Per
Alice, che stalkerizzo in continuazione! Grazie per come mi
sopporti!<3 Semplicemente, ti adoro!
Ringrazio
anche tutti quelli che leggono questa mia strampalata raccolta, in
particolare coloro che recensiscono! Grazieeeee! Mi fate venir voglia
di essere sempre più cattiva con questi poveri personaggi… Spero
che questo capitolo sia di vostro gradimento, anche se, vi avverto, a
mio avviso è particolarmente crudo e non adatto a chi è
particolarmente sensibile, tanto che valuterò se cambiare il
rating e metterlo rosso… Vedrò cosa fare!
Grazie
nuovamente!
Lolly
IV
– Il rito. [Riza Hawkeye]
L’aria
nella stanza aveva un odore bizzarro. Sapeva di profumo fruttato da
donna, di deodorante ambientale al patchouli, di colonia maschile, di
sudore, di lenzuola pulite. Quello era l’odore del sesso,
l’effluvio che precedeva il rituale che si sarebbe consumato poco
dopo. Era sempre così, ormai ne era consapevole. Unirsi carnalmente
all’uomo che amava, che adorava in modo talmente viscerale
che si sarebbe fatta uccidere per lui, era il preambolo sacro alla
sua personale e profana funzione. Il tutto aveva un qualcosa di
mistico, di estatico, di espiatorio, nonostante il tutto fosse così
carnale e terreno.
Li
poteva sentire tutti, i suoi vischiosi organi interni, che si
contraevano e si rilassavano in continuazione… Merito
dell’autocontrollo che aveva imparato ad assumere sul proprio
corpo. Una tiratrice come lei era in grado di governarsi alla
perfezione.
Riza
Hawkeye sapeva di non essere una
ragazza come le altre. Dal suo punto di vista la su vita era
stata straordinaria, avventurosa, eppure anche triste. Terribilmente
triste.
Sua
madre era morta quando lei era una bambina, suo padre non si era mai
troppo curato di lei, anzi, per lui era solo un contenitore
alchemico, un guscio vuoto. Non l’aveva mai amata. Avrebbe dato
qualsiasi cosa, quando era piccola, per ricevere un abbraccio,
qualche parola di conforto, un complimento per le sue eccellenti doti
di mira, e invece tutto questo all’uomo che le aveva dato la vita
non era mai interessato. Solo la sua schiena aveva per lui un qualche
tipo di malsana attrattiva, con quei tatuaggi che le aveva fatto
costringendola con la forza. Quante cose aveva fatto subire con la
forza… Solo a
ripensarci, Riza non sapeva se ridere o piangere. Forse era stata una
stupida, non aveva mai detto nulla a nessuno, nemmeno al colonnello
Mustang, nonostante fosse sicura che lui sospettasse, che lui avesse
visto ma non voleva parlarne. Riza era solo una bambina che voleva
cancellare tutte le cose orribili che le erano capitate…
Suo
padre non l’aveva veramente violata, ma per lei era lo stesso.
Anche se la sua verginità non era stata intaccata, con le sue
parole, con il modo disumano con cui l’aveva sempre trattata,
l’aveva stuprata, l’aveva violentata nel profondo della
sua Anima. Lei era stata solo carne da macello da toccare, da
studiare. Aveva odiato le sue mani quando le accarezzavano con
reverenza la sua schiena nuda, l’unica parte di lei che valeva la
sua attenzione, le parole affettate e rivoltanti che le dedicava in
quei momenti. Era stata un misero pezzo di pelle e null’altro per
quell’uomo maledetto. No, non l’aveva violata mai, eppure si
sentiva come se lo avesse fatto: colpevole, lurida dentro e
esecrabile. L’aveva sporcata e oltraggiata sfiorandola e ferendola.
Ricordare il suo tocco, il dolore dell’ago che iniettava
l’inchiostro nel derma, la sua voce maniacale le faceva salire la
nausea.
“Bambina
mia, sei perfetta!”
“Lo
sai anche tu che lo devi fare! Ci siamo votati ad una causa superiore
e tu sei il fulcro di tutto!”
