Nota
dell'autrice: ecco l'undicesimo
capitolo! Finalmente si arriva al sodo. Siete pronti per l'attesa,
seria Kenji action, la tensione (si
spera) e l'immancabile angst? <3 Spero di sì,
perché sono abbastanza soddisfatta del risultato (ho
lavorato più su alcuni capitoli che su altri).
Nel prossimo
capitolo, il climax. Se riesco dovrei terminare la pubblicazione entro
Capodanno ^^ accidenti, la storia l'avevo iniziata (e terminata)
proprio un annetto fa... come vola il tempo.
Buona lettura.
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“Una
tigre può correre mille
miglia.”
Proverbio giapponese
Nessuno. Il
posto sembrava deserto.
Kenji strinse le
palpebre, lanciando un’occhiata dietro di
sé nel timore che l’avessero sentito arrivare e
gli tendessero un agguato. Ma
la fitta selva di tronchi era immota, silenziosa. Decise allora di
spostarsi.
Non
giù nella gola: prima doveva assicurarsi una buona
panoramica. Seguