Characters: Edwin Jarvis; Anna
Jarvis;
Pairing: EdwinxAnna;
Rating: PG
Genre: Introspettivo; Fluff;
Words: 1.801
Prompt: Once upon a Time;
Warning: Slash (già, non fatevi ingannare dal nome di Anna); Crossover;
What if;
Disclaimers: I personaggi di Agent Carter appartengono alla Marvel e a
chi di diritto;
Scritta per la 5° Settimana del
Cow-t5 @maridichallenge
C'erano
una volta un soldato inglese e una giovane ebrea.
La luce in
camera da letto era ancora accesa, quando tornò a casa.
«Non c'era
bisogno che mi aspettassi in piedi.»
«Lo so.»
Edwin
sorrise, incrociando il sorriso di sua moglie riflesso allo specchio. Ne
guardò le dita sottili passare tra i capelli scuri e corti che incorniciavano un
volto dai tratti spigolosi. Si avvicinò alle sue spalle, chinandosi per baciarne
la guancia in saluto.
«Forse sarò
io che trovo tedioso il tempo passato lontano da te» La nuca di sua moglie
si era poggiata contro il suo petto, mentre aveva inarcato la schiena, come un
gatto che, sinuoso, si stiracchia contro il suo padrone. Ed Edwin aveva sempre
trovato particolarmente piacevole il modo in cui Anna – che, la sera, in
quella casa soltanto, nella loro camera da letto e in un mondo fatto unicamente
di loro due, poteva chiamare con il suo vero nome – si muoveva, come in quel
momento quando abbandonò lo sgabello per tirarsi in piedi e spingersi
completamente contro di lui, serpeggiandogli addosso in una danza lenta su note
di pianoforte nate solo nella sua testa.
Aveva dita
lunghe da pianista, Anna. Da compositore.
«Ma,
sbaglio,» riprese, catturando le mani di Edwin per allacciarsele in vita «o
ultimamente stai rincasando più tardi del solito?»
«Ti avevo
detto che oggi avrei fatto tardi, my dear.»
«Quello che
non mi hai detto, in effetti, è il perché.»
Edwin
annuì, consapevole. E, in qualche modo, anche colpevole.
Poggiò il
mento sulla sua spalla, socchiudendo gli occhi nel respirare il suo profumo, che
poi era anche il proprio: sua moglie aveva la cattiva – no, dopotutto non
la trovava una cosa negativa – di usare il suo dopobarba e vestirsi dei suoi
panciotti o delle sue cravatte.
«Se dovessi
raccontarti tutto quello che faccio per il signor Stark, temo ti annoieresti di
me e mi lasceresti.»
«Sciocchezze, Edwin. E poi se mai dovessi lasciarti, chi altri mi sposerebbe?»
Le braccia
di Edwin si strinsero più forte intorno alla sua vita, risalendo con le mani
fino alle spalle, per stringere anche quelle contro di sé.
Per tutto
il percorso in auto, dalla sede dell'SSR sino a casa, non aveva pensato ad altro
se non al fatto che aveva rischiato di perdere tutto. Aveva rischiato di
rovinare quell'unica cosa buona che era sua e sua soltanto, che non aveva a che
fare con il Signor Stark, con i suoi capricci, con le sue donne, le sue armi o
le accuse mosse contro di lui.
«Scusami,
Robert. Cercherò di essere più presente, lo prometto.»
C'erano
una volta un soldato inglese di nome Edwin e una giovane ebrea di nome Anna.
Le braccia
di Robert erano forti, come ci si sarebbe aspettato da un uomo, anche se il suo
corpo aveva una linea sottile, quasi fragile e, fin dalla prima volta in cui
Edwin lo aveva visto nudo (era accaduto a Budapest, nella soffitta dei genitori
di lui, quando ancora la guerra era lontana e il timore di essere scoperti era
una scintilla di eccitazione) aveva avuto paura di poterlo spezzare soltanto a
guardarlo troppo a lungo. Non che distogliere lo sguardo da lui fosse mai stato
semplice: smettere di ammirare il modo in cui si slacciava il nodo della
cravatta – una di quelle di Edwin, ovviamente –, non guardare la punta della
lingua che si dilettava nel leccare pian piano le labbra sottili o gli occhi
azzurri che a loro volta guardavano Edwin, dietro alle lenti da vista degli
occhiali. Se li tolse, in quel gesto tanto attraente in cui entrambe le mani si
arrampicavano alle due asticelle di plastica nera, abbassandoli oltre il naso
per liberare un centimetro alla volta l'intero volto, riponendoli sul ripiano
della specchiera. Un mobilio da donna indispensabile nella camera da letto di
una moglie.
