Uomini e dei
Uomini
e Dei
«
Com’è stato, per te? »
Ganimede
mi osserva di sottecchi. È bello, Ganimede. Più
di quanto non sarò mai; del resto lui ha ricevuto onori
divini, mentre io…
«
Come vuoi che sia stato? » risponde. Ogni volta che parla di
lui, del signore degli dei, la sua voce ha un tono amaro. «
Sono divinità, non si occupano dei sentimenti dei mortali.
Mi ha rapito alla mia vita tranquilla, alla mia famiglia, e mi ha
praticamente violentato. »
«
Hai avuto un guiderdone del tuo amore, però. »
Ganimede
ride. Ultimamente le sue guance sono sempre rosse; il suo ruolo di
coppiere dell’Olimpo non gli impedisce di godersi altri
piaceri più terreni, evidentemente. Ama il vino della
Tracia, schietto, ancor più di quanto ami il signore Zeus.
Soprattutto da quando questo scende tanto spesso a Tiro, per spiare
sotto le sottane della principessa Europa, figlia di re Agenore.
«
Amore? » ripete, in tono sarcastico. « Zeus non ama
nessuno, a parte se stesso. La verità è che sono
stato un folle. »
Mi
osservo le falangi, trovandole improvvisamente molto interessanti.
«
Credi che lo sia anche io? » domando.
Mi
passa una mano tra i capelli.
«
No, Ciparisso. Non lo sei: è che… sei umano.
» afferma, in tono nostalgico.
«
Capisco cosa intendi. »
È
vero, lo capisco sul serio. Avessi dovuto sostenere questo dialogo sei
mesi fa, probabilmente non ci sarei riuscito, ma l’amore ha
fatto anche questo.
Quando
Apollo, il dio, mi scelse, scendendo sulla terra travestito, rimasi
sconvolto. Ero solo un ragazzino vergine, e l’Olimpo rimaneva
quell’universo della mia infanzia misterioso e nascosto tra
favole e leggende.
Non
avrei mai immaginato di diventare anche io una leggenda, o che essa si
sarebbe compenetrata con me fino a questo punto.
Sono
bello… o almeno, così dicono. E Apollo adora la
bellezza in tutto; la vede nelle siepi ben potate come nelle distese di
neve che avvolgono le cime dei monti, la ascolta nel suono dei flauti e
negli epitalami nuziali intonati dalle fanciulle. La gusta nel nettare
e nell’ambrosia che il mio amico Ganimede mesce per le mense
olimpiche, e nell’odorare il fumo che sale dalle are
sacrificali.
Mi
scelse per questo. Sono io che non ho avuto scelta.
Si
può avere scelta quando Eros ti insegue, puntando ostinato
le sue frecce verso di te?
Apollo
mi ha rincorso, lusingando la mia acerba vanità, coprendomi
di doni, di complimenti, dedicandomi se stesso (almeno in apparenza). E
io cedetti.
Non
potevo dire di no ad un dio; e, del resto, non avevo motivi per
rifiutarlo.
Mi
aveva abbagliato… nelle sembianze di Helios si era posato su
di me, illuminandomi. E io permisi ad Eros di prendere la mira, con
tutta calma, e di trafiggermi come fossi stato un cinghiale alla caccia.
Mi
prese, mi ebbe ovunque: nelle terre di mio padre, nei prati, nelle mie
stanze, sull’Olimpo.
Mi
dedicava canti, suonava la lira per me, recitava poesie con la sua voce
stupenda e ben modulata, i lunghi boccoli ramati sciolti sulle spalle
candide dopo l’amplesso.
Conobbi
ogni sorta di libidine, di piacere, di godimento: era come cadere nelle
Isole dei Beati e riemergerne subito dopo, stretto dalle sue braccia
senza età.
I
giorni erano puro miele; ancora oggi lo sono, o almeno le notti, quando
lo vedo spuntare all’orizzonte, di ritorno dal giro diurno
sul carro del Sole.
Ma
quando è fuori, e so che va da altri – dalla ninfa
Dafne, oppure da quel ragazzo spartano, Giacinto -, il mio cuore
è dilaniato dalla gelosia.
Il
mio unico compagno, l’unico che mi possa capire, è
Ganimede. Ma lui è diverso: è un dio.
