Deserving-8
Deserving
Le
macerie riarse della villa di Orochimaru furono abbattute per fare
posto a un nuovo edificio, più moderno e funzionale.
I
suoi terreni furono venduti all’asta, numerosi estimatori piansero
sulla biblioteca perduta per sempre, però molti, i più,
tirarono un sospiro di sollievo. Presto qualcun altro avrebbe
raccolto l’eredità di Orochimaru, ma per ora potevano
dormire sonni tranquilli, pregando per la salute e non per svegliarsi
vivi l’indomani.
Alla
fine dell’anno Sakura diede alla luce il suo primogenito, un
bambino pallido e magro, che destò non poche preoccupazioni.
Sasuke chiese l’appoggio economico di Jiraya, che sbuffando glielo
concesse, e si chiamarono i migliori medici, si fecero le migliori
villeggiature.
Il
bambino crebbe, acquistò la salute che gli mancava, e diventò
degno erede di un casato in ricostruzione. A distanza di pochi anni
la famiglia si ingrandì nuovamente, prima con una bambina, e
poi un’altra ancora.
Il
1859, nel corso dei conflitti tra Francia e Austria, portò la
guerra a Montebello, e costrinse gli Uchiha a fuggire a Milano.
Prima
di andarsene, un Sasuke reso più solido e al contempo più
fragile dal tempo, volle visitare per l’ultima volta il parco della
villa e le stanze interne.
Era
una giornata nuvolosa, e la luce si posava sugli oggetti con una
morbidezza particolarmente vellutata, ammantandoli del telo della
nostalgia.
Probabilmente
non avrebbe più rivisto quelle mura, quegli alberi, quei
divani. Non sarebbe più tornato a Montebello, prima di
raggiungere i suoi antenati, e ogni fibra del suo corpo ne era più
che consapevole.
Attraversò
ogni camera con il passo lento che aveva acquisito negli anni, e si
soffermò su ognuno dei mobili, sfiorandolo con affetto.
Lo
scrittoio di sua madre, della quale ricordava così poco.
Il
divano su cui Lee si era seduto, il giorno in cui doveva dirgli che
non avrebbe sposato Sakura.
Il
letto che aveva diviso con l’unica donna che avesse mai amato, e su
cui i suoi figli si erano accalcati, nelle notti di tempesta,
terrorizzati da tuoni e fulmini.
La
carta da lettere con cui aveva scritto a Jiraya, il giorno della
morte di Naruto.
Tutte
cose a cui, vivendo in quella casa, non aveva mai prestato eccessiva
attenzione. Ma ora che se ne andava, ora che era costretto ad
abbandonarle, gli sembravano più care che mai.
L’ultima
tappa fu la ‘stanza di Naruto’, come non avevano mai smesso di
chiamarla. Era rimasta chiusa tanto a lungo da conservare ancora il
suo odore, nonostante le domestiche fossero incaricate di pulirla
ogni mese.
Sasuke
vi entrò con una sorta di timore reverenziale, la mente e gli
occhi pieni dell’immagine del Naruto ventenne, della sua voce
squillante, della sua sciarpa turchese e del suo sorriso. Con gli
anni il senso di colpa si era stemperato in una morbida accettazione,
ma il ricordo, no. Quello si era ampliato e intensificato.
Attraversò
il pavimento coperto di legno sentendo i tacchi risuonare piano.
Passò lo sguardo sul letto, e quasi gli sembrò di
vedere Naruto che si svegliava, i giorni in cui andavano a caccia, e
lo fissava vacuo, chiedendogli perché diavolo era lì
prima dell’alba. Scorse dal letto fino allo scrittoio, lo stesso
scrittoio che Naruto aveva fatto portare con tanta cura fin dalla
Francia, e che raccoglieva tutti i suoi segreti e i suoi pensieri, e
lì si soffermò.
Non
aveva mai letto i suoi diari, per pudore e per rispetto.
Li
aveva chiusi nel primo cassetto, aveva dato due giri di chiave, e poi
era scappato lontano dal suo senso di colpa.
Ora,
in una fredda giornata di aprile, fermo nella sua stanza, un’antica
domanda gli tornò alla memoria.
Perché
Naruto era sulla strada di Retorbido, quel giorno?
Forse
le malelingue avevano ragione a insinuare che visitasse la casa
chiusa. Sasuke lo avrebbe anche capito, intrappolato in un matrimonio
che non desiderava e costretto a vedere la donna amata tra le braccia
di un altro.
