La lunga strada verso casa - 1
Questa
volta non potete lamentarvi per il ritardo con cui posto, ma... beh,
avrete comunque di che lamentarvi, perché questo è il capitolo
conclusivo di “La lunga strada verso casa”. E già dal titolo del
capitolo credo si evinca che non è un capitolo ricco di gioia e
felicità – ma non uccidetemi. Non prima di avermi lasciato
spiegare, almeno.
Se
finora avevo rispettato quasi al minuto il reale corso degli eventi,
da questo capitolo le cose cambieranno: non per regalarvi spoiler, ma
alcuni eventi verranno anticipati, con certe conseguenze... ma non è
questa la notizia bomba. La notizia che vi sconvolgerà è che
siccome ormai sono affezionata a tutte voi, alle vostre recensioni e
al vostro affetto, ho deciso di allungare ancora un po' il brodo (e
di conseguenza la vostra agonia) aggiungendo una stagione
all'infinita storia di Daria e Shannon, l'unica coppia al mondo a non
conoscere il significato della parola 'tempismo'. La nuova storia
sarà presto online, con tanto di trailer e colonna sonora =)
Per
ulteriori informazioni, cliccate su Direzioni
ostinate e contrarie!
Come al
solito, buona lettura,
EffieSamadhi
P.S.: Grazie a tutte voi per il sostegno che continuate a dimostrare,
aiutandomi di volta in volta, tramite le vostre recensioni e i vostri
commenti, a trovare la strada giusta per continuare i miei insensati
racconti. In particolare, un grande abbraccio a katvil, Sayuri_remenissions, Pirilla_Echelon e Love_in_London_night,
le quattro irriducibili che non fanno mai mancare il loro appoggio -
non sono sempre puntuale e precisa nel rispondere (anzi, non lo sono
mai), ma sappiate che vi adoro, e soprattutto adoro il fatto che siate
sempre pronte a dire la vostra, nel bene e nel male. Spero veramente
con tutto il cuore di non perdervi per strada =)
La lunga strada verso casa
Capitolo diciannovesimo
Eravamo una famiglia.
Come ha potuto
rompersi e dividersi e
ora siamo uno contro l'altro,
ognuno fa ombra
all'altro? Come abbiamo fatto
a perdere il bene che
ci era stato dato,
lasciarlo scivolare
via,
disperdersi,
distruggersi?
Cosa ci impedisce di
uscire,
toccare la gloria?.1
Torino,
3 marzo 2014
La conversazione con Alice
mi ha precipitata nel panico e nella confusione, anche più di quanto
fosse riuscita a fare la sola visione di Shannon. Ho seguito quasi
tutta la cerimonia in streaming, alternando momenti di lucidità a
brevi sonnellini, ma la mia proverbiale fortuna non mi ha consentito
di perdermi la premiazione di Jared, il suo toccante discorso di
ringraziamento e, soprattutto, la tenerezza del bacio che Shannon,
seduto in platea, ha stampato sulla guancia della madre. Anche
volendo, non potrei mentire a me stessa: ho invidiato Constance Leto,
in quel preciso istante. Avrei voluto con tutto il cuore essere io
la donna seduta accanto a lui, e avrei voluto con tutto il cuore che
fosse la mia guancia a ricevere quel bacio, o meglio ancora le
mie labbra. Mi sono stretta nella coperta e ho trascorso il resto
della notte a ripensare alle parole di Alice, rendendomi conto che se
è la mia migliore amica da una vita un motivo di certo c'è, e il
motivo è che lei è la sola persona al mondo in grado di rimettere
le cose in prospettiva, l'unica in grado di riportare la verità in
prima fila, dissipando le menzogne con le quali cerco continuamente
di coprirla. La verità è che io sono scappata da quella
meravigliosa fiaba parigina per paura, e non per mancanza
d'amore – perché io Shannon lo amo, ormai non posso più
concedermi il lusso di negarlo. Lo amo, e l'ho lasciato per paura –
paura di non essere abbastanza per lui, paura di non bastargli, paura
che il resto del mondo non mi credesse abbastanza per lui.
Accettare di stare con lui avrebbe significato accettare di dividerlo
con il resto del mondo, uscire allo scoperto e subire il giudizio di
un universo intero – e per quanto gli Echelon siano un popolo
completamente diverso dal resto del mondo, di certo non avrei mai
potuto sperare di piacere a tutti. Avevo paura di tutto questo, avevo
paura del giudizio di mio padre, avevo paura di perdere le poche
certezze che ho impiegato una vita a costruire. Avevo paura di
perdere la mia integrità, avevo paura di perdere la mia identità.
Avevo paura di perdere Alice – una paura folle di perdere le nostre
confidenze, le nostre conversazioni fatte di scemenze, le pizze
divise davanti ad un film strappalacrime, il semplice fatto di
esserci, sempre e comunque, l'una per l'altra. Stare con
Shannon avrebbe significato sopportare la lontananza, imparare a
fidarsi del prossimo – il che, per una che non a malapena si fida
di se stessa, sarebbe stata certamente una prova troppo grande. Stare
con Shannon avrebbe significato imparare a fidarsi del mondo,
abbandonarsi alla buona fede della gente, abbandonarsi completamente
ad un amore che persino in un film sarebbe sembrato troppo assurdo,
troppo bello per essere vero. E se un giorno mi avesse chiesto di
sposarlo? Che cosa sarebbe successo se mi avesse chiesto di metterci
di mezzo un anello, di dare un nome a ciò che saremmo stati? In quel
caso avrei quasi certamente dovuto scegliere di spostare la mia casa
in un Paese straniero – il che, per una che ha sempre creduto
fermamente nell'importanza di avere accanto la propria famiglia e i
propri amici, sarebbe stato semplicemente impossibile da accettare. E
di certo non avrei potuto costringere lui ad abbandonare la
sua famiglia, la sua patria, quella vita che ha
conosciuto per più tempo di me, e che sicuramente non gli sarebbe
mai stata restituita. Mi è costato una notte di sonno, ma finalmente
sento di essere riuscita a fare più chiarezza nel mio cuore: non ho
lasciato Shannon perché non lo amassi, ma per paura di non riuscire
ad amarlo nel modo in cui un uomo straordinario come lui merita di
essere amato.
*
Los Angeles, 3 marzo 2014
Jared
aspetta che mamma chiuda la porta di casa dietro di sé, prima di far
cenno all'autista di ripartire. «Ti fermi a dormire a casa mia?» mi
domanda all'improvviso, voltandosi verso di me. «Non ho voglia di
restare solo. Probabilmente non riuscirò nemmeno a chiudere occhio,
mi serve qualcuno da tormentare.»
«Se accetto, intendo
dormire» ribatto, slacciando il cravattino che mi sono costretto a
sopportare per l'intera serata. «Tu fai quello che vuoi, ma non ti
azzardare a rompermi le scatole.»
