Alshain! Cosa diavolo ti è
preso?”.
“Sono stanco di certi
discorsi. Salazar! E’ solo una bambina!”.
“Ma era uno scherzo, Al!
Diglielo anche tu, Dei! Merlino santissimo! Solo una dannata battuta!
Quante volte abbiamo detto sciocchezze simili e ci abbiamo riso sopra?!
Dimmelo.... ma... Lasciamo stare, tu sei sempre più strano e
io invece devo fare un discorso serio con Mirzam, non perdere tempo con
un paranoico come te."
Sorseggiò il suo whisky e si ivolse a mio fratello che
già aveva una faccia risentita.
"Allora, ragazzo mio… mi
è giunta voce che sei interessato a una delle figlie di
Cygnus, e se è vero, come tuo padrino, sarei ben lieto di
favorirti presso mio cognato, non che ce ne sia bisogno nel tuo caso,
ma…. Io ho parlato chiaro, ora sta a te, è nel
tuo interesse dire come stanno le cose, visto che tuo padre
è così pazzo da lasciarvi liberi di decidere da
soli”.
“Ti interessa una delle figlie
di Cygnus? Oh Mir, è stupendo, è una famiglia
perfetta per noi!”.
Mia madre era sbalordita, e al tempo stesso entusiasta, ma Mirzam
lasciando da parte la sua proverbiale educazione, si alzò
ammutolito dal divano e scomparve per le scale con la
rapidità di un fulmine, diretto nella sua stanza, senza
salutare nessuno. Mia madre si morse un labbro per la vergogna. Mio
padre e Orion assistettero sgomenti, per quanto era inverosimile una
scena simile.
“Salazar! Ti prego di scusarlo
Orion, sono settimane che è turbato da qualcosa e non
c’è verso di capire che cos’ha. Per
favore, spiegaci cosa sono queste dicerie, perché noi non ne
sappiamo nulla”.
“Lestrange mi ha chiesto se
è vero che vostro figlio è interessato a
Bellatrix, perché vorrebbe chiederne la mano per
Rodolphus”.
“E perché Lestrange
non l’ha chiesto direttamente a noi? E’ stato qui a
dicembre al ricevimento, abbiamo parlato di tutto, poteva chiedermelo
in faccia, invece di metterti in mezzo! Qualcosa non torna Orion, Mir e
Rod hanno amici in comune, ne avrebbero parlato di certo e saprebbero
entrambi come stanno le cose.”.
“Ma se non parla nemmeno con
voi! E’ peggio di un’ostrica, non sembra nemmeno
tuo figlio! E comunque Lestrange, indipendentemente da quelloo che
eventualmente direbbe tuo figlio, vuole assicurarsi di non pestare i
piedi a te, ma non ha nessuna intenzione di affrontarti a viso aperto,
lo sanno tutti che non vi potete vedere dai tempi di
Hogwarts”.
“Al diavolo Lestrange! Tu che
ne pensi Dei?”.
“Su Lestrange non ho idee, ma
posso assicurarti che se Mirzam vuole una delle figlie di Cygnus, si
tratta di una delle altre due. Orion, senza offesa, ma Bella .. diciamo
che qualsiasi marito sarebbe solo un bel trofeo per lei, da tenere al
secondo posto nel cuore, nella mente e magari anche nel suo letto.
Mirzam è l’erede di Hifrig, per quante promesse
gli abbiamo fatto, non lo lasceremmo mai a una donna
così… volubile”.
Gli occhi di mio padre divennero particolarmente cupi, Orion stava per
ribattere offeso ma si morse la lingua, finì di bere il suo
whisky e fissò il fuoco: l’evidenza dei fatti lo
schiacciava.
“Pensi lo stesso anche tu,
Alshain?”.
Papà si alzò di nuovo, il bicchiere di whisky in
mano, per rimestare il fuoco.
“Chi non desidererebbe delle
nozze Sherton- Black? Ma Bella.. no, non è adatta a mio
figlio”.
“Ma se invece fosse proprio
Bella, cosa faresti? Ti opporresti? Verresti meno alle promesse che hai
fatto ai tuoi figli?”.
“In casi come questo,
sì, Orion, ritirerei la mia parola, per il bene dei miei
figli sputerei anche sul mio onore….”.
Orion lanciò un’occhiata eloquente ai miei
genitori, io non potevo credere di assistere a quella discussione,
vedere i miei e il mio padrino mercanteggiare sul destino di mio
fratello. Dopo non molto si salutarono, con la promessa da parte di mia
madre che avremmo fatto loro visita quel venerdì: mi sentii
gelare il sangue nelle vene, Walburga era una donna intrigante e
impicciona, mi aveva osservata con un’attenzione maniacale a
Yule. E io ne avevo paura. Quando vidi che Orion era sparito nelle
fiamme, diretto a Grimmauld Place, e che i miei genitori spegnevano le
lampade a gas, pensai di salire in camera, ma le voci dei miei mi
bloccarono.
“Tieni i miei figli il
più lontano possibile da Walburga Black, Dei. Non devono
circolare voci su nessuno di loro, su Meissa in particolare, siamo
intesi? C’è già Malfoy impegnato a fare
danni”.
“Pensavo volessi che
frequentassimo i Black, che i nostri figli facessero amicizia con
loro”.
“Sì certo, ma
queste dicerie su Mirzam non mi piacciono, e anche se si tratta della
famiglia di Orion, siamo cauti, d’accordo? Almeno
finché non siamo sicuri…”.
“Dovrei essere io la chioccia
protettiva lo sai? Lasciali spettegolare, Al, lasciali dire, quello che
conta siamo solo io, te e la nostra famiglia”.
Mia madre sorrise e lo baciò voluttuosa, lasciandolo un
attimo interdetto, voleva davvero parlare con suo figlio, subito, ma
poi la guardò, l’afferrò stringendola a
sé e dal suo viso sparì l’espressione
contrariata e qualsiasi turbamento. Parlarono sommessamente poi sentii
la risata giocosa e affannata di mia madre, stranamente rossa in viso
mentre mio padre le baciava dolcemente il collo e
l’accarezzava attraverso il vestito.
“Non vedo l’ora di
filarcela in Scozia, stare per conto nostro, averti tutta per me,
sempre!”.
Ogni parola era un bacio.
“Oh Al… credo
proprio che dovremmo farci piacere il Wiltshire ancora per un bel
pezzo!"
Sorrise misteriosa e felice, mio padre la guardò
interrogativo, poi si illuminò e le pose delicatamente una
mano sul ventre, risero e ripresero a baciarsi ancora con
più foga stringendosi forte l’un
l’altra, mentre io filavo in camera mia incuriosita da quelle
parole.
*continua*
NdA:
Ringrazio quanti hanno letto, hanno aggiunto a preferiti/seguiti/ecc,
hanno recensito e/o hanno proposto/votato questa FF per il concorso sui
migliori personaggi originali indetto da Erika di EFP (maggio 2010).
Valeria
Scheda
Immagine
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