Eppure
no, era convinto che Naruto non fosse un tale disperato. Naruto
voleva altro, la soddisfazione fisica dei piaceri non era
fondamentale, né sufficiente, per lui.
Ma,
se davvero esisteva una risposta a quella domanda, era morta la notte
tra il quindici e il sedici giugno di quel lontano 1836.
E
probabilmente, anche se Sasuke avesse potuto chiederglielo, Naruto si
sarebbe limitato a tacere, come faceva sempre.
Forse
nessuno era davvero degno di penetrare i segreti della sua mente.
*
* *
Il
giardino era cresciuto spontaneo ed incolto, conquistando sentieri e
viali anno dopo anno.
Gli
olmi e le querce si erano ingranditi a dismisura, assediati da edera
e sterpaglie, e le loro radici nodose spuntavano dal terreno, per
avvolgersi attorno a sassi e pavimentazione.
Era
il regno incontrastato della natura, lasciata nella libertà
più completa e riadattatasi alla vita prima dell’uomo. Solo
la strada principale si era salvata, abbastanza larga da contrastare
l’avanzata dell’erba, coperta di pietrisco aguzzo e chiusa al
limitare da un cancello elaborato.
Quando
lo aprirono, i cardini cigolarono penosamente, e l’intera struttura
traballò, erosa dalla ruggine.
Il
rombo dell’automobile fu assordante e terrificante per la piccola
fauna che si era impossessata del parco. Scoiattoli e fringuelli si
allontanarono spaventati a morte, correndo negli angoli più
bui e sfidando l’egemonia dei gatti selvatici, e le ruote della
Fiat lucente scricchiolarono, trasportando il peso di quintali di
ferro e vetro sui ciottoli taglienti.
L’automobile
si fermò nel grande cortile antistante l’ingresso, e la
portiera davanti si aprì per lasciar uscire una donna avvolta
in un severo completo di lana. Teneva i capelli raccolti in una
crocchia rigida, grigia come i suoi abiti, e una minuscola borsetta
nera tra le mani guantate. Attraverso le labbra sottili chiamò
qualcuno all’interno dell’automobile, e mentre l’autista
scendeva dall’altro lato, lei andò ad aprire la portiera
posteriore.
A
mostrarsi sul predellino lucente fu una bambina di una dozzina
d’anni, avvolta in un vestitino giallo che le scendeva morbido fino
alle ginocchia, forse un po’ troppo ossute. Non appena le sue
scarpette di raso toccarono il pietrisco, fece una piccola smorfia e
si calcò sulla testa il cappellino bianco, disposto su capelli
di una bizzarra sfumatura di rosso, molto simile al rosa. Sia sul
cappello che sugli abiti era ricamata una S elaborata.
«Avete
freddo?» domandò la donna vestita di grigio, solerte.
«No
tata, sto bene» rispose la bambina, stringendo la
borsetta di pizzo al petto.
«Ottimo.
Aspettate qui, devo scambiare qualche parola con vostra madre»
La
donna si allontanò di buon passo, diretta verso la signora dai
capelli scuri che parlava sorridendo con l’autista, e la bambina
rimase sola. Si guardò attorno.
Schermandosi
dal sole con la tesa del cappellino, scrutò il parco buio che
si stendeva minaccioso attorno al viale principale. Sentì la
madre parlare di giardinieri, oltre l’automobile, ma a dire il vero
lei era molto più interessata alla gradinata giallastra che
saliva verso il grande portone d’ingresso.
La
villa era grande quasi quanto quella di Milano. Era rovinata,
l’intonaco era scrostato e le persiane sfasciate, ma aveva un’aura
di mistero che per una ragazzina di dodici anni era impossibile
ignorare. Era come le case infestate di cui aveva letto tante volte
nei libri, come quelle dei racconti di Poe, che tanto la spaventavano
e intrigavano al contempo.
Quando
sentì sua madre chiamarla, chiedendole di entrare con lei, si
affrettò a seguirla senza nemmeno nascondere l’emozione.
Eppure
l’interno, a dire il vero, fu deludente.
Un
salone buio e mobili coperti da teli bianchi, polvere ovunque.
Nessuna traccia di creature misteriose, folletti o mostri che
fossero, nessuna botola, nessun passaggio segreto, nessun mistero,
almeno a prima vista.