«E va bene, prometto che
tenterò di non essere troppo molesto» risponde con un mezzo
sbadiglio, gesto che mi rassicura: certamente a questo punto
l'adrenalina nel suo sangue deve essere scesa, facendogli abbandonare
quello stato di eccessiva eccitazione e ansia che lo accompagna da
almeno un paio di giorni. Se lo conosco bene, comunque, nonostante
l'ora tarda domani mattina salterà giù dal letto alle otto del
mattino, in forma come non mai e pronto a perseguire chissà quale
strano e impegnativo progetto.
Nascondo
un breve sorriso, tornando a guardare fuori dal finestrino: la notte
è scura, ma le mille luci di Hollywood illuminano quasi a giorno il
cielo, e di questo ringrazio. La notte è il momento peggiore per me,
da qualche settimana a questa parte: è come se l'oscurità
cancellasse la realtà dei miei giorni e costringesse le memorie a
farsi avanti, ferendomi più a fondo di quanto possa sopportare.
Riposare, la notte, si è fatto difficile: spesso me ne sto disteso a
letto rigirandomi continuamente tra le lenzuola, come se stessi su un
materasso fatto di chiodi, ed è per questo che spesso non rimango a
dormire da Christine, quando capita di uscire insieme – so che non
farei altro che agitarmi, impedendo anche a lei di dormire e
facendola preoccupare inutilmente. E quando anche riesco a prendere
sonno, spesso mi capita di fare un certo sogno – sempre lo stesso,
sempre ugualmente disturbante e doloroso: continuo a rivedermi
scendere da un taxi, muovere un paio di passi e poi fermarmi, come se
all'improvviso non riuscissi più a comandare le mie gambe. Ed è a
quel punto che arriva la vera pugnalata: in fondo alla strada compare
Daria, e appeso al suo braccio c'è quell'uomo al quale l'ho vista
dare un bacio, quella ormai famosa e terribile serata. Ridono,
scherzano, mi passano accanto senza accorgersi della mia presenza, e
tutto ciò che posso fare è restare in silenzio a guardare – in
silenzio, perché oltre a non muovermi non riesco nemmeno a parlare.
Ogni volta mi sento dannatamente impotente, e ogni volta preferirei
morire, piuttosto di
rivivere ancora una volta quella scena.
*
Torino, 3 marzo 2014
Negli
ultimi giorni la pioggia sembra aver dato una tregua alla città, e
sebbene quello che splende in cielo non si possa proprio definire
sole, è caldo
abbastanza da invogliare ad uscire e fare due passi al parco del
Valentino. Non avendo voglia di rimanere sola, chiedo di
accompagnarmi ad una delle ultime persone che mi sarei aspettata di
invitare fuori per una passeggiata: mia madre.
«Come mai questa
improvvisa voglia di passare del tempo con me?» domanda dopo un
intenso periodo di silenzio, lungo abbastanza da permetterci di
coprire metà del parco. «Insomma, è vero che stiamo lentamente
recuperando i rapporti, ma la tua telefonata mi ha comunque stupita
molto. C'è qualcosa che non va? Se posso permettermi, hai un aspetto
che non mi piace per niente. Non è che stai covando un po' di
influenza? Questo tempo gioca brutti scherzi.»
«No, non sono malata»
rispondo, scuotendo la testa. «Non ho dormito bene, questa notte.
Beh, a dire il vero non mi è capitato solo stanotte.»
«Hai qualche
preoccupazione? Se hai bisogno di qualcosa, lo sai, devi solo
chiedere. So che non ci sono mai stata, per te, ma adesso sono qui.
Puoi parlarmi di tutto.»
Alzo per un istante lo
sguardo su di lei, chiedendomi se la mia idea sia davvero così
geniale, se raccontare dei miei guai sentimentali ad una donna
altrettanto incasinata non finirebbe con il confondere ancora di più
le acque. Incrocio per un istante il suo sguardo, colmo
all'inverosimile di quel misto di preoccupazione e paura che soltanto
una madre può provare, e mi convinco che tentare non nuocerà.
«Avrei bisogno di un consiglio sentimentale.»
Ride, coprendosi la bocca
con una mano, nello stesso gesto che spesso compio anche io. «Santo
cielo, penso proprio di essere la persona meno indicata per dare
consigli sentimentali! Guarda che cosa sono stata in grado di fare a
tuo padre...»
«Beh,
è proprio per questo che vorrei un consiglio da te» ribatto,
sperando di farle capire che si tratta di una cosa seria, e che
davvero ho bisogno del
suo supporto e della sua esperienza.
«E va bene, se proprio
credi che sia la persona più indicata, dimmi cos'è che ti
preoccupa» risponde, recuperando la propria compostezza.
«Ho
conosciuto una persona, lo scorso autunno. Un uomo più grande di me»
sento subito il bisogno di puntualizzare, forse per farle inquadrare
meglio la situazione. «Un uomo molto
più grande di me, in effetti. Ha vent'anni più di me.» Mi fermo
per un istante, aspettando un qualunque commento, ma la sua assenza
di reazioni mi spinge a continuare. «Anche se è successo tutto
molto rapidamente, sono sicura di quello che provavo per lui. È
stato come se... non lo so, come se l'avessi guardato e
all'improvviso avessi capito di amarlo. E sono abbastanza sicura che
per lui fosse lo stesso. Non che abbia questa grande esperienza in
fatto di uomini, ma sono abbastanza sicura che mi amasse anche lui.»
«E allora perché lo hai
lasciato?» mi domanda. «Insomma, stai parlando di lui al passato,
quindi presumo che sia finita.»
«Ho
avuto paura» ammetto, abbassando il tono della mia voce. «Ho avuto
paura di quello che avrebbe potuto pensare la gente, ho avuto paura
di quello che avrebbe potuto dire papà, ho avuto paura che la mia
vita cambiasse, ho avuto paura di perdere tutte le mie certezze... e
poi ho avuto paura di non riuscire ad amarlo come meritava. Di non
riuscire ad amarlo abbastanza,
diciamo. Ho avuto paura di non essere la donna giusta per lui.»
Si prende qualche secondo
per riflettere sulla risposta, e comprendendo quanto sia importante
per lei darmi la risposta più corretta, decido di attendere,
nonostante stia morendo dalla voglia di sentire ancora la sua voce.
«Non darò giudizi sulla sua età, questo no» esordisce infine. «Il
mio secondo marito era più vecchio di me, e guarda i tuoi nonni!