«E questo
nuovo affare con Stark, è una donna?» gli chiese, allacciandogli le braccia al
collo, mentre mostrava i denti nel morderlo al labbro inferiore e tirarlo,
giocoso, capace di sedurlo come la prima volta.
Edwin
deglutì, perdendo sicurezza.
«In parte.»
«In parte.»
gli fece eco Robert. Lo spinse con tutto il corpo affinché indietreggiasse, fino
al bordo del letto dove le sue gambe incespicarono, facendoli cadere entrambi
sdraiati sul letto.
Rise, al
ridicolo «Ohoo!» di Edwin, come se si fosse trovato sull'orlo di un precipizio e
rise anche quando sentì le sue braccia stringerlo forte a sé, nell'intento di
proteggerlo dall'impatto, dal fondo di chissà quale baratro.
Edwin,
Edwin, il suo eroe.
«Ed è più
bella di me?» chiese.
Edwin si
affrettò a puntellare un gomito sul materasso per sollevare il busto e cercare
lo sguardo di Robert. Si tirò indietro, trascinandolo con sé e scosse il capo,
colpito dalla sua domanda, dispiaciuto che gliela ponesse.
«Non esiste
donna» sorrise «o uomo, che ai miei occhi, possa essere più bella di te,
Robert.»
E per lui,
quello stesso pomeriggio, avrebbe potuto tradire Stark. Solo per lui.
«Mhm. E
Captain America?»
«Ecco,
questo è più complesso; non ho mai avuto il piacere di incontrarlo di persona,
quindi–»
«Edwin!»
Fu lui a
ridere questa volta.
«No,
Robert, nemmeno Captain America.»
C'erano
una volta un soldato inglese di nome Edwin, una giovane ebrea di nome Anna e suo
fratello, Robert.
Il lenzuolo
odorava di pulito e solleticò ruvidamente la pelle di Robert, quando Edwin lo
sollevò nel rimboccarglielo. Era una delle tante piccole cose che faceva per
prendersi cura di lui; non che gli fosse mai dispiaciuto riempirlo di
attenzioni, mentre il più giovane si tendeva alla ricerca della sua pelle, per
morderlo e leccarlo, per riempirlo di brividi e godere dell’effetto che aveva
sempre su di lui.
«Quindi,
non vuoi proprio raccontarmi la tua giornata.» gli soffiò direttamente contro il
collo, su cui la lingua aveva tracciato scie bagnate di saliva che circondavano
il pomo d’Adamo e scendevano verso il centro delle clavicole, dove le ossa si
uniscono.
Edwin
sospirò, allontanandosi dalla sua bocca. Si sdraiò al suo fianco e le dita
cominciarono a giocare con i suoi capelli, corte onde castane spesso messe in
disordine dal passaggio delle stesse mani di Robert. Ed ogni volta Edwin si
immolava per risistemarli, una ciocca dopo l’altra, con assoluta devozione.
«Perché,
invece, non mi racconti la tua.»
Robert
arricciò il naso, ma lo assecondò quasi subito.
«Oggi ho
suonato.» lo disse con finta casualità, come se non avesse mai smesso di sedersi
ad un pianoforte e non avesse ignorato per anni quello presente nel salotto, che
si erano portati dietro direttamente da Budapest – con i migliori auguri di
felice matrimonio di Howard Stark e le sue condoglianze per la perdita subita.
«Ma è
un’ottima notizia!» esclamò Edwin.
«Non è
stato granché, i versi straziati di un gatto moribondo avrebbero avuto un suono
migliore.»
«Lo dici
solo perché sei sempre stato troppo critico con te stesso.»
«Lo dico
perché, a differenza di te, mio caro, io di musica me ne intendo.» Robert lo
prese in giro, pizzicandogli con dispetto la punta del naso con l’indice.
«Nulla di
più vero.» ammise Edwin, sporgendosi sul suo volto per baciarne la fronte «Ma
sono ugualmente felice che tu abbia finalmente ripreso a suonare. Pensavo non
sarebbe più accaduto…» le ultime parole si persero in un sussurro più basso,
dove al rammarico si univano i ricordi di una vita che sembrava distante secoli,
quando invece erano passati solo pochi anni.
«Dovevo
riprendere, prima o poi. È l’unica cosa buona che so fare.»
«Robert.»
«Lasciami
parlare, Edwin.» ordinò Robert, rispondendo con risoluzione al suo tono di
rimprovero. Si voltò, strusciandogli contro nel sollevarsi sulle mani poggiate
ai lati della nuca dell'uomo, sovrastandolo, semi sdraiato su di lui «Mi è
sempre pesato non poterti dare un matrimonio convenzionale, non poter invitare i
vicini a pranzo la domenica e presentarti come mio soltanto.»
«Oh Robert,
dovrei essere io a dirlo.»