Sua
madre e la bambinaia iniziarono subito a discorrere fittamente delle
modifiche necessarie, delle pulizie, delle opere di falegnameria,
della tinteggiatura, del restauro. La ragazzina le ascoltò per
meno di due secondi, poi sbirciò sotto un telo, e scoprì
soltanto un divano roso dalle tarme.
Sbuffando,
si guardò attorno con evidente abbattimento.
Fu
allora che vide ciò che le donò nuova speranza, e che
fece fare un balzo al cuore nel suo petto: le scale che si
inerpicavano nel buio fino ai piani superiori.
Si
fece immediatamente circospetta. Mentre gli adulti erano distratti,
la bambina percorse la sala fino a raggiungere le scale. L’autista
stava ancora cercando di aprire il secondo tendone, per fare luce, e
nessuno prestava attenzione a lei. Fu così che riuscì a
sgattaiolare, inosservata, fino al piano superiore.
Da
subito si trovò in una stanza molto più buia del
previsto, tanto che impiegò quasi due minuti per abituarsi
alla penombra. Procedette con le mani tese in avanti, cercando di non
urtare i vecchi mobili troppo bassi, e poi incontrò la
tappezzeria di una parete, con suo gran sollievo. Costeggiandola
coscienziosamente, si fece avanti nella penombra fino a raggiungere
una porta. Provò la maniglia, ma la scoprì chiusa.
Di
nuovo sentì la delusione montare nel suo cuore avventuroso:
possibile che quella casa fosse solo un ammasso di mattoni e intonaco
scrostato? E la fiaba? I segreti? I misteri del luogo, dove si
nascondevano?
Procedette
ancora oltre, fino a incontrare un’altra porta. Questa volta, con
sua grande sorpresa, si rese conto che non solo non era chiusa, ma
nemmeno accostata troppo bene. Un sottilissimo raggio di luce
sfuggiva dall’incontro tra legno e telaio, e andava a illuminare la
polvere che danzava nell’aria, spegnendosi quasi subito.
La
ragazzina sentì il cuore accelerare nel petto. Forse era
arrivata a qualcosa.
Con
trepidazione, dunque, sospinse la porta, e si trovò davanti a
una stanza con un letto, uno scrittoio... E un bambino.
I
loro sguardi si incontrarono per la frazione di un secondo. Lei era
in piedi sulla soglia, lui davanti allo scrittoio, entrambi immobili
e senza respiro.
«Chi
sei tu?» scattò la ragazzina per prima, gettando
sull’altro uno sguardo sprezzante. «Questa è la mia
casa, potrei denunciarti ai carabinieri!»
Il
bambino balzò giù dalla sedia e nascose qualcosa dietro
la schiena, fissandola torvo.
«Non
ho fatto nulla di male» borbottò, in dialetto.
«Eh?»
fece la ragazzina, confusa.
Lui
sembrò riflettere per qualche istante, e poi, in un italiano
un po’ stentato, provò a ripetere la frase.
«Non
sto fand’nient’ad
mal»
La
ragazzina impiegò qualche istante per tradurre quanto aveva
sentito, e poi scosse la testa con forza.
«Questa
è proprietà privata! Non puoi restare qui! Non puoi...
Non puoi rubare i miei misteri, ecco!»
Il
bambino la fissò sbattendo le palpebre, su occhi di un azzurro
insolitamente intenso, in quella parte del mondo.
«Che
misteri?» chiese perplesso.
La
ragazzina arrossì violentemente, e si strinse alla sua
borsetta. «I miei misteri. I segreti della casa, insomma. Non
puoi scoprirli prima di me, è casa mia»
«Questa
casa non è di nessuno» sbruffone, il bambino sollevò
il mento con aria di sfida. «Mio padre e mio nonno sono sempre
venuti qui a nascondersi, e non c’era mai nessuno»
«Perché
viviamo a Milano» soffiò la ragazzina, stizzita.
«Veniamo in campagna solo quest’estate, e solo da quest’anno,
va bene? Ma tu che vuoi saperne? Con quei vestiti sarai sicuramente
uno straccione»
«A
dire il vero mio padre è il fabbro!» si indignò
il bambino. «Ferra tutti i cavalli della zona, vengono fin da
Varzi per rivolgersi a lui!»
La
ragazzina fece una smorfia di disgusto. «Mio
padre
è il duca Uchiha» commentò tronfia. «E
presto i cavalli non li vorrà più nessuno, perché
tutti viaggeranno sulle Fiat, e mio
padre
possiede una parte della fabbrica»
Il
bambino la fissò con astio. Aveva capito solo metà di
quello che la ragazzina aveva detto, ma gli bastava sentire la sua
vocina irritante e constatare che era più alta di lui, per
farlo arrabbiare.
