Allora seppi che avrei dedicato
ogni minuto che ci restava da passare insieme a renderla felice, a
riparare al male che le avevo fatto e a restituirle ciò che
non avevo mai saputo darle.
[Il gioco dell'angelo - C.R.Z]
L'uomo uccide sempre
ciò che più ama
{Ma anche il purgatorio
può ambire al paradiso}
Se Halle Lidner provasse a
sbirciare adesso dalla porta della stanza che piantona da quella che le
sembra più di un’ora – del resto quando
si ci annoia il tempo scorre in modo davvero bislacco –
probabilmente si chiederebbe per l’ennesima volta cosa passi
per la testa piena di riccioli candidi del ragazzino che è
il suo capo.
L’ambiente
completamente immerso nel buio impedisce, in ogni caso, di riuscire a
scorgere nulla più che gli indistinti profili dei macchinari
e della scarsa mobilia quando non le figure di chi al suo interno si
trova.
I beep lenti e
regolari sono l’unico suono costante da così tanto
tempo, lì dentro, che all’improvviso sentire il
fruscio delle lenzuola sembra quasi una nota stonata alle orecchie di
Near; gli occhi grandi e scuri rimangono fissi su ciò che
riesce a scorgere, ormai abituato all’assenza di luce, oltre
le coperte immacolate che ricadono troppo lunghe al lato sinistro del
letto creando disarmonia nel complesso dell’immagine.
Rimane in silenzio
anche quando vede una mano pallida emergere dal buio, sollevarsi a
mezz’aria e rimanere lì esitante, le
lunghe dita a tremare leggermente e ripiegarsi in brevi scatti
muovendosi sgraziate e senza un’apparente meta fino a che non
incontrano la plastica grigio-azzurra della mascherina per
l’ossigeno resa opaca dal respiro che, finalmente, torna ad
essere naturale.
Il verso che segue
dopo è un rantolo rauco, sembra più quello di un
animale che di un uomo e Nate, rannicchiato sulla sedia al lato opposto
della stanza, quasi sorride nel percepirci un insulto. Forse se
l’è solo immaginato, ma sarebbe decisamente da lui
tornare alla vita con un ‘’cazzo’’
fra le labbra.
Passano lenti i
secondi, le dita bianchissime stringono quel pezzo di plastica
debolmente eppure con disperazione; non accenna ad allontanarlo da
sé, ne ad abbassarlo fra le coperte. Il lungo tubo
trasparente a cui è unito è l’unico
collegamento con il macchinario che l’ha tenuto in vita fino
ad ora, un cordone ombelicale di plastica e acciaio che è
arrivato il momento di tagliare.
La gabbia toracica si
espande appena, sotto la camicia ospedaliera azzurrina, e poi torna
a restringersi ed il
petto abbassarsi. Ma questo basta a concedere un sospiro di sollievo al
ragazzo dai capelli albini, che si rende conto solo in quel momento di
aver trattenuto il suo di respiro in attesa di vedere con i suoi occhi
se il miracolo sia avvenuto o meno.
Miracolo, che
termine inesatto poi. Ma l’altro lo
definirebbe senza dubbio in quel modo e quindi non può che
farlo a sua volta, anche se solo nella sua testa.
«Non ne hai
più bisogno. E’ un buon segno» commenta,
a voce bassa, spezzando l’innaturale silenzio che
è familiare abitudine nei loro incontri.
I giorni subito dopo
il suo risveglio ha parlato tanto, più di quanto sia mai
stato abituato a fare, per entrambi. Ma il suo interlocutore non ha mai
detto una singola parola, malgrado fosse visibilmente sveglio e vigile.
Passando i giorni ha
iniziato a parlare sempre meno e rimanere sempre più in
silenzio, limitandosi alla compagnia data dalla propria presenza.
L’ex numero
uno della Wammy’s House sa perfettamente che non è
certo questo di cui il suo ospite ha bisogno o desidera, non
è certo sciocco al punto da credere che sia la sua presenza
ad essere voluta lì dentro.
Del resto
l’unica volta in cui ha sentito la voce del redivivo hacker,
nelle due settimane precedenti, è stata quando ha udito un
sussurro affaticato molto simile ad un ‘’dov’è?’’
che si è infranto contro la plastica della mascherina ed
è stato quasi inghiottito dal rumore dei macchinari.
Ha subito compreso
cosa intendesse, ma è rimasto ugualmente in silenzio per
tutta la mezz’ora successiva. E quando alla fine si
è alzato per andarsene, fermo sulla porta e consapevole che
il ragazzo sul letto non stesse affatto dormendo malgrado
così ad un occhio poco attento potesse sembrare, ha
semplicemente mormorato un laconico ‘’è vivo’’
abbandonando poi la stanza e lasciando il suo abitante a rimuginare su
quelle parole prive di qualsiasi sfumatura a cui aggrapparsi.
Del resto, nei giorni
che sono seguiti, il numero tre non ha più fatto alcuna
domanda ed è tornato al suo mutismo e la sua lotta contro il
respiratore artificiale – contro il suo stesso corpo.
Ed oggi, finalmente,
ha vinto.