“Non
devi dirlo a nessuno, sarà il nostro piccolo segreto!”
La
donna scosse la testa, cercando di scacciare via tutti quei pensieri
che la disturbavano e che in quel momento non la facevano dormire.
Soffriva di insonnia sempre più spesso, ma le compresse di
Fenobarbitale che il medico dell’esercito le aveva prescritto erano
rimaste nella loro confezione immacolata, appoggiata ordinatamente su
una mensola del bagno, in bella vista. Erano lì, le procuravano una
sensazione di sicurezza. Il dottore le aveva garantito che si
trattava di un farmaco scoperto da poco e che era molto efficace
contro l’insonnia e le situazioni ansiogenee. Riza aveva annuito,
evitando di rivelare quello che già era ovvio: non ne avrebbe
assaggiata nemmeno una. Se le avesse volute avrebbe potuto prenderle
quando non si sarebbe più sentita abbastanza forte.
Forse
era addirittura meglio così: quelle poche volte che riusciva ad
addormentarsi la sua mente partoriva incubi terrificanti. Le visioni
di donne che donne non erano, di scheletri coperti di pelle macilenta
che si massacravano a vicenda a mani nude, scorticandosi, e poi
ridevano di lei, le dicevano che era disgustosa, eppure lei cercava
sempre di aiutarli, di farsi perdonare portando loro da mangiare
perché erano così deperiti… E loro invece vomitavano…
Era tutto così nauseante…
Sdraiata
nel letto, si era rannicchiata tra le lenzuola in posizione fetale.
Uno spiffero entrava dalla finestra appena socchiusa.
La
sua schiena nuda, illuminata dalla gelida luce lunare, era devastata
da profonde ustioni, dilaniata da simboli ormai incomprensibili che
mai avrebbe voluto vergati sulla sua pelle. Non c’era stata altra
soluzione, aveva dovuto sopportare un dolore spaventoso, avvertire il
proprio corpo sciogliersi e bruciare per liberarsi di quell’incubo.
Accanto
a lei, il giovane uomo che all’epoca aveva acceso quelle fiamme,
dormiva. Avvertiva il respiro profondo e regolare del Colonnello. Lui
non aveva alcun problema con il sonno. Dopo l’estasi ardente che
lei gli regalava durante quelle notti proibite si addormentava sempre
appagato come un bambino, senza dirle nulla.
Riza
tremò appena, l’epidermide
che si accapponava per pochi attimi prima di rilassarsi nuovamente
avvertendo il calore del corpo di Mustang accanto al suo.
Preferiva
di gran lunga restare così, sveglia e in tensione, preparata ad
alzarsi e sparare al minimo segno di pericolo con la pistola che
teneva incastrata tra il muro e il materasso; con gli occhi color
nocciola spalancati come fanali nella semioscurità grigia e fredda,
piuttosto che rimanere insonnolita e instupidita dai barbiturici. Sì,
erano dei farmaci che aveva già visto utilizzare, inventati e messi
in commercio di recente. Molti militari li utilizzavano per attenuare
l’ansia, i sensi di colpa e gli incubi ricorrenti. Tanti, troppi
soldati si erano ritrovati in quelle condizioni dopo la guerra di
Ishval, le loro menti si erano ammalate a causa di tutte quelle
brutture a cui avevano assistito, ed ecco che ognuno cercava di
trovare un dolce veleno con il quale dimenticare almeno in parte
quegli orrori: c’era chi annegava la tristezza nell’alcool fino a
quando il fegato non diventava un pezzo di legno, c’era chi passava
intere nottate nei bordelli incurante della lue che prima o poi lo
avrebbe contagiato e ucciso, chi ancora nei barbiturici, farmaci che
annebbiavano la mente, creavano una dipendenza fisica e conducevano
chi ne faceva uso ad una specie di letargo cerebrale, mentre il corpo
ne chiedeva sempre di più per ricevere dei benefici...
Riza
aveva orrore di tutto questo.