«Comunque
sono arrivato prima mi»
sibilò.
«Ma
in casa mia»
replicò la ragazzina.
«Chissene
importa. Io ho già scoperto i segreti che c’erano da
scoprire»
Negli
occhi della ragazzina passò un lampo di rabbia. «Come
sarebbe a dire? Non ci sono segreti! E’ una casa normale, banale
e... e... stupida!»
Sembrò
faticare per lasciarsi uscire l’ultima parola, abituata com’era a
ingoiare sempre le imprecazioni, ma alla fine allungò verso il
bambino un’occhiata profondamente soddisfatta per la propria
audacia.
«Non
è vero» ribatté lui, rabbioso. «Io li ho
scoperti! E poi anche tu poco fa hai detto che li cercavi!»
La
ragazzina arrossì. Nella stanzetta in penombra calò un
silenzio denso di imbarazzo e tensione.
Il
bambino si morse l’interno di una guancia, passandosi una mano tra
i capelli biondi e scompigliati, e la ragazzina rimase immobile,
abbracciata alla sua borsetta.
Che
umiliazione. Ridotta al silenzio da un popolano, che per giunta
sembrava più piccolo di lei.
Poi
il bambino la guardò, improvvisamente incerto, e riaprì
bocca.
«Senti...
possiamo scoprirli insieme» borbottò, di malumore. «Se
ci tieni tanto, possiamo scoprirli insieme i segreti»
La
bambina alzò lo sguardo, indignata. Perché doveva
scendere a patti nella sua stessa casa? Stava per fare una sfuriata
degna della tata, con tanto di strepiti e imprecazioni, quando una
vocina interiore la fermò.
Se
questo bambino sa qualcosa, allontanandolo potresti perdere degli
indizi. D’altronde c’è sempre un aiutante di infimo rango,
nelle storie di avventura.
Sbuffò,
sollevando il mento impettita, e, nonostante l’arrossamento del suo
viso, annuì.
«Va
bene. Te lo concedo» bofonchiò.
Il
bambino le rivolse un mezzo sorriso, chiedendosi che diavolo volesse
dire concedo,
e all’improvviso le mostrò le mani che fino a quel momento
aveva nascosto dietro la schiena.
«Guarda»
sussurrò, mentre la ragazzina si avvicinava. Sui palmi sporchi
era adagiato un piccolo mazzo di chiavi leggermente arrugginite.
«Dove
le hai prese?» indagò lei, ormai avvolta nell’atmosfera
delle imprese epiche, pronta a sussurrare con aria cospiratoria e a
scordarsi di rimproverare il piccolo ladro.
«Le
ho trovate nella stanza da letto, sul comodino» spiegò
lui, senza nascondere la soddisfazione. «C’era una scatolina,
e c’erano dentro queste. Ci ho messo una settimana a capire che
aprivano quella porta» accennò con il capo la porta per
cui erano entrati.
«E
le altre?» mormorò la ragazzina, studiandole
affascinata.
«Cercavo
di capirlo. Secondo me c’entrano con lo scrittoio»
Insieme,
i due bambini fissarono lo scrittoio di legno impolverato.
All’improvviso aveva acquistato la consistenza di un baule del
tesoro, davanti ai loro occhi.
Si
scambiarono uno sguardo e si avvicinarono cauti.
«Penso
che va qui» spiegò il bambino, additando il primo
cassetto. «Perché gli altri sono tutti aperti. Però
non riesco a farla girare»
La
ragazzina gli chiese le chiavi, e le infilò nella toppa. La
ruggine doveva aver intaccato la serratura, perché grattarono
paurosamente, ma dopo un po’ di sforzi congiunti scattò.
Emozionati,
i bambini si guardarono. E poi scoprirono che il cassetto era ancora
chiuso, e che ci voleva un altro giro.
Allora,
imprecando abbondantemente, si impegnarono di nuovo e riuscirono
ancora una volta nell’impresa. Ma la chiave si spezzò
all’interno della serratura mentre cercavano di tirarla fuori.
«Meno
male che non è successo prima» commentò la
ragazzina, mentre il bambino tirava il cassetto verso di sé.
All’interno
trovarono un sacco di carta. La ragazzina inspirò a fondo
l’odore della cellulosa ingiallita, riconoscendolo come l’odore
del mistero, e con mani leggermente tremanti prese il primo pacchetto
di lettere. L’indirizzo era scomparso, sbiadito dal tempo, o forse
non c’era mai stato.
