Alleanze e… obiettivi raggiunti!
Gennaio 1981: Nankatsu – Poppenbüttel
John riapparve con l’aria di una volpe che ha appena trovato
un pollaio incustodito.
– Sai dov’è, vero? – esclamò, come se davvero il cane
potesse capire le sue parole, e, soprattutto, rispondergli, – Ma non hai la
minima intenzione di dirmelo in cambio di niente, vero, bastardo? – Si
squadrarono come in una sfida rigorista contro portiere.
Poi l’animale si accomodò sulla poltrona accanto al divano,
sbadigliando, ma senza smettere di fissarlo, beffardo, quasi quanto il suo padrone.
Mikami strinse le labbra già sottili, facendole sparire del
tutto, poi sbuffò – Veniamoci incontro! – Si sentiva molto idiota a parlare con
John come se fosse un essere umano, ma a Yūta dava sempre retta… Poteva
comunque fare un tentativo anche lui.
L’allenatore era disperato, e l’Akita Inu era il suo unico
alleato in quel momento; così si tolse una scarpa da ginnastica e la mostrò
come un premio allettante, poi la lanciò verso la porta. – Se mi stani
Genzō dal suo nascondiglio, avrai anche l’altra… –
Il cane drizzò le orecchie a punta ed emise un basso guaito
gutturale, per confermare l’avvenuta accettazione dell’equo accordo, poi scattò
veloce e afferrò tra i denti il suo “osso”; si voltò brevemente a guardarlo,
sollecitandolo a seguirlo, e iniziò a correre.
~ Meno male che non sono del tutto fuori allenamento! ~
e si avviò di corsa anche lui.
La sagoma bianca era ferma, sempre con la scarpa in bocca,
davanti alla porta dello studio: – Kamisama! Era così ovvio… – ansò, perché non
ci aveva pensato subito?! Bene, tanto di guadagnato, perché quella stanza non
aveva uscite secondarie tranne la veranda, e fuori si gelava, quindi il
portierino monello era in trappola.
Tolse anche l’altra scarpa, per non fare rumore e consegnarla
al bastardo di razza, come pattuito, e lui se ne appropriò soddisfatto; poi
aprì silenziosamente uno spiraglio, scorgendo un lembo di stoffa rossa. Infine
impostò sul volto un cipiglio severo.
– Genzō! Vieni subito qui! – ordinò spalancando
l’uscio. Lui provò a scappare di nuovo, ma l’ex Numero Uno lo parò abilmente
prima che riuscisse ad insaccarsi nel vano della porta; lo bloccò
definitivamente intrappolandolo nella coperta, per poi trascinarlo fino alla
sua stanza, mentre il Numero Uno ancora tascabile scalciava brontolando.
Sembrava che Tatsuo stesse trasportando un sacco di serpenti
velenosi e parecchio arrabbiati, mentre il fido John, reggendo tra i denti le sneakers per le stringhe, li seguì, curioso di vedere chi
avrebbe avuto la meglio fra i due umani.
– Fammi quest’ultimo favore, dai, ti prego…! – lo supplicò
sibilando appena, mentre al contempo buttava il piccolo S.G.G.K. a pancia sotto
sul letto senza tanti complimenti. Tenendolo fermo con una mano decisa tra le
scapole, afferrò il cappellino rosso e lo lanciò al cane. – Se non ti fai
mettere la supposta, ordino a John di mangiarselo! –
Il ragazzino impertinente si voltò appena sfidandolo con lo
sguardo di pece – Tanto a te non obbedisce mai! – Gli restituì un’occhiata
altrettanto nera e scintillante da dietro le lenti fumé – Scommettiamo? – e
sfoggiando una sicurezza di sé che riusciva a tirare fuori soltanto quando si
trovava tra i pali, e davanti ad avversari ben più temibili.