Lei non era tanto debole, era forte, determinata. Aveva passato di
tutto durante la sua vita travagliata, la sua moralità, il suo senso
profondo del dovere e la sua fedeltà erano il pilastro saldo su cui
il Colonnello poteva sempre contare. Se si fosse ridotta ad uno stato
larvale in quel modo, come avrebbero fatto tutti quanti? Il Team
Mustang si aggrappava a lei e alla sua operosità, senza riuscire a
capire quanta corazza aveva dovuto costruirsi da sola, pezzo dopo
pezzo.
Una
bambina bionda sdraiata a pancia in giù su un vecchio tavolo di
legno piange in silenzio, la guancia destra arrossata appoggiata
sulla superficie ruvida, già umida di lacrime. Cerca di mantenere il
controllo, di essere coraggiosa e resistere al dolore di quella
tortura. Gli aghi le bucano incessantemente la pelle virginale,
rivoletti di sangue scuro colano pigramente sui suoi fianchi. Suo
padre lavora febbrilmente su di lei senza ascoltare i suoi lamenti e
le sue suppliche, completamente rapito dalla solennità del momento,
in preda ad un delirio estatico.
La
bambina è cresciuta, ed è diventata una donna. L’allievo di suo
padre, un giovane bello e brillante la trascina con sé
nell’esercito, contagiandola con i suoi onesti e giusti ideali. E’
diventata una cecchina, una tiratrice dal talento innegabile, che
spara senza sbagliare un colpo dalle torrette, i capelli corti
coperti da un velo per proteggersi dal Sole rovente e insopportabile
delle terre di Ishval. Quello è il caldo dell’Inferno in cui si è
ritrovata senza nemmeno accorgersene.
Quando,
all’interno del suo campo militare, vede per la prima volta un
gruppo di donne dai capelli bianchi, la pelle scura e gli occhi rossi
trascinate in catene come bestie fin dentro alcune tende non realizza
nemmeno bene cosa stia succedendo. Tutto attorno a lei è ovattato.
Le
donne sono tutte di età diverse, ci sono anziane, giovani,
ragazzine, alcune di loro sono incinte, altre sono ferite, e hanno
una cosa in comune oltre alla loro fisicità: piangono. Alcune
silenziosamente, altre singhiozzano, altre ancora pregano, tutte
piangendo di paura. Intuiscono già il loro destino, cosa che Riza
realizza solo quando avverte le urla e i rumori dentro le tende.
E
qualcosa dentro di lei inizia nuovamente a sanguinare, e si ricorda
di quando era bambina, di quando suo padre le ammirava la schiena e
le diceva che era bellissima e che quello era il suo compito, che
doveva stare zitta… Le stesse parole che in quel momento sente
pronunciare da quei soldati senza cuore né sentimenti.
Quando
sente le grida e i gemiti provenire dalle tende le si gela il sangue
nelle vene. Prova a protestare con i superiori, i quali la ignorano,
litiga violentemente con gli altri soldati, uomini che non capiscono,
che la scherniscono, che non hanno alcuna idea di cosa voglia dire
quella mortificazione… Perché per loro è giusto così, mentre
ogni fibra di del corpo di quella bambina ormai adulta sanguina,
sanguina copiosamente.
«Ma
non rompere le palle, Hawkeye!»
«Guarda
che è normale, in guerra ci vogliono delle ricompense anche per i
poveri soldati come noi! E poi sono sicuro che sotto sotto piace pure
a loro!»
«Facevi
meglio a stare a casa a cucinare torte come tutte le donne normali
invece di giocare a fare il soldato. Sarai anche brava a sparare, ma
io ho sempre detto che la carriera militare non è roba da femmine…»
«Ehi,
Hawkeye! Se vuoi metterti tu al posto loro non hai bisogno di fare
queste scenate, basta che chiedi… Ti darei volentieri una
ripassata!»
«Bravo,
così almeno per una volta terrà in mano qualcosa di diverso da un
fucile!»