Il
bambino che era con lei tirò fuori dalla tasca un coltellino a
serramanico, e recise lo spago che le teneva insieme. La ragazzina
prese allora la prima lettera, ed entrambi videro che sulla seconda
il destinatario era ancora leggibile, in una calligrafia leggermente
stentata ma comprensibile.
A
Naruto.
Il
bambino si accigliò.
«Io
mi chiamo Naruto» sussurrò perplesso, e la ragazzina lo
fissò stupita.
«Che
nome strano» commentò. «E che coincidenza...»
Il
bambino sbatté le palpebre, completamente smarrito di fronte
all’incomprensibile termine coincidenza.
Non sapendo come comportarsi, decise bene di scrollare le spalle e
riportare l’attenzione sulla lettera.
«Aprila»
Senza
crucciarsi troppo per la privacy e altre inezie simili, la ragazzina
aprì la busta e sfilò il foglio che vi era chiuso
dentro. Fece un po’ di fatica a decifrare le righe, tremanti e in
uno stile troppo lontano nel tempo, ma alla fine ci riuscì, e
lo lesse a voce alta, a beneficio del suo accompagnatore.
“Mio
amato Naruto,
spero
che il profumo che mi avete donato si senta su questa carta
dozzinale.
So
che il denaro che mi concede non andrebbe sprecato in questa maniera,
ma non posso fare a meno di lasciarvi ogni volta un messaggio.
Mi
impegno molto per compilare queste poche righe, saval
«Saval?»
ripeté la ragazzina, interrompendosi.
«E’
come sapere» spiegò il bambino, con una certa
difficoltà. «Come se ti dico: guarda che ti faccio un
favore, eh. Guarda che ti faccio un favore, saval»
Mi
impegno molto per compilare queste poche righe, saval, ma ci tengo
con tutto il mio cuore, perché quando se ne va io mi sento
morire. Vi sono grata per la casetta che mi avete dato, e anche per
avermi ins
imparato a scrivere e un poco a leggere, ma quello che voglio davvero
è lei, non i suoi insegnamenti.
So
che è sposato, e la sua donna è la duchessa più
a modo della pianura, mi creda. E so che me lo ha detto tante e tante
volte, ma io non vivo se non vi ripeto quanto vi amo. Mi dispiace. Ai
suoi occhi sarò ridicola, una cuntadinei prosuntuosa, ma sono
sincera, mi creda, con tutto il cuore sincera.
Ogni
volta che lei se ne va, io muoio. Il mio cuore fa male, davvero, e
pesa nel petto.
Ora,
poi, ci sono anche altre preoccuapazioni,
ma non voglio annoiarla. Gliele dico quando ci vediamo, magari si
sistema tutto.
A,
voglio che è
sia già venerdì, lo sapete?
Mi
mancate, Naruto.
Vi
amo con tutto il mio cuore.
10
giunio 1836”
«E
finisce?» il bambino fece una smorfia di disappunto,
contrariato.
«Oh,
è così romantico!» sospirò la ragazzina,
stringendosi la lettera al petto. «Non capici?Naruto e questa
donna si amavano! Ma lui era sposato con un’altra, no? E quindi non
potevano amarsi davvero»
Il
bambino la fissò stranito. «Voi femmine siete proprio
luc»
mormorò scuotendo la testa.
«Ma
come si chiamava questa donna?» sospirò la ragazzina,
con gli occhi brillanti. «Quanto mi piacerebbe saperlo! E poi
guarda la data: è di cento anni e sei giorni fa! Non è
una grande coincidenza?»
«Oh,
se lo dici tu...» borbottò il bambino, chiedendosi se
sarebbe stato in grado di ripetere coincidenza.
«Aspetta,
la lettera prima deve essere l’ultima. Quella senza indirizzo»
Entusiasmata, la bambina afferrò la prima busta e la aprì
febbrile.
All’interno,
un foglio ingiallito con pochissime parole.
“Devo
vedervi urgentemente.
Vi
prego.”
«E
questo cos’è?» il bambino sbuffò, annoiato.
«Non ci dice niente»
«Chissà
cosa sarà successo...» mormorò invece la
ragazzina, sognante. «Forse i loro genitori li hanno scoperti?
Oh, sogno un amore proibito da sempre!»