C'erano quattordici anni di differenza tra loro, eppure hanno tirato
su una famiglia incredibile.» Fa un'altra pausa, raccogliendo le
ultime impressioni. «Avere paura è normale, quando si conosce una
persona che ci colpisce quanto ti ha colpita quest'uomo. La paura non
deve essere per forza negativa, sai? Anzi, a volte un po' di paura
può essere una buona cosa. Se ti sei sentita impaurita, significa
che non l'hai presa alla leggera, che ti sei posta dei dubbi e che
hai ragionato sull'intera faccenda, e questo è un bene. Sarebbe
stato peggio se non avessi avuto alcun timore, perché avrebbe
significato che ti eri buttata nella storia a testa bassa, e ti
assicuro che non è mai un bene essere troppo impulsivi.» Sento il
suo sguardo fisso su di me, ma continuo a camminare guardando dritto
davanti a me. «Dunque lo hai lasciato. Che cosa è successo poi?»
«Non l'ho più rivisto. Un
paio di mesi più tardi ho iniziato a vedermi con un altro ragazzo,
ma ci ho dato un taglio quando ho capito che... beh, quando ho capito
che non avevo dimenticato l'altro uomo. Sapevo che non l'avrei mai
più rivisto, ma siccome non ero ancora riuscita a sradicarmelo dal
cuore... beh, continuare quella relazione sarebbe stato come mentire
a me stessa, e soprattutto avrebbe significato mentire ad una persona
buona che non meritava di essere presa in giro. Perciò ho chiuso
anche con l'altro.»
«Ma continui a pensare al
primo.»
«Molto più di quanto
vorrei.»
«Hai pensato di chiamarlo,
di riprendere i contatti? Sono passati soltanto pochi mesi, forse
nemmeno lui ti ha dimenticata.»
«Sì,
in verità mi è passato per la mente, ma... non lo so, ho paura che
sia troppo tardi. O forse ho paura di averlo ferito così tanto da
non riuscire a perdonarmi nemmeno se tornassi da lui strisciando. O
forse ho soltanto paura di andare da lui e scoprire che non mi amava
tanto quanto credevo, e che si è già rifatto una vita con
un'altra.» Dimenticandomi,
aggiungo dentro di me, senza avere il coraggio di esprimere ad alta
voce un concetto tanto terribile. Mi sento già abbastanza distrutta
così, e credo che scoprendo Shannon già impegnato in una nuova
storia con un'altra donna non riuscirei a sopravvivere.
«Potrebbe
averci provato» ribatte lei, facendo spallucce. «In fondo, è la
stessa cosa che hai provato a fare anche tu. E come te, forse
potrebbe aver fallito. In questo preciso momento potrebbe essere
impegnato in una conversazione simile alla nostra, non ti pare?» Non
rispondo, troppo impegnata a fissare l'erba che si piega sotto le mie
scarpe. «Il solo consiglio che ti posso dare è questo: non
aspettare. Se davvero sei
pentita della tua decisione, se davvero lo ami ancora e credi di
poter costruire qualcosa di serio con lui, non aspettare che arrivi
chissà quale momento propizio. E fidati, sto parlando per
esperienza. Non esiste il momento giusto per chiedere scusa ad una
persona che hai ferito. Esiste soltanto il momento in cui ti alzi e
bussi alla sua porta.»
*
Los Angeles, 3 marzo 2014
Sono appena passate le
quattro del mattino, e come avevo previsto non sono ancora riuscito a
chiudere occhio. Dopo aver trascorso l'ultima ora a rigirarmi tra le
coperte come un'anima in pena, decido di alzarmi per sgranchirmi le
gambe e fumare una sigaretta. Conoscendo le restrittive regole di
Jared circa il fumo, esco in giardino, portandomi dietro un
posacenere immacolato recuperato dal salotto. Mi guardo attorno per
qualche secondo, in cerca del posto più adatto, e alla fine trovo il
mio rifugio sul muretto di cinta. La casa di Jared sorge su una
collinetta dalla quale si gode di un ottimo panorama, e siccome
questa sera la mia mente è più affollata che mai, fissare lo
sguardo su qualcosa di potenzialmente rilassante, mi sembra una buona
idea. Mi siedo a cavalcioni sul muretto e accendo la sigaretta,
inspirando a fondo: lo scorso autunno ero quasi riuscito a smettere
con questo brutto vizio, ma la separazione da Daria ha riportato in
superficie molti dei miei lati oscuri, con sommo dispiace di quel
salutista di mio fratello.
Fisso lo sguardo sulle
colline in lontananza, incredibilmente oscure se paragonate
all'estrema luminosità della città, che anche in piena notte, come
New York, sembra brulicare di vita. Osservo e fumo, portandomi la
sigaretta alle labbra con gesto meccanico, esattamente come quando
sto suonando e le bacchette sembrano trovare da sole il percorso
giusto tra i diversi tamburi. Questa sera mi sono divertito, ho
applaudito e gioito per la buona sorte di mio fratello, ma ora che è
tutto finito mi sento ancora più vuoto di prima, come se il prezzo
da pagare per poche ore di estrema felicità fosse il dover soffrire
per il resto della vita. Questa sera ho avuto modo di osservare molte
coppie felici, uomini e donne mossi da un puro e sincero amore nei
confronti del partner, e questo mi ha fatto giungere alla conclusione
che ciò che Christine ed io ci illudiamo di avere non è vero
amore – non più. Per questo, poco dopo la fine della
cerimonia, le ho inviato un sms per avvertirla che ho bisogno di
parlare faccia a faccia con lei. E lei, lo so, non è una donna
stupita, perciò deve aver capito che dietro quella richiesta di un
appuntamento si cela un unico scopo: lasciarla. Ci ho provato,
ho provato davvero con tutte le mie forze a tenere in piedi un
rapporto stabile, ma sono abbastanza onesto con me stesso da
ammettere che non ci posso riuscire, che stare con lei è una cosa
che esula dalle mie possibilità, una missione impossibile che
nemmeno in un milione di anni potrei portare a termine. Così
desidero essere onesto anche con lei, e lasciarla libera prima che il
veleno che mi scorre nelle vene finisca con l'infettare anche lei,
portandola sull'orlo di un abisso cui non merita di arrivare.
Schiaccio il mozzicone nel posacenere pulito, soffiando via l'ultima
boccata di fumo, e resto immobile a guardare il panorama. L'aria
della notte è frizzante, ma non mi dispiace: il freddo mi tiene
sveglio, mi costringe a ricordare che sono ancora vivo e che faccio
ancora parte di questo mondo, per quanto abbia smesso di sentirmi
vivo nell'istante in cui ho visto Daria baciare un altro uomo – uno
che, ne sono certo, non potrà mai amarla quanto l'ho amata io.
Scuoto la testa, cercando
di scacciare i cattivi pensieri, e nello stesso momento prendo
un'altra sigaretta dal pacchetto. Mentre la accendo la mia mano
trema, e lo so, non è per il freddo. Non è soltanto quello del fumo
il brutto vizio che ho ripreso, e di questo mi vergogno immensamente.