Io
sono solo un ragazzino umano, sciocco adolescente diciassettenne, che
ha regalato il proprio amore e la propria fedeltà a qualcuno
per cui è solo il trastullo di qualche ora notturna,
finché non ha trovato qualcosa di più bello cui
interessarsi.
La
mia esistenza è interamente votata alle notti, al mio regno
di lenzuola e di baci roventi, in cui imbastisco per questo dio
– egoista e crudele come un uomo, ma di un egoismo e
d’una crudeltà tanto perfette da essere possibili
solo per una divinità – un banchetto di fragrante
gioventù e umanità.
Lo
faccio senz’altro interesse che una carezza sul mio capo
ricciuto, dopo l’orgasmo, e magari qualche dono o un
complimento distratto. Qualsiasi cosa, anche la più piccola,
che mi confermi che ci sono solo io nel suo cuore millenario e senza
morte.
La
voce amara di Ganimede mi distrae ancora da queste mie penose
riflessioni.
«
Non commettere il mio stesso errore. » dice, mescolando
dell’ambrosia in un grande cratere a figure rosse.
«
Intendi che… non dovrei amarlo? » domando,
scuotendo la testa. « Ormai è troppo tardi.
»
Mi
osserva con tristezza, ma anche con… invidia, forse?
«
No. Intendo… non diventare come lui. Non diventare come me.
» replica. « L’immortalità
è la cosa più innaturale e assurda del cosmo. Se
te la offrisse, rifiutala. »
«
Perché? » non riesco a seguirlo. «
Potrei stare con lui per l’eternità, per sempre
giovane, e bello. E amarlo!, se mi desse la possibilità di
diventare un… » pronuncio quella parola con timore
reverenziale. « … un dio…per quale
ragione dovrei dire di no? »
Ganimede
mi prende il viso tra le mani. Nei suoi grandi occhi verdi leggo un
rimpianto folle, e un desiderio appena velato.
«
Lui ti è fedele? » chiede. Una domanda retorica
che racchiude un’affermazione pesante come il mondo. E io
capisco dove voglia andare a parare.
Lui
non mi è fedele. Non posso più nascondermelo da
quando torna da me, la notte, con addosso l’odore di altre
braccia, con le labbra che sanno di altri baci. Non posso
più nascondermelo perché lui stesso non si
preoccupa di farlo.
Non
si impensierisce all’idea di ferirmi, e che io possa provare
gelosia, per lui è quasi uno spettacolo comico. La mia
piccola vita gli si dispiega davanti come una commedia su un
palcoscenico, in cui lui inserisce risate e applausi al momento giusto,
ma sembra incapace di comprendere che sia una vita. Non una
recita, ma una cosa seria.
Sto
barattando il mio unico bene – me stesso – per un
amore senza futuro. Del resto, posso promettergli che
l’amerò per sempre, ma lui sa benissimo che per me
il per sempre
non può esistere.
All’inizio
credevo alle sue parole; mi ripeteva continuamente che mi amava, che mi
avrebbe onorato in eterno e che mi si donava tutto, anima e corpo. E io
– per Zeus, com’ero ingenuo! – ero certo
che fosse tutto vero.
Ora
inizio a capire che n’era convinto anche lui: il problema era
che utilizzavamo due pesi e due misure per valutare
quell’amore. Io usavo il metro umano, lui quello divino.
E
– lo comprendo solo ora, specchiandomi negli occhi bellissimi
e tristi di Ganimede – essere dei significa godere di tutti i
difetti degli uomini, moltiplicati all’eccesso, e di ben
poche delle loro doti.
Apollo,
il mio signore, corre su una strada che non avrà mai fine.
Per una bieca e ironica coincidenza, porta il carro del Sole ogni
giorno, e ogni giorno vede un tramonto di cui non apprezzerà
mai il riposo.
Cerca
il piacere, continuamente ed egoisticamente, in ogni cosa, rifuggendo
la noia, cercando di non capire quanto desolato sia il suo destino
apparentemente tanto aureo.
Forse
è meglio che non comprenda mai a fondo cosa
l’attende (o, meglio, cosa non
l’attende).
Lui
continuerà ad amarmi come un dio.
Io
continuerò ad amarlo come un uomo.
E,
alla fine dei giochi, anche se lui è immortale, onnipotente
e bellissimo, senza vecchiaia e senza età, sarò
io a poter dire di avere veramente vissuto; anche se avrò il
cuore spezzato… e dovessi morire per questo.
Io
avrò vissuto. Come un uomo e meglio di un dio.
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