Mentre, di nuovo, al contempo rivolse una muta supplica al
suo alleato peloso e snob, che, mosso a compassione, annusò il berretto caduto
per terra con aria interessata, e sembrava quasi in attesa di rispondere ad un
suo ordine o cenno.
Sempre tenendo fermo il suo figlioccio con una mano, casomai
gli dovesse prendere un ultimo impeto ribelle, sfilò rapidamente una supposta
dalla scatola sul comodino con l’altra, stupendosi della sua stessa manualità,
scoperta giusto in quel frangente.
Mentre il bambino osservava, stupefatto, prima il cane, poi
il cappellino, infine il suo allenatore, per poi rassegnarsi caparbiamente al
suo inevitabile destino terapeutico e distogliere orgogliosamente lo sguardo
sconfitto.
Lasciò andare la presa sulla schiena giusto per il breve
tempo di scartarla del tutto e abbassare, inesorabile, calzoni del pigiama e
mutande; alla fine, sebbene Tatsuo fosse un portiere, il “pallone” oblungo
entrò facilmente in rete, mentre Genzō emetteva un grugnito infastidito e
nascondeva la testa sotto il cuscino borbottando la sua onta.
– Mikami – Wakabayashi: 1-0! – esultò vittorioso
l’allenatore. – Sei sleale… – protestò di rimando il piccolo portiere con la
vocina offesa e attutita. Con un sorriso, recuperò il berretto dal pavimento,
sostituendolo al guanciale, poi grattò timidamente John dietro le orecchie,
sussurrando appena un – Grazie per il gioco di squadra… –
Al che lui, stranamente, ricambiò con una leccata, per poi
tornare a rosicchiare le sue scarpe da ginnastica con aria totalmente
soddisfatta.
– Devi imparare a saper perdere con dignità, Genzō –
suggerì con tono pacato e una carezza leggera fra i corti capelli corvini, e il
diavoletto monello infine arreso si rifugiò nel suo abbraccio; poi, con
espressione studiatamente afflitta sul musetto da cucciolo, reclamò, come
consolazione, un po' di coccole dallo ‘zio’ allenatore.
* * *
Karla e Beate Hulde
ascoltarono il resoconto del Colonnello al ritorno dalla ricognizione e si
divisero i compiti: la prima avrebbe seguito il marito per aiutarlo nelle
operazioni di recupero del nipote monello, mentre la seconda si sarebbe recata
nella stanza dei ragazzi ad attendere il ritorno di truppa e prigioniero
annesso.
Hermann dormicchiava, ma sentì
distintamente il rumore dei passi e del vassoio che veniva appoggiato sul comodino;
il profumo di biscotti solleticò le narici sensibili e un piccolo sorriso
increspò l’angolo della bocca, ma continuò a tenere gli occhi chiusi.
Poi una mano delicata gli tastò la fronte, ancora calda di
febbre, mentre un’altra lieve fragranza gli riempì il naso: quella
inconfondibile di vaniglia che emanava sempre la sua dolce nonnina, che posò un
bacino sulla guancia e gli rimboccò la coperta.
Il ragazzo attese ancora qualche minuto che lei fosse
uscita, poi aprì un occhio e la vide, invece, girata di spalle che guardava
dalla finestra, quindi significava che presto Karl sarebbe
tornato, volente o nolente, per ricevere la sua “razione”.
Tanto valeva, allora, smettere di fare finta di dormire,
perché aveva troppa voglia di assaggiare i biscotti di Oma,
che però non si mosse dalla sua posizione contemplativa, così Herri
approfittò per prelevare alla svelta il contenuto del vassoio,
avvolgerlo nel tovagliolo e tornare a nascondersi sotto il piumone con il suo
bottino al cacao.
Nel frattempo, in un’altra parte della villa, la caccia al fuggitivo
continuava.
– Karl-Heinz, arrenditi! – tuonò imperioso
il Colonnello.
Il bambino trasalì e dovette uscire dal suo nascondiglio.