Near socchiude gli
occhi, infastidito dall’improvvisa luce che filtra tra le
tapparelle e che lo ferisce al pari di una lama arroventata; li sente
bruciare e lacrimare, ma non combatte la reazione naturale e si limita
a calare le palpebre e strofinarvi contro il dorso di una mano,
portando via le lacrime intrappolate fra le ciglia e che non hanno
avuto il tempo di rotolare lungo le guance.
Fuori dalla finestra
il leggero vento porta via qualche petalo rosa dall’imponente
Sakura che è diventato nido per le rondini. Quando
finalmente riesce a riaprire gli occhi senza vedere più
chiazze colorate fa in tempo a cogliere il volteggiare di uno degli
uccelli neri attorno ad un ramo, guardandolo poi schizzare aggraziato
su nel cielo azzurro punteggiato di nuvole bianche. Attende solo
qualche istante ancora, prima di voltarsi e dare le spalle alla
finestra che si è deciso a spalancare.
C’è bisogno di cambiare aria, lì dentro.
Non si stupisce
nell’accorgersi che nessuno dei suoi movimenti ha prodotto
alcuna reazione nel ragazzo seduto nel letto, che rimane ancora
abbandonato ai cuscini bianchi poggiati contro lo schienale con le mani
riverse in grembo, sopra le coperte leggere che coprono le lunghe
gambe.
La brezza che spira da
fuori, e gonfia le tende ai lati della figura minuta del nuovo Elle,
gli accarezza gentilmente il viso e le braccia nude fino al gomito
increspando leggermente quella pelle troppo pallida e scompigliando
affettuosamente i capelli di un rosso cupo, spento, che ricadono ormai
sulle spalle e incorniciano un viso emanciato. Non ha mai avuto
chissà quale peso importante, se si toglie il periodo
dell’infanzia che lo ha visto come un bambino ciccione con un
assurdo taglio a scodella, ma adesso è ancora più
magro. La malattia ne ha modellato i tratti, rendendoli affilati e gli
zigomi sporgenti, ma non ha cancellato la bellezza.
C’è ancora, come un’ombra sul viso, ma
è delicata e in un certo qual modo commovente.
Tiene gli occhi
chiusi, le ciglia scure fremono appena e così la pelle
sottilissima delle palpebre, sono cerchiati da un’ombra scura
che piano piano scomparirà. O così Nate si augura.
Non
c’è alcun segno sulla sua pelle, niente cicatrici
evidenti a deturparla – quelle sono nascoste sotto la
camicia, si trovano sul petto e sulle spalle, sono piccole e circolari
e non andranno mai via.
Ispira
fragilità ed è sempre stata una nota stonata
quando si parla di lui.
Il più
piccolo di quello che non è mai stato, veramente, un trio
attende.
Attende qualsiasi
cosa, non sa nemmeno lui cosa aspettarsi, ma sa di doverlo fare. Lo
sente, in qualche modo.
E quando finalmente il
ragazzo sul letto apre gli occhi, fissando dritto davanti a
sé, con il vento a scompigliargli i capelli e la luce a
bagnare la sua figura rendendolo tutto un gioco di chiaro scuri, si
permette un sorriso.
«Com’è…
la giornata, oggi? »
Poco importa che sia
piccolo e triste. E che senta il bisogno di distogliere lo sguardo da
lui, voltandosi di nuovo a guardare fuori dalla finestra, socchiudendo
gli occhi. Anche se questa volta non può dare la colpa alla
luce, per il bruciore che avverte.
«Oggi
è uscito finalmente il sole, Mail»
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Angolino
di Red:
so di essere un mostro per ben più di un motivo. Ma non
nascondo che, per quanto le idee ci fossero, sia stata la voglia a mancare.
Semplicemente non riuscivo a buttare giù il capitolo,
perché sentivo che non sarebbe venuto come avrei desiderato.
E questo
è un capitolo delicato e corto (ma così doveva
essere), oltre che quello che suppongo molti di voi si aspettavano.
Oltre al fatto che sia Near che Matt potrebbero risultare un
po’ OOC, e me ne scuso in anticipo ma... mi sa che sarebbe
stato impossibile altrimenti dato il contesto.
Probabilmente
non lo avreste immaginato così, vero?
Lo so, lo so.
E mi dispiace, vi assicuro, perché Matt è uno dei
miei personaggi preferiti in generale non solo per quanto riguarda il
fandom.
Che fine ha
fatto Mello in tutto questo? Mandiamolo a Chi lo Ha Visto (?). No, ok,
no.
Lo scopriremo,
ve l’assicuro.
Intanto
piangete con me per il povero Matt, il cui primo pensiero da appena
sveglio va subito a lui. Avevo bisogno di MattMello per i miei feels,
comprendetemi.
So, ho deciso
di dedicarmi a questa storia. Nessun progetto a lungo termine fino a
che non l’avrò terminata. Al limite OS occasionali
(le drabble, ahimé, non fanno per me e nelle flash finisco
sempre per sforare). Ecchevifregaavoi? Avete ragione.
Quindi la
chiudo qui, ringrazio chi ha letto e chi vorrà continuare a
seguirmi anche dopo aver perso la speranza. Se volete farmi domande,
correzioni, insultarmi (?), o anche solo darmi il vostro parere
sarò ben contenta di leggere.
Ci si ribecca
alle note finali del prossimo capitolo.
See ya!
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