Nonostante avessi buttato via ogni forma di alcol per impedirmi di
ricadere nel baratro, non sono riuscito a resistere, e alla mia prima
visita al supermercato non sono riuscito a trattenermi
dall'attraversare il reparto degli alcolici. Ho comprato una
bottiglia di scotch, e quella è stata la mia fine: per qualche
giorno l'ho ignorata, poi il bisogno di aprirla è stato più forte
che mai. Soltanto un goccio, mi sono detto la prima volta,
soltanto un sorso prima di andare a letto. Ma poi, come
prevedevo, farmi un bicchiere prima di dormire è diventata
un'abitudine, e prima che me ne rendessi conto la bottiglia era
vuota. Bere è il solo modo che conosca per anestetizzare il dolore,
per addormentare le voci che sento dentro la testa, quelle dannate
voci che continuano a ripetere che non sarò felice mai più, ora che
ho perso Daria. È da vigliacchi nascondersi dietro una bottiglia, ma
la vigliaccheria è l'ultimo rifugio di un uomo disperato che sa di
aver perso ogni cosa, e che non ha più mezzi per combattere.
Abbasso la testa, cercando
di convincermi che il pizzicorino che mi fa prudere gli occhi siano
soltanto lacrime causate dal fumo: avevo promesso a Jared che non
sarebbe accaduto di nuovo, che non mi sarei di nuovo perso, ma
nonostante tutti i miei sforzi ci sono ricascato, e questo mi fa
sentire più in colpa che mai. Lui è sempre stato buono con me, mi
ha sempre offerto tutto l'aiuto possibile, e il solo modo in cui sono
in grado di ripagare il suo immenso amore è questo: il tradimento.
*
Torino, 4 marzo 2014
«Ciao,
Daria. Andato bene il finesettimana?»
«Ciao, Marco. Beh, diciamo
che non è successo molto» rispondo, sfilandomi il cappotto. «Senti,
io avrei un favore da chiederti.»
«Approfitti del mio buon
umore per darmi qualche cattiva notizia, eh?»
«Più o meno. Sai quelle
due settimane di ferie che ti avevo chiesto per l'inizio di maggio?
Sarebbe un problema anticiparle alla settimana prossima, o al massimo
a quella successiva?»
Marco strabuzza gli occhi,
senza riuscire a credere alle proprie orecchie. «Beh, credo... ma
sì, credo che si possa fare. Hai in mente qualche viaggio?»
«Più o meno» rispondo.
«Sempre che riesca a convincere Alice a venire con me, nonostante i
mille impegni che ha per via della tesi.»
«Sono sicuro che
accetterà. Quando mai ti lascerebbe partire senza di lei? Dove hai
in mente di andare, se posso farmi gli affari tuoi?»
«Los Angeles. Ho sempre
voluto visitarla e ho trovato una buona offerta per l'aereo e
l'alloggio» mento, sapendo che Marco non è esattamente la persona
più giusta cui rivelare lo scopo del mio viaggio. «Solo che per
beneficiarne dovrei partire per forza entro due settimane, quindi...»
«Non
dire altro, hai le ferie. Me la caverò anche senza di te» sorride,
tornando a trafficare con la casssa. È in questo momento che mi
rendo conto di quanto tenga a me, e di come sia riuscito a perdonarmi
anche se gli ho spezzato il cuore. Forse è proprio questo che
intendeva mia madre ieri, dicendomi che non esiste un momento giusto
per rimettere a posto le cose: deve succedere e basta, e il
più presto possibile è l'unico
momento davvero adatto per farlo.
*
Los Angeles, 4 marzo 2014
Sono
al parco, lo stesso in cui ho incontrato di nuovo Christine dopo
vent'anni di niente, e ce ne stiamo seduti insieme sull'erba baciata
dal sole, mentre Bruce corre intorno a noi abbaiando al vento e
rotolandosi come un cucciolo. «Il dobbiamo parlare
del messaggio significa quello che penso, vero?» mi domanda lei,
interrompendo finalmente il silenzio. Non ho il coraggio di guardarla
negli occhi, perciò tengo la testa bassa e annuisco. «Non so
perché, ma me lo sentivo che sarebbe arrivato questo momento. Era
tutto troppo bello per essere vero.»
«Mi dispiace.»
«Non ti devi dispiacere.
Preferisco che le cose vadano così, se devo essere sincera. Non
avrei sopportato di trascinare avanti troppo a lungo una cosa che non
funziona, e magari svegliarmi, una mattina, chiedendomi che fine
abbia fatto il resto della mia vita.»
«Suonerà incredibilmente
retorico, ma non è colpa tua. Se ci fossimo incontrati soltanto
quattro o cinque mesi prima, forse avrebbe funzionato. È solo
che...»
«Pensi ancora a quella
ragazza, vero?»
«Ogni giorno» ammetto.
«Provo con tutte le mie forze a non farlo, ma sembra che sia più
forte di me. Non riesco a togliermela dalla testa.»
«Forse perché è lì che
deve stare» suggerisce lei, ravviandosi i capelli con una mano.
«Insomma, se dopo tutto questo tempo il suo pensiero condiziona
ancora la tua vita, forse... beh, forse è perché non deve essere
cancellato.»
«Con lei è finita,
Christine» affermo, quasi stanco di dover continuare a ripetere
all'infinito lo stesso concetto – prima a Jared, poi a lei, e
infine a me stesso, ancora e ancora. «Lei sta con un altro,
non ci sono possibilità che possiamo tornare insieme.»
«Come vuoi» replica lei.
«Certo, se tutto ciò che fai è restare seduto ad aspettare il suo
ritorno, di sicuro le cose non cambieranno» aggiunge, alzandosi.
Stringo
il pugno per impedirle di vedere il tremolio della mia mano, che
costantemente mi ricorda la mia rapida discesa all'inferno. «Io ci
ho provato, a cambiare le cose.
Ci ho provato, ma non ha funzionato.»
«Strano, lo Shannon che
conoscevo non si sarebbe arreso così, senza lottare fino alla
morte.»
«Non sono più lo stesso
di vent'anni fa, lo hai detto anche tu.»
«Vero, l'ho detto. E mi
dispiace tantissimo che sia così, perché lo Shannon che conoscevo
era un uomo straordinario, uno che avrebbe fatto la fortuna di molte
donne. È un peccato che tu non sia più quell'uomo, perché avresti
potuto essere vergognosamente felice.» Sposta il peso da un piede
all'altro, indecisa su che altro dire. «Io adesso devo andare, ho
una riunione a cui non posso mancare. Vorrei dire che vederti è
stato bello, ma direi una bugia. So che odi sentirti fare la
paternale, ma tu non stai bene. Non sei in pace con te stesso,
Shannon, e come posso vederlo io sono certa che lo veda anche il
resto del mondo. Se hai bisogno di aiuto, io...»
«Ti
chiamerò» taglio corto, alzandomi per salutarla con un abbraccio
fraterno. La guardo allontanarsi in silenzio, sapendo che questo
segnerà davvero la mia fine. Finché avevo Christine, potevo
illudermi di avere un motivo per non lasciarmi andare completamente,
ma ora che anche con lei ho tagliato i ponti, non c'è più nulla in
grado di trattenermi dal saltare.