Era stato scoperto ma non si dette per vinto, infatti, cercò
di nuovo di scappare; con un’espressione risoluta, si mise a correre verso
l’altra porta, la sua unica via di fuga, mentre il nonno si avvicinava
minaccioso.
Quando, però, pensava di essere ormai quasi in salvo, la
nonna sbucò all’improvviso, afferrandolo per le ascelle, e lo trattenne
saldamente.
– Non vale, non è giusto, non è leale! – protestò il piccolo
Kaiser strattonando, – Siete due
contro uno… – rivolse un glaciale e furioso sguardo azzurro all’alleato peloso,
e arricciò la faccia, – E tu sei un traditore: vile e bast… –
Ma quell’ultima parola morì nel palmo della mano di Oma Schneider, che strinse le palpebre in un gelido e muto ammonimento,
poi prese a trascinare il nipote, che si agitava, elettrico come un temporale
di fulmini, per il lungo corridoio.
Opa e Sauzer li
seguirono, con aria vittoriosa, a passo di marcia impettito e trionfante.
– Obiettivo raggiunto! – esclamò, fiero, quando scorse
l’altra nonna che li aspettava sull’uscio, – Però adesso dobbiamo fare gioco di
squadra… – indicando Karl-Heinz che continuava
a scalciare e grugnire come un piccolo cinghiale biondo molto arrabbiato.
Herri non aveva fatto nemmeno in tempo
a gustarsi il terzo biscotto, che il trambusto irruppe nella camera; restò
immobile e silenzioso, attendendo che l’operazione ‘Kaiser
supposta’ si concludesse, così sperava, senza troppa onta per il
suo amico, che, ahimè, venne costretto a pancia sotto sul letto.
Poi, mentre Beate Hulde lo tenne fermo
per le braccia, e il Colonnello Rudolf Schneider, sempre col
berretto di pelliccia in testa, per le gambe, Kaiser Karla
gli abbassò, senza tanti preamboli, calzoni del pigiama e mutande,
e introdusse lo scomodo ‘proiettile’ oblungo nel deretano imperiale. E Kaiser Karl si dovette rassegnare con algido
sdegno impotente all’affronto subito. Inoltre, alla fine, Sauzer
approvò con un latrato, come se avesse voluto infierire anche lui sul
padroncino.
Una volta che i nemici si furono ritirati, per tornare in
salotto a godersi tè e pasticcini della vittoria, il campo di battaglia ridiventò
silenzioso, ed Hermann si decise ad aprire di nuovo un
occhio; scrutò l’amico e si fece sfuggire una risatina.
– Erano in tre contro uno: io te l’avevo detto che non avevi
scampo… –
Questi sbuffò e nascose la testa sotto il cuscino; poi,
però, agitò un pugno in aria – Il mio piano era perfetto! – si lamentò con la
voce ovattata dal guanciale, – Ma non credevo che il Kaiser-Dogge
mi potesse tradire in quel modo indegno…! –
Rise di nuovo, e l’amico, offeso, gli voltò le spalle; ma la
Scimmia, previdentemente, aveva tenuto da parte qualche biscotto di Oma come consolazione, avendo previsto l’esito infausto e
scontato della caccia al Kaiser fin dall’inizio.
Si alzò dal suo letto e si infilò in quello di Karl: non era nemmeno la prima volta che condividevano febbre e
malattie varie; ne fece passare uno sotto le sue narici, e per qualche istante
il Kaiser restò immobile con aria di lesa maestà, poi un
occhio azzurro si riaprì e un sorriso imperiale apparve.
Addentato il biscotto, masticò in silenzio per qualche
secondo, poi si illuminò – La prossima volta dobbiamo nasconderci insieme: se siamo
in due, possiamo vincere! –
Herri scosse la testa e sospirò,
rassegnato – D’accordo, ma ci penseremo quando ci verrà la scarlattina… Ora
dormiamo. –