«Chiediamo
a Mustang se oltre che lamentarsi sa fare qualcos’altro con quella
bocca…»
Deve
difendersi con le unghie e con i denti perfino dai suoi commilitoni,
minacciandoli a vuoto di farcirli di piombo, riempiendosi di quel
poco orgoglio che le rimane, tra le loro risate crudeli. Si sente
umiliata per l’ennesima volta, umiliata perché donna, e le donne
non devono fare altro che tacere e soddisfare gli uomini. Il primo è
stato suo padre, poi quando pensava di essere finalmente libera,
l’incubo è tornato a torturarla. Lo vede negli occhi di quelle
povere sventurate terrorizzate e mutilate nelle loro anime.
Nemmeno
il suo amico le è d’aiuto, poiché quando gli racconta le oscenità
a cui ha appena assistito lui le risponde che ormai non possono fare
nulla oltre a sperare che quell’orrore finisca presto. Quelle
parole la fanno sprofondare ancora di più nell’abisso delle
proprie paure. E in quella voragine spaventosa tocca il fondo nel
momento in cui decide di mettersi in gioco lei stessa quella notte.
Di nascosto prova ad entrare nella tenda dove sono tenute le
prigioniere.
Sono
legate, umiliate, inermi, nude, ferite, disperate, private della
dignità. Alcune non si muovono, potrebbero essere morte o svenute in
quell’Inferno che sa di sudore, di sangue, di umori, di urina.
Si
rivede in loro, la bambina che è cresciuta, vorrebbe aiutarle perché
quella visione le strappa via il cuore e lo riduce a brandelli. Ha
portato loro qualcosa da mangiare, qualche razione che è riuscita a
avere in più dalle cucina dell’accampamento. Sorride mentre porge
loro qualche pezzo di pane e una borraccia d’acqua. Pensa di fare
qualcosa di buono per quelle sventurate…
Una
donna anziana, con il volto deturpato da un lungo squarcio che le
percorre la fronte, fresco e sanguinante, la fissa con odio e sputa
per terra.
«Non
abbiamo bisogno della pietà di una puttana dell’esercito.
Mangiatela tu questa roba. Non vogliamo l’aiuto di una cagna come
te, non provarci! Non sei meglio degli altri, non cercare di
convincermi con la tua falsa carità. Stermini il nostro popolo
esattamente come tutti gli altri, vero? E giuro… Giuro che pregherò
Ishvala che tutte le carogne come te subiscano quello che abbiamo
patito noi devote! Spero proprio che qualcuno ti prenda, ti bastoni,
ti deturpi e ti stupri, soldatessa…»
Il
cuore della bambina è ormai dissanguato. Nemmeno se ne rende conto,
ma dopo quei sibili spietati scappa via in lacrime.
Riza
non vuole più essere una
donna. Riza vorrebbe quasi sparire.
Riza
Hawkeye si risvegliò da quella
specie di sogno ad occhi aperti. Era sicura di non aver dormito,
aveva semplicemente lasciato che il flusso di ricordi sfilasse da un
capo all’altro del suo cervello, ferendola nuovamente. Non si era
neanche accorta che la piccola abat-jour sul comodino del lato
opposto al suo fosse accesa e che la figura che riposava al suo
fianco non c’era più. Si voltò lentamente, socchiudendo gli occhi
a causa della luminosità violenta della lampada e scorse la figura
statuaria del Colonnello proprio accanto al letto. Aveva già
indossato i pantaloni di sartoria, si stava accingendo ad abbottonare
la camicia, dalla quale si intravedeva il suo petto muscoloso.
Riza
avrebbe fatto davvero qualsiasi
cosa per lui. Gli era indispensabile nel lavoro, non era abbastanza
sicura però di esserlo anche nella vita sentimentale. L’esercito
proibiva le relazioni tra soldati, e il tutto veniva consumato in
modo clandestino, in quei mordi e fuggi a cui lei si aggrappava
dolorosamente, sperando con tutta se stessa che Roy Mustang non la
stesse usando finendo così per macellare crudelmente il suo povero
cuore.