*
Torino, 4 marzo 2014
Quando
apre la porta e si trova di fronte il sorriso di Daria, Alice
comprende immediatamente
che qualcosa sta per cambiare, o che forse è già cambiato. Poi nota
la grossa scatola di cioccolatini che l'amica regge in bilico sulle
braccia, e le è chiaro che deve essere successo qualcosa di
veramente importante. «Hai preso una botta in testa o sei stata
rapita dagli alieni?»
«Nulla di tutto questo»
risponde l'altra con un sorriso. «Mi sono accorta di essere stata
una stronza intrattabile in questo ultimo periodo, e questo mi
sembrava l'unico modo per farmi perdonare.»
Alice studia con aria
sospettosa la confezione di dolciumi, poi si scosta per far passare
l'amica. «Nascondi quel ben di Dio in camera mia, prima che lo
trovino le mie coinquiline. Ti va una tisana? L'acqua sta bollendo
proprio ora.»
«Volentieri» risponde
Daria, dirigendosi a passo sicuro verso la stanza dell'amica.
Alice la raggiunge un paio
di minuti più tardi, reggendo due grosse tazze fumanti. «Siediti
dove trovi posto» dice, indicando il letto e le sedie colmi di
appunti e vestiti. «Dovrei fare ordine, in effetti.»
«Mi andrà bene il
pavimento» replica l'altra, sedendo a gambe incrociate sul tappeto e
accettando una delle tazze. «A dire il vero non sono qui soltanto
per chiederti scusa, ma anche per chiederti un favore.»
«Se è qualcosa che posso
fare, ben volentieri» ribatte Alice, appoggiando la tazza poco
lontano per iniziare a scartare la confezione. «Di che si tratta?»
«Di un viaggio. Lo so, so
che è il momento meno opportuno, che sei piena fin qui di impegni
per via della tesi, che devi studiare e che è tutto organizzato
all'ultimo minuto, cosa che entrambe detestiamo, ma... credimi, non
c'è un'altra persona a cui vorrei chiederlo.»
«Un
viaggio? Dove?» Daria abbassa la testa, poi la rialza con un breve
sorriso, e anche senza parole Alice capisce.
«Dimmi che stai scherzando, per favore. Dimmi che è un pesce
d'aprile in anticipo, ti prego. Non puoi aver davvero deciso di...
santo cielo, vuoi andare da Shannon!» esclama, senza dare
all'affermazione il tono di una domanda cui la risposta, lo sa, è
affermativa.
«Beh...
ci voglio provare. Ci devo
provare. Magari non otterrò nulla, magari scoprirò che mi ha
dimenticata o che non gli importa o che non mi ha mai amata, però...
io non ho smesso di amarlo, perciò devo sapere.»
«Mi sembra ovvio che io
verrò con te, a questo punto. Oh, devo avere il passaporto da
qualche parte. Sarà scaduto, ma non ci vorrà un secolo per
rinnovarlo. Tu invece come sei messa? Avrai un sacco di pratiche da
sbrigare, e ci sarà da prenotare l'aereo, e...»
«Il passaporto lo avrò
entro la fine della settimana, e per tutto il resto... beh, ho
Emanuele che è un genio dei computer. Mi darà una mano a fare
qualche prenotazione, no?»
Alice
si porta entrambe le mani davanti alla bocca, così felice della
proposta di Daria da dimenticare tutto il resto: gli esami, la tesi,
la laurea... per accompagnare Daria a riprendersi Shannon sarebbe
disposta persino a mollare tutto e finire a cuocere hamburger da
MacDonald's. E poi, incredibilmente, il suo pensiero corre subito a
Jared, che per forza di cose prima o poi dovrà vedere, se davvero
riusciranno ad imbarcarsi su un aereo e volare fino a Los Angeles –
e incredibilmente, l'idea di incontrare uno dei suoi cantanti
preferiti non la spaventa, perché in fondo tutte le telefonate che
si sono scambiate nelle ultime sei settimane lo hanno fatto scendere
da quel piedistallo, trasformandolo in un amico
– un amico famoso in tutto il mondo che non ha mai visto di
persona, certo, ma pur sempre un amico. Tornata in sé, infila la
mano sotto il letto e tira fuori la scatola con i ricordi di Shannon.
«Non dimentichiamoci che hai il numero di Emma. Potresti sempre
chiamarla e farti aiutare da lei per organizzare la cosa.»
«Ammetto di averci
pensato, ma non voglio» risponde Daria, sorseggiando la tisana
bollente. «Chiedere aiuto ad Emma vorrebbe dire rischiare di far
sapere tutto a Shannon, e voglio fargli una sorpresa. O forse non
voglio rischiare che mi chiami per dirmi di non andare, nel caso non
volesse vedermi. Insomma, se proprio devo essere rifiutata
preferirei... preferirei che lo facesse di persona.»
«Comprensibile»
risponde Alice, appoggiando comunque la scatola davanti all'amica,
sperando di vederla prendere in mano le memorie dell'autunno
precedente e convincersi che, a prescindere da come andranno le cose,
stia finalmente
facendo la cosa giusta. «Santo cielo, sono così fiera di te»
sospira, sedendosi di nuovo sul tappeto insieme a lei. «Hai già
pensato a cosa gli dirai, a come... non lo so, a come affronterai
l'argomento?»
«Non ne ho idea, a dire il
vero. Ma immagino che le parole verranno fuori da sole, quando sarà
il momento.»
Incurante dell'orologio,
indifferente di fronte ai mucchi di carta e inchiostro accumulati
sulla scrivania, Alice rimane seduta accanto alla propria migliore
amica con un grande sorriso stampato sulle labbra, felice che le cose
stiano tornando al loro posto, anche se dopo così tanto tempo. «Cosa
dirai alla tua famiglia? Insomma, come glielo spieghi che vai in
America?» le chiede dopo almeno un'ora di chiacchiere e risate.
«Penso che dirò la
verità, una volta tanto» replica Daria, alzando le spalle. «In
fondo mio padre sa praticamente tutto di Shannon, e da ieri lo sa
anche mia madre. Abbiamo fatto una chiacchierata» aggiunge. «Tu mi
avevi quasi convinta, ma avevo bisogno del parere di una persona
adulta.»
«Io non sarei una persona
adulta, quindi?» ribatte l'altra, tirandole un cuscino in faccia.
«Non quando prendi a
cuscinate in faccia le persone, questo è poco ma sicuro.»
*
Los Angeles, 5 marzo 2014
«Come mai tanto
silenzioso, oggi?» domanda Emma, stupendosi di essere riuscita ad
attraversare la stanza senza essere scelta come bersaglio per una
delle mille idee strampalate che affollano la mente di Jared.