«Sì,
proprio strane» borbottò il bambino, considerando
nuovamente le femmine, e frugò ancora nel cassetto. Le sue
mani si posarono su una copertina di pelle morbida e impolverata, e
con una certa fatica recuperò un quaderno chiuso da un laccio
consumato. «Guarda cos’ho trovato» disse entusiasta,
cercando di distrarre la ragazzina, rapita dalla corrispondenza.
«Lì
forse risponde!» squittì lei, entusiasta, e quasi glielo
strappò di mano.
Con
impazienza sfogliò le prime pagine, e, ora che la scrittura
era più comprensibile, lesse spedita.
“25
Ottobre 1835
Ho
una stanza, in casa di Sasuke e Sakura.
E’
incredibile pensare di essere qui, sereno, quando in realtà
dovrei soffrire come un cane. Qualche celebre scrittore ha detto che
il tempo guarisce ogni ferita, e forse ha ragione.
Spero
che sarà così anche per Hinata.
Povera
Hinata. Non posso dire di amarla, ma per lei provo solo un grande
affetto, e molta compassione. Coinvolta nei piani del padre, avrebbe
dovuto sposare anche Orochimaru, se glielo avessero ordinato.
Vorrei
essere un marito migliore, per lei.
Vorrei
non farla soffrire, e amarla come un uomo. Invece la amo come un
fratello.
Ieri
sono stato ancora a Retorbido, da lei. Non ricordavo quanto le
somigliasse, come i suoi occhi fossero verdi... non lo ricordo mai.
E’ sempre una sorpresa.
Temo
che lei si stia innamorando di me, ma io non potrò mai
renderla felice.
Sono
il marito di Hinata, sarò per sempre il marito di Hinata, e
nulla potrà mai accadere perché io cambi idea.
L’ho
fatto per Sasuke e Sakura.
Continuerò
a farlo per loro, e per Hinata stessa.”
«Risale
a un anno prima della lettera...» mormorò la ragazzina,
scorrendo le pagine più avanti. «Significa che per tutto
quel tempo lui e lei si sono visti di nascosto. Giusto?» cercò
l’approvazione del bambino, ma lui all’improvviso sembrava
pensieroso, quasi a disagio.
«Che
c’è?» chiese lei, accigliandosi.
«Mm...
niente, vai avanti»
La
ragazzina riprese a sfogliare il quaderno senza seguire alcun ordine.
In alcuni punti lo scrittore esultava per una partita di caccia, o
per un motto di spirito, in altri era sintetico e triste, altrove si
dilungava in lunghe e appassionate disquisizioni sulla natura del
dolore.
Tutte
cose troppo noiose per due ragazzini come loro.
Così
corsero fino alle ultime pagine, e allo scritto finale.
“15
giugno 1836
Lei
mi ha scritto.
Dice
di volermi vedere con urgenza, e ho il fondato sospetto di sapere
quale sia la cagion del suo malessere.
Non
avrei mai voluto che accadesse.
Ora
come dovrei comportarmi? Cosa dovrei fare come marito, come amante,
come uomo? Qual è il mio compito in una situazione simile?
La
donna con cui tradisco mia moglie aspetta un figlio da me. Un
bastardo, che crescerà male in qualunque ambiente. Non avrà
un padre, non potrà mai averlo, e se vorrò stare al suo
fianco potrò farlo solo economicamente, e solo di nascosto.
Maledizione!
Proprio
ora che anche Sakura sembra nello stesso stato...
Lei
crede di nasconderlo a tutti, Sasuke forse non se ne è davvero
accorto. Ma io non posso fare a meno di notare quanto le sue
condizioni di salute siano simili a quelle di lei.
Doppia
coltellata.
Certe
volte mi chiedo perché Dio ami accanirsi così duramente
su di me. Prima mi ha sottratto i genitori, poi mi ha sottratto la
donna che amo, ora mi tortura, costringendomi a vedere la felicità
di tutti, tranne la mia.
Cosa
devo fare?
Dove
ho sbagliato?
Me
lo chiedo sempre più spesso, ultimamente...
Ma
poi ricordo che la mia vita è stata piena anche di tante cose
belle. Ho conosciuto Jiraya, Sasuke, anche Sakura, Hinata, e lei.
Persone che a modo loro mi amano, pur facendomi soffrire, persone
che, ne sono certo, non mi lasceranno mai solo.
Amo
la mia natura ottimista, in questi momenti. E ringrazio Dio per
avermela donata.
Ora
devo andare. Lei mi aspetta, e credo che finirò per fare tutto
quello che posso, in suo onore e per nostro figlio.