«Edwin,
smetti di interrompermi.»
«Giusto.
Perdonami.»
«Bravo.»
trattenne a stento una risata dietro al cipiglio serio che aveva indossato per
parlare di una relazione vissuta di nascosto, lontano dagli occhi e dal giudizio
della gente «Ma ho ancora la mia musica e desidero comporre per te. E anche per
Anna, per mantenere vivo il suo ricordo.»
C'erano
una volta un soldato inglese di nome Edwin, una giovane ebrea di nome Anna e suo
fratello, Robert. Un giorno il soldato inglese entrò nella sartoria della
giovane ebrea e, quando il suo sguardo si posò sul fratello, comprò da loro la
cravatta più bella del negozio, solo per potergliela annodare al collo e avere
una scusa per toccarlo.
Edwin si
era assicurato che il più giovane concludesse il suo discorso, prima di parlare.
Ne raccolse il volto tra entrambe le mani, solleticando con i pollici il mento
su cui la barba aveva sempre tardato a crescere.
«Non
potresti trovarmi più d'accordo.» gli sussurrò, abbassandolo verso di sé, per
assaggiarne le labbra che si mossero contro le sue a formare una frase: «E sai
su cos'altro mi aspetto che tu sia d'accordo? Sul fatto che stanotte non–»
Lo squillo
del telefono gli tolse ogni parola, bloccandolo con occhi spalancati di colpo e
la mascella contratta nella sorpresa. Non c'era nulla di peggio dei rumori
improvvisi, perfino quelli innocui ma inaspettati come il bussare alla porta,
che per qualche secondo soltanto – ma sempre tropo lungo – faceva riaffiorare la
paura di una caccia alle streghe arrivata fino a Budapest, le Magen David cucite
sugli abiti o le famiglie deportate.
Edwin
attirò gentilmente il capo di Robert contro il proprio petto, prendendosi il
tempo necessario per calmarlo e riportarlo con sé lontano dalla guerra.
«Va tutto
bene, Robert.»
Robert
chiuse gli occhi, accoccolandosi su di lui «Rispondi al telefono.» gli mormorò,
in una supplica.
Edwin
annuì, lo baciò tra i capelli e sollevò la cornetta di un telefono a dischi
poggiato sul comodino.
«Pronto?»
«Signor
Jarvis, mi dispiace disturbarla a quest'ora, non l'avrei fatto se non fosse
stato necessario.»
Riconobbe
la familiarità dell'accento inglese ancor prima della voce femminile di Peggy
Carter.
Sospirò e
Robert seppe che si trattava di una delle emergenze che avevano a che fare con
Howard Stark.
«Vai Edwin,
hai la mia benedizione.»
«Sei
sicuro? Posso rimanere se lo desideri.»
«Vai. Ma
assicurati di non tornare a casa di nuovo sporco di polvere e calcestruzzo.»
Sorrisero
entrambi.
«Ci
proverò, my dear.»
Dall'altra
parte della linea, Peggy lo chiamò, per assicurarsi che fosse ancora lì.
«Signor
Jarvis?»
Si alzò.
«Mi è
concesso almeno il tempo di cambiarmi e dare un bacio per augurare la buonanotte
a mia moglie, Miss Carter?»
«Naturalmente.»
«Molto
bene, dunque.»
Quando
riagganciò si assicurò di rimboccare nuovamente le coperte di Anna – che,
una volta messo piede fuori da quella casa, tornava ad avere il nome di un
fantasma – e gli sorrise, spegnendo la luce della piccola abat-jour.
«Buonanotte, Robert.»
Note: Da quando ho realizzato che l'attore
di Jarvis è lo stesso che ha fatto Sixsmith in Cloud Atlas, non sono riuscita a
togliermi dalla testa il fatto che Anna, in realtà, fosse Robert Frobisher
(nonché amante di Sixsmith [here
- cioè, parliamone!]) e poco male che la voce di Anna si senta ad un certo
punto e sia effettivamente quella di una donna. Da qui il what if nel warning.
Nella fic non viene spiegato perchè Anna muoia (questo però era chiaro, sì?), ma
punto tutto su una polmonite o cose così, dopo Budapest, mentre il loro
matrimonio è una sorta di farsa architettata ai tempi da Stark, che è stato
obbligato da Anna, sul suo letto di morte, a far mantenere ai due piccioncini le
apparenze usando quindi il suo nome e nascondendo la sua morte. O una qualche
storia più arzigogolata e più credibile di questa a cui non ho voglia di
pensare, perché tanto, in qualsiasi modo la si metta, ho deciso che Robert e
Jarvis stanno insieme, ecco!
Per la cronaca, il Robert di questa fic ha l'aspetto più da Q. (Skyfall) [here].
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