«Pensavo che non avresti fatto altro che parlare dell'altra sera,
invece per tirarti fuori due parole ho praticamente dovuto usare le
pinze.»
Jared si passa una mano tra
i capelli, abbassando gli spartiti sui quali sta cercando di lavorare
da almeno mezz'ora. «Tu che ne pensi di Shannon?»
Emma torna indietro di
qualche passo, confusa da quell'improvvisa domanda. «Che penso di
Shannon in che senso?»
«Non
ti sembra... cambiato?»
«Ho
capito. Parliamo di Shannon in quel
senso» replica lei, attraversando il salotto per sedersi in
poltrona, in modo da stare esattamente di fronte a Jared. «Per caso
è capitato qualcosa?»
«Me
lo chiedo anch'io» sospira l'uomo, spostando i piedi dal tavolino al
tappeto e alzandosi, lasciando cadere i fogli sul divano.
«Apparentemente sembra che vada tutto bene. Ha ricominciato ad
uscire con Christine, sembra tutto normale,
eppure... non lo so, ho la sensazione che stia per esplodere una
bomba, e che il mio sesto senso sia guasto. Io di solito lo
so, so quando sta per accadere
qualcosa, e invece stavolta... niente.»
«Hai provato a parlare con
lui?»
«Negherebbe all'infinito
di avere un problema, lo conosci.»
«Ma se c'è qualcuno che
ha qualche possibilità di strappargli fuori una parola, quello sei
tu. O tua madre, in casi di emergenza.»
«Lo so, ma non posso fare
irruzione a casa sua e chiedergli se per caso abbia...» esclama il
cantante, bloccandosi un istante prima di dire quelle parole che, lo
sa, cambierebbero definitivamente le cose.
«Se
per caso abbia cosa?»
Jared si passa entrambe le
mani sul viso, indeciso se parlare o meno. La logica gli suggerisce
di tenere per sé certi dubbi, ma l'esperienza gli dice che se al
mondo c'è una sola persona riservata su cui fare affidamento, quella
è Emma. «Ho paura che si rimetta a bere» confessa infine. «Per
non parlare di tutto il resto. L'ultima volta che ha avuto una
delusione simile è finito in un brutto giro, ed è mancato poco che
ci restasse secco» aggiunge a bassa voce, ripensando a quella
terribile e ormai lontana notte in cui lo ha visto sdraiato in un
letto d'ospedale, più bianco delle lenzuola che lo avvolgevano, così
pallido e inerte da fargli credere che la vita lo avesse già
abbandonato. «Il motivo per cui ha abbandonato il tour quando
eravamo in Brasile è che aveva paura di ricadere nei vecchi vizi.
Per questo è tornato. Solo che non è riuscito a sfuggire al nemico,
perché il nemico non è in Brasile, bensì...»
«...dentro di lui»
conclude Emma, abbassando lo sguardo. «Soffre ancora, vero? Per
Daria, intendo. Pensa ancora a lei?»
«Non ne parla, ma io
credo... sì, credo che lei faccia ancora parte della sua vita, in
qualche modo. Non credo che vederla baciare un altro uomo sia stato
sufficiente a levargliela dal cuore. Lui la ama ancora, ed è questo
che lo ferisce di più. Nemmeno vedere che lei è andata avanti con
la sua vita riesce a placarlo.»
«E tu hai paura che si
rimetta a bere per cancellarla?»
«Alla
festa, l'altra sera, ho incontrato Lupita. Mi ha preso da parte e mi
ha detto che qualche sera prima lo aveva visto uscire dal Blue
Moon in condizioni che non le
piacevano affatto. E Lupita, lo sai, non è una che racconta storie.
Se mi dice che l'ha visto piuttosto giù di corda, io le credo.»
«Intendi fare qualcosa per
aiutarlo?»
Jared ci riflette su per
qualche istante, poi punta lo sguardo verso di lei, e in quegli
enormi occhi da bambino Emma riesce finalmente a vedere un uomo
preoccupato di perdere tutto ciò che gli è più caro. «Come si fa
ad aiutare uno che non vuole essere aiutato?»
*
Torino, 5 marzo 2014
Quando annuncio di voler
partire per gli Stati Uniti per inginocchiarmi davanti a Shannon
implorando perdono per la mia condotta, a mio padre va di traverso un
boccone. «Come sarebbe a dire che vai a Los Angeles?»
domanda tra un colpo di tosse e un sorso d'acqua, battendosi sul
petto per liberarsi la gola.
«Sarebbe a dire che
intendo salire su un aereo e volare dall'altra parte dell'oceano»
replico, incrociando lo sguardo sognante di Francesca, che
probabilmente pensa sia la cosa più romantica del mondo.
«Di certo non immaginavo
ci saresti andata a nuoto»
risponde lui, piccato. «Quello che non riesco a capire è perché
tu voglia fare una cosa del genere. Non sarebbe più pratico...
che ne so, fare una telefonata?»
«Sicuramente sarebbe
più pratico, ma sarebbe anche incredibilmente impersonale»
ribatto, smettendo per un istante di mangiare. «Papà, capisco che
tu sia spaventato all'idea che tua figlia vada all'altro capo del
mondo senza di te, ma è necessario che lo faccio. Se voglio
far capire a Shannon che sono davvero dispiaciuta per come mi
sono comportata, è necessario che vada a chiedergli scusa di
persona. Al telefono sono tutti bravi a chiedere scusa.»
Lo vedo appoggiare le
posate e passarsi una mano sul viso non rasato con aria pensierosa,
come se sapesse che ho ragione e stesse a tutti i costi cercando un
argomento valido con il quale smontare la mia tesi. «Almeno dimmi
che non ci vai da sola» sospira
infine, tornando a guardarmi.
«Certo che non ci vado
sola. Alice verrà con me»
rispondo con un sorriso, cacciandomi in bocca un grosso pezzo di
bistecca.
«Santo cielo...»
lo sento sussurrare mentre nasconde il viso dietro entrambe le mani.
«Si faranno rapire, poco ma sicuro»
aggiunge, scatenando in tutti un accesso di risatine isteriche.
«Allora dopo ti aiuto a
fare le prenotazioni online»
commenta Emanuele, sezionando la carne come un chirurgo all'opera.
Gli sorrido, annuendo, sapendo che dopo avermi aiutata nulla potrà
salvarlo dal fare una chiacchierata con me circa il suo rapporto con
Luca.