Ma
non mi ritengo affatto uno sciocco.”
E
lì il diario si concludeva, con una calligrafia nervosa eppure
ancora elegante, di un uomo turbato ma profondamente coerente.
«Come
sarebbe a dire?» sbottò la ragazzina, indignata. «Non
posso sapere nient’altro? Ho per le mani la storia più
tormentata dell’ultimo secolo, e si interrompe così?
Insomma, lui la ama o no? E il bambino? Che ne è stato? E la
moglie?»
Il
bambino accanto a lei si mosse nervoso.
«Di’
qualcosa anche tu!» lo esortò la ragazzina, infuriata.
«Cerca nel cassetto, magari c’è altro! Oh, se avessimo
le sue lettere...»
«Io
forse so dove sono» mormorò il bambino, accucciato sui
talloni.
«Cosa?
Le hai trovate?»
«No...
Mi sa che sono a casa mia»
La
ragazzina lo fissò per un lungo istante.
«Mi
stai prendendo in giro» disse poi, secca.
«No.
Sono tra le cose di mia nonna»
«Non
è possibile! Sono le lettere di un nobiluomo! Perché
dovrebbero essere nella casa di un fabbro?»
Il
bambino scrollò le spalle, grattandosi un braccio.
«E’
che... boh, non lo so, magari mi sbaglio. Però, ecco, io non
mi chiamo Naruto per caso. Il mio nome è il nome di tutti i
primi figli maschi della famiglia. E’ una tradizione, ecco»
La
ragazzina lo fissò stranita. «E quindi?» chiese,
irritata. Detestava saperne meno del contadino.
«E
quindi, mia nonna racconta una storia» bofonchiò il
bambino, a disagio. «Dice che sua madre era figlia di un
gentile.
Cioè, che mia nonna era sposata con un gentile. Credo. Boh,
non lo so bene, ma lei si vanta sempre di avere radici alte.
Dice che sua nonna ha avuto una grande storia d’amore con un nobile
che era sposato... Ah, quindi forse non si erano sposati. Va beh,
comunque dice che aveva questo grande amore, e che poi è
morto. E allora quando è nato suo figlio lo ha chiamato come
lui. E poi il figlio di suo figlio lo ha chiamato come lui. Ma il
figlio è morto giovane, e allora sua sorella, cioè mia
nonna, ha avuto un figlio e lo ha chiamato Naruto. Che è mio
papà. E poi sono nato io. E ci chiamiamo tutti Naruto. E
diceva...» si interruppe, per raccogliere le idee. «Nonna
diceva che suo nonno era un amico del duca che poi è andato a
Milano. Quindi, non lo so, io poi pensavo che magari quel Naruto è
quello che scrive qui... e le lettere sono della nonna di mia nonna»
La
ragazzina sbatté le palpebre per un attimo, cercando di
mettere in ordine le informazioni ricevute.
«Aspetta...
Quindi tu potresti essere il discendente di questo Naruto?»
chiese poi, sbalordita.
Il
ragazzino scrollò le spalle per l’ennesima volta. «Boh.
Non lo so, che ne capisco io? Dico solo che magari può
essere... ma non lo so, non è che mi importa poi molto»
«E
invece dovrebbe!» esclamò la ragazzina, entusiasta. «Hai
sangue nobile delle vene! Magari un’eredità! Potresti avere
tu dei cavalli da far ferrare!»
«Davvero?»
il ragazzino la fissò, dubbioso. «Ma è passato
tanto tempo... magari ci sono altri discendenti... e poi può
essere che mi sbaglio»
«Oh.
Hai ragione...» mormorò la ragazzina, demoralizzandosi.
«Però sarebbe bello!» riprese dopo un attimo, con
un sorriso. «Magari sei l’ultimo discendente, magari sei una
specie di miracolo!»
Lo
fissò, e lui fissò lei, rosso in faccia.
«Beh,
non lo so... Sarebbe bello magari, sì... Ma anche se non lo è
mi va bene lo stesso!» balbettò, imbarazzato. «Io
non sono poi... cioè, non sono abituato ad essere speciale»
La
ragazzina tacque, rendendosi conto di essersi lasciate prendere
dall’entusiasmo.
«Scusa»
mormorò, arrossendo a sua volta.
Immersi
in un silenzio imbarazzato entrambi si fissarono le scarpe, finché
non sentirono una voce allarmata dal piano di sotto.
«Signorina!
Signorina Sofia!»