Si
vedevano di nascosto, spesso a casa di lei, facevano sesso (o
facevano l’amore?), quasi disperatamente, avvinghiati l’uno
all’altra… Poi l’uomo se ne andava in silenzio, salutandola in
modo freddo e formale, chiamandola Tenente, lasciandole sul
cuscino quell’odore di dopobarba muschiato. E lei doveva stare al
gioco, doveva controllarsi, ricordarsi del suo ruolo. Era la sua
sottoposta, rigorosa, dedita alla sua mansione. Non si lamentava mai.
«Non
sei riuscita ancora a dormire, Tenente?»
Mustang
parlò girandosi di spalle, mentre si infilava un cappotto scuro.
«No.»
«Sei
andata dal medico? Ho visto una confezione di Fenobarbitale nel
bagno. Era ancora sigillata.»
«Non
voglio prenderlo, Colonnello. Non ne ho bisogno.»
L’uomo
annuì.
«Fai
bene, Tenente. Mi servi lucida. Non posso perderti a causa di quelle
porcherie, il tuo lavoro è importante per me.»
Riza
avrebbe voluto chiedergli se lo
era come soldato o come amante, e invece rimase in silenzio,
aspettando il rumore della porta dell’appartamento che cigolava
chiudendosi. Lui non l’aveva nemmeno salutata, non lo faceva mai.
Era a quel punto che cominciava il rituale, ogni volta dopo che se ne
andava.
Riza
si alzò lentamente, come
posseduta, piangendo in silenzio, e si recò in cucina. Hayate
dormiva placidamente nella cuccia, non si accorse di nulla.
Lei
aprì il frigorifero. Divorò una mela, quattro budini al cioccolato
con panna, una scatola di acciughe, una confezione di carne cruda.
Poi una confezione grande di yogurt bianco, un intera fetta di
formaggio stagionato, due banane, cinque carote, un cespo intero di
insalata, e poi tre scatolette di tonno dalla dispensa, dei biscotti,
cereali a manate direttamente dalla scatola, mezzo barattolo di crema
di cioccolato e nocciole, uno intero di cipolle sotto aceto, tre
fette biscottate, qualche sorso di latte e di una bibita all’arancia,
una scatola di ravioli crudi, tre mandarini, mezzo limone…
Divorava
tutto quello che trovava come fuori di sé, senza avere il controllo
di nulla. I quei momenti finalmente poteva dirsi libera. Il suo
cervello si spegneva, non era più una donna che rischiava la dignità
ogni maledetto giorno, era solamente un’umana che riempiva il suo
stomaco fino a che non fosse stato ingombro, e più quell’organo
era pieno e più la sua testa era vuota. Era proprio bello avere la
mente così leggera durante la prima parte del suo rituale… Quando
sarebbe arrivata la seconda si sarebbe resa conto che così non
poteva andare bene, che aveva mangiato decisamente troppo, e che
faceva un po’ schifo. Per fortuna aveva i suoi metodi per
purificarsi...
Hayate
si sveglio e osservò uggiolando
la sua padron che si dirigeva lentamente in bagno.
A
Bulimia
Nervosa:
è
un disturbo del comportamento alimentare
che
colpisce al 90% il sesso femminile
e
per il quale il soggetto sente un bisogno compulsivo di ingerire
spropositate
quantità di cibo, correlato ad una sensazione
di
incapacità di controllo sul proprio comportamento.
Spesso dopo le abbuffate
vengono eseguite delle condotte di eliminazione,
che
vedono il soggetto ricorrere regolarmente a vomito autoindotto,
oppure
all'uso inappropriato di lassativi, diuretici o enteroclismi.
Il
fine di questo comportamento (che spesso come per l’Anoressia
Nervosa
diventa
“rituale”) è quello di neutralizzare l'abbuffata.
È
un modo per poter provare ad attenuare il senso di colpa
procurato
dall'abbuffata e di ridurre al minimo ogni aumento di peso
che
potrebbe aver luogo conseguentemente.
Le cause della bulimia
possono essere culturali
(
difficile accettazione del proprio corpo rispetto all’ideale di
bellezza),
famigliari,
traumatiche (violenze, stupri, fonti di stress,
forti
pressioni sociali e lavorative),
personali
(odio per il proprio aspetto fisico,
incomunicabilità,
sensazione di perdita di controllo) e biologiche.
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