*
Los Angeles, 5 marzo 2014
Oggi sono così giù di morale da non aver voglia nemmeno di fingere
di stare bene, tanto più che non c'è nessuno da ingannare, a parte
un cane che sonnecchia ai piedi del mio letto e l'ombra che vedo
riflessa nello specchio. Sono le quattro del pomeriggio e me ne sto seduto a terra nello studio, la
schiena appoggiata alle parete e le gambe allungate di fronte a me,
ormai indolenzite a causa della prolungata immobilità. Accanto a me
un pacchetto di sigarette, un posacenere colo per metà di mozziconi
e una bottiglia che va svuotandosi un sorso alla volta. La mia mano
ha smesso di tremare, placata dallo scotch, ma in compenso ora è il
mio cuore quello incerto, quello che salta da un sentimento all'altro
senza darmi tregua. E se avessi sbagliato tutto, quella sera,
voltandomi e andando via? Cosa sarebbe successo se avessi aspettato
ancora un po', soltanto qualche minuto? Cosa sarebbe potuto accadere
se avessi avuto il coraggio di suonare quel campanello e aspettare?
Mentre me ne sto seduto nella penombra ad aspettare che l'ennesima
sigaretta si consumi, mi chiedo se quella sera non abbia frainteso
tutto, se quell'uomo non fosse soltanto un tentativo, per Daria –
un tentativo di andare avanti con la propria vita, un tentativo per
convincersi di aver fatto la cosa giusta e di avermi dimenticato. In
fondo io non ho provato a fare lo stesso con Christine? Bevo ancora,
aspettando il momento in cui il mio cervello smetterà di indugiare
nei dubbi, trascinandomi in quell'oblio che, ora come ora, mi pare la
prospettiva più rosea cui aspirare.
E
poi, chissà come, mi ritrovo in mano il cellulare. Scorro la
rubrica, ed eccolo ancora lì: Daria.
Lo leggo chiaramente, chiaro come il giorno in cui l'ho salvato tra i
miei contatti. Prima di lasciar scemare il coraggio, o forse solo
prima di sentirmi troppo stupido per farlo, sfioro l'icona verde,
facendo partire la chiamata. Uno squillo, due squilli, tre squilli...
«Pronto?»
La sua voce arriva forte e chiara al mio orecchio, quasi fosse seduta
accanto a lei, ed è ancora identica al ricordo che avevo: il tono
basso ed elegante, quella nota d'insicurezza di cui tutta la sua
persona è impregnata, quella bizzarra pronuncia della lettera
erre... c'è tutto di
lei in quella semplice parola, ma stavolta è tutto troppo,
per me, che non riesco a far altro che premere una mano sulle labbra
per impedirle di sentire il singhiozzo cui mi sono abbandonato.
«Pronto?»
ripete, e i miei occhi si fanno lucidi. Sto per trovare il coraggio
di parlare, quando in sottofondo sento chiaramente la voce di un uomo
– e a questo la magia si spezza, l'emozione scompare. Senza nemmeno
capire che cosa quell'uomo abbia detto, premo il tasto rosso,
ripiombando nella mia solitudine.
*
Torino, 5 marzo 2014
«Daria,
tesoro, puoi venire un attimo qui?»
Mi
allontano il cellulare dall'orecchio, studiando il numero del
mittente – è un numero che non ho salvato in rubrica e che non
riconosco, ma ho deciso di arrischiarmi a rispondere comunque, nel
caso si trattasse di qualcosa di importante – e invece niente,
soltanto silenzio. «Arrivo!»
rispondo a mio padre, rimettendo il telefono in tasca.
«Chi
era?»
domanda Emanuele, senza staccare gli occhi dalla schermata sulla
quale sta inserendo i miei dati.
«Non
lo so, forse qualcuno che ha sbagliato numero. Ha riattaccato senza
dire niente.»
«Fa'
attenzione quando ti chiamano numeri che non conosci»
mi ammonisce, guardandomi per un istante. «Ci sono un sacco di
truffatori che spillano soldi alla gente in questo modo. Se vuoi ti
scarico un software per filtrare le chiamate.»
«Grazie,
Q, ci penserò»
replico, sapendo quanto detesti essere paragonato al marchingegnere
dei film di James Bond. «Vado a vedere che vuole papà, torno
subito.»
Tornata
in corridoio, vedo che mio padre mi fa segno di andare in camera sua,
guardandosi attorno come un ricettatore di strada in procinto di
piazzare un pezzo che scotta. Appena varco la soglia mi mette in mano
cinque banconote da cento euro. «Tieni questi. Come fondo per le
emergenze.»
«Papà,
ti sei dimenticato che ho un lavoro? Non mi serve che...»
«Portali
con te per il viaggio. Un po' di soldi extra non fanno mai male.»
«Ma
papà, sono troppi, non posso...»
«Mi
hanno pagato un sacco di lavori, ultimamente. Tranquilla, non stai
togliendo il pane di bocca né a me né ai tuoi fratelli. E anche se
ci trovassimo a fare la fame, ci basterebbe attraversare il
pianerottolo»
mi interrompe, strizzandomi l'occhio. «E se non ti servono per il
viaggio, potresti sempre comprarci qualche bel regalo per il tuo
vecchio o per i tuoi fratelli, no?»
Abbasso
la testa sul denaro, che piego e ripongo in tasca. Poi, senza
aspettare inviti, abbraccio mio padre con tutta la forza che ho in
corpo. «Sei il papà migliore del mondo.»
Ricambia
la stretta, accarezzandomi la schiena e baciandomi i capelli,
esattamente come faceva quando ero bambina. Forse, in effetti, sono
ancora una bambina sotto molti punti di vista. «Questo è il minimo
che possa fare, tesoro. Non importa quanti anni tu abbia, o quanto
lontano tu viva. Io resto sempre tuo padre, e sai che attraverserei
l'inferno per te.»
Mi
stacco da lui, cercando di non piangere. «Papà, se riuscirò a...»
«Se
è l'uomo che ami, lo accetterò senza riserve»
mi interrompe, accarezzandomi il viso. «Certo, ci servirà sempre un
interprete, e forse quando avrò imparato ad accettare il fatto di
avere un genero che potrebbe essere mio fratello saremo entrambi
vecchi»
aggiunge con un sorriso, «ma se è lui l'uomo che ami, l'unico in
grado di renderti felice, allora ti dico solo: vai.
Vai a riprendertelo.»
*
Los Angeles, 5 marzo 2014
Mi
stacco la bottiglia dalle labbra, mandando giù il sorso che ho
bevuto come se stessi assumendo la dose di veleno che mi spedirà
finalmente al creatore. La bottiglia è ancora piena per metà,
eppure decido di alzarmi e lasciare la stanza, portando con me
soltanto le sigarette. Accendo la prima mentre mi sto infilando il
cappotto, le chiavi dell'auto al sicuro in tasca, certo che in questo
momento il mio nemico più grande non sia la bottiglia, ma la
solitudine.
*
Torino, 5 marzo 2014
«Grazie
di tutto, Ema»
sorrido, prendendo i fogli appena sputati fuori dalla stampante.
«Sapevo che avere un informatico in casa doveva avere una qualche
utilità»
aggiungo, passandogli una mano tra i capelli spettinati.