La
ragazzina trasalì, e infilò precipitosamente il diario
nel suo cassetto.
«Devo
andare!» esclamò agitata. «Oh, quanto mi
sgrideranno...»
«Ma
torni?» la interruppe il bambino, fissandola intensamente.
Lei
si sentì scaldare sotto quegli occhi azzurri, così
strani e così belli. E poi fece un cenno che poteva essere sia
sì che no.
«Per
dove scappi?» si affrettò a chiedere preoccupata,
guardandosi intorno.
Il
bambino sorrise, furbo. «Questo è il mio segreto. Non
sei degna di saperlo»
Quattro
anni dopo l’Italia entrò in guerra al fianco della Germania.
Gli
Uchiha, blandissimi sostenitori del regime, furono caldamente
invitati a lasciare Milano e ritirarsi in provincia.
Laggiù,
una ragazza ormai sedicenne, dai capelli di una sfumatura di rosso
così insolita da sembrare rosa, si trovò a passare
molto tempo e molte estati con un contadino dai capelli biondi come
il grano, di qualche anno più giovane.
Un
giorno, lui le svelò il passaggio segreto per il quale si era
intrufolato nella villa di lei tutti gli anni, giorno dopo giorno.
Sorridendo, le disse che finalmente ne era degna.
E
poi le chiese di sposarlo, nonostante tutto e tutti, non appena
avesse raggiunto la maggiore età.
La
loro storia, come quella dei loro antenati, fu raccolta tra diari e
lettere segrete.
Ma
non ebbero bisogno di lasciare delle carte ai loro figli.
Insieme,
finché il tempo glielo concesse, raccontarono parola dopo
parola tutto quello che c’era da sapere.
Fine
E per chiudere in bellezza, un capitolo malinconico di vago retrogusto
NaruSaku. Ma non fraintendete: questi due non sono Naruto e Sakura,
né ci assomigliano! Questi sono un altro Naruto, e una certa Sofia, tutto qui.
Alla fine, questa fanfiction si è fatta quasi originale.
Cooomunque, spero vivamente che il dialetto non sia stato un gran
problema per voi. Ho cercato di riprodurre il linguaggio semplice di un
bambino che non è stato a scuola, e di renderlo comprensibile
anche per chi non è delle mie parti (o, più
genericamente, non è del nord). La misteriosa donna della casa
chiusa (le case chiuse erano praticamente bordelli, ma immagino lo
sappiate) è volutamente rimasta nell'anonimato, perché
nella mia testa, ve l'ho detto, questa storia si è fatta
originale, e non volevo inserire altri personaggi di Naruto.
Per tutto il resto... uhm, nella mia testa so esattamente com'è
la storia di Naruto e Sofia, dettaglio per dettaglio. Ma, salvo
eccezionali avvenimenti come terremoti, carestie o amnistie
universitarie (trenta politico a tutti!), non credo ragionevole pensare
che riuscirò mai a scriverla (e anche se dovessi, sarebbe
un'originale).
In ogni caso, sappiate che questi due mi stanno molto a cuore, davvero.
Ora, finalmente, le risposte alle vostre recensioni...
Ma prima, un attimo di pazienza.
Avendo concluso questa longfic, e dal momento che Mala_Mela ha
finalmente deciso di mettere la parola FINE (ma anche INIZIO) allo
spinoff che mi doveva, credo che la prossima tappa sarà Hope,
famigerato sequel di Redenzione! Avrei anche voluto metter mano alla
longfic AU che ho sul pc, ma, davvero, quella non so se seriamente
proseguirà...
In ogni caso, Hope arriverà. Che lo vogliate o no.
sammy1987: io l'ho detto che
preferivo Sasuke nel finale, piuttosto che Naruto. Mi sembra
decisamente più triste lui! Comunque ecco, fiction finita,
regalo concluso, e ancora buon compleanno! (ormai è come dire
"buongiorno")
Talpina pensierosa: un commento
misteriosamente lungo e lusinghiero! Grazie Maria, uccidere Naruto
è un hobby per me, ma a quanto dite mi riesce bene! E' bello
quando le cose che amiamo sono anche quelle che facciamo meglio! <3
bambi88: non abbandonare il
nero sentiero! Lascia perdere Kakashi che si allontana verso il
tramonto, e concentrati su papà! A proposito di genitori e
figli... visto? Sono riuscita a incasinare ancora di più!
Beh.
C'è da dire che rispondere a tre recensioni è quanto mai semplice! XD
Aya
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