«Scema»
risponde, cercando di sottrarsi alla mia carezza. «Ora
evapora, dai, che devo studiare»
aggiunge, con un tono falsamente autoritario che tradisce il suo
divertimento.
«In
realtà speravo che avessi qualche minuto per parlare con me»
replico, facendomi seria.
«Posso
indovinare l'argomento?»
«Mi
stupirei se non lo facessi.»
Mi appoggio di schiena alla scrivania, incrociando le braccia al
petto, mentre lui giocherella con una matita. «Non devi pensare di
essere il solo a non sapere che pesci prendere, sai? Anch'io
all'inizio ero confusa, non ero sicura di che cosa volessi, però
poi...»
«Daria,
io non sono come te»
taglia corto lui, interrompendomi. «E non sono nemmeno come
Francesca. Io non ci riesco, non riesco ad affezionarmi alle persone
come fate voi. Io non... io non sono bravo
con le persone, lo sai. Io capisco soltanto i computer, perché sono
facili da capire, dicono solo sì e no.»
«Nemmeno
io sono un granché con le persone, lo sai»
rispondo, cercando di rassicurarlo. «Credo di sapere che cosa ti
spaventa. Tu hai paura di dover parlare con la mamma. È lei il
problema, vero?»
Improvvisamente si alza, fingendo di cercare un manuale sullo
scaffale per potermi dare le spalle. «Ti
capisco, sai? Nemmeno io ero entusiasta all'idea di avere di nuovo a
che fare con lei, dopo tutto quello che ho passato a causa sua...
però Luca è tutto un altro paio di maniche. Non è per causa sua se
lei ha lasciato papà. Lui è stato soltanto una conseguenza. Se
pensi che ignorare lui sia il modo migliore per punire lei, non...»
«Io
non intendo punire nessuno»
mi blocca, voltandosi verso di me.
«Ma
è così che si sente lui. Si sente punito, triste, ferito...
esattamente come ti senti tu, credo.»
Vinco l'istinto di avvicinarmi, sapendo quanto detesti gesti di
consolazionie universalmente amati come le carezze e gli abbracci.
«So quello che hai passato, so come ci si sente a crescere senza un
genitore. Ci si sente da schifo. Ma volendo trovare un lato positivo,
tu ed io avevamo papà, la nonna, gli zii, e soprattutto avevamo l'un
l'altra. Alla sua età, tu avevi molto più di quanto abbia lui
adesso. Lui ha perso suo padre, lo ha perso per sempre,
e tutto ciò che gli resta è una madre che gli ha tenuto nascosta la
verità, una madre di cui forse non tornerà a fidarsi mai più.»
Faccio una pausa, forse sperando che torni a guardarmi e dica
qualcosa – speranza vana, perché tutto ciò che continuo a vedere
sono le sue spalle. «Tu, io e Francesca siamo tutto ciò su cui
possa contare quel bambino. Non ti posso obbligare a vederlo, o
parlargli, questo no. Sei adulto, ed è giusto che tu prenda da te le
tue decisioni. Solo, tutte le volte che inizi a pensare a quanto sia
vuota la tua vita, pensa anche a quanto sia vuota la sua.»
Prendo le mie cose ed esco dalla stanza, chiudendomi la porta alle
spalle. Forse sono stata troppo brutale, troppo cattiva, ma era il
momento di mettere alcune cose in chiaro – e se Emanuele non è in
grado di farlo da sé, chi meglio di una sorella?
Mentre
cammino verso casa, stringendomi nel cappotto per sentire meno il
freddo, improvvisamente Emanuele e Luca scivolano via dalla mia
testa, lasciando la mente libera di concentrarmi sui fogli rinchiusi
al sicuro nella mia borsa. Mercoledì sta volgendo al termine, e
martedì dista solo cinque notti. Tra una settimana al massimo, con
un po' di fortuna, riavrò la vita che voglio.
*
Los Angeles, 6 marzo 2014
Esco dal pub alle tre del
mattino, dopo esserci rimasto per quattro buone ore. Ho bevuto molto,
sicuramente più del consentito, ma mi sento ancora abbastanza lucido
– forse troppo, giacché mi ero ripromesso di fare tutto il
necessario per cadere nel totale oblio. Senza pensare alle
conseguenze delle mie azioni mi metto al volante, ancora indeciso se
tornare subito a casa o vagare senza meta per le strade della città
degli angeli, quel magico paradiso che ha concesso a tutti i miei
sogni di diventare realtà, ma che ora non riesce più a darmi ciò
di cui ho bisogno. Guido e basta, senza badare né alla destinazione
né alla strada, affidandomi semplicemente al mio istinto.
Ma il mio istinto dimostra
di essere annebbiato quanto i miei riflessi quando per poco non
investo un ragazzo che stava attraversando la strada. Lo scampato
incidente mi spinge a premere di più sull'acceleratore, più che mai
deciso a lasciarmi alle spalle il malcapitato e i suoi insulti, che
ancora una volta mi ricordano che sono ancora presente su questa
terra, ancora vivo. Ma la mia fuga non ha vita lunga: pochi
metri più avanti una volante della polizia mi affianca,
abbagliandomi con la luce rossa dei suoi lampeggianti. Non ho scelta,
se non quella di accostare. Tengo le mani sul volante, appoggio la
testa al sedile e rimango in silenzio ad ascoltare il rumore sordo
del motore in folle. Potrei quasi chiudere gli occhi e addormentarmi,
se il poliziotto non bussasse al finestrino con le nocche, facendomi
segno di abbassarlo. «Favorisca patente e libretto»
mi ammonisce. Frugo stancamente nel vano portaoggetti e nel
portafogli, poi gli porgo i documenti. L'agente li studia alla luce
della torcia, poi punta la luce verso il mio volto. «Sa a che
velocità stava andando?» Di
nuovo non dico nulla, sapendomi condannato non appena sentirà
l'odore di alcol che impregna l'abitacolo. «Ha bevuto?»
domanda, studiandomi con attenzione. «Le dispiace scendere?»
Obbedisco, sottoponendomi a tutti i suoi stupidi controlli senza
lasciarmi sfuggire una parola. Nemmeno quando fa scattare le manette
ai miei polsi e mi fa salire sul sedile posteriore della volante
riesco a ribellarmi.
Ormai non mi importa più
di nulla. Sono un uomo a pezzi, e nulla potrà mai rimettermi
insieme.
1Eravamo
una famiglia. Come ha potuto rompersi e dividersi e ora siamo uno
contro l'altro, ognuno fa ombra all'altro? Come abbiamo fatto a
perdere il bene che ci era stato dato, lasciarlo scivolare via,
disperdersi, distruggersi? Cosa ci impedisce di uscire, toccare la
gloria? |
Il titolo del capitolo è ispirato ad una battuta pronunciata dal
soldato Robert Witt
(interpretato da Jim
Caviezel)
nel film La
sottile linea rossa
(1998), del regista statunitense Terrence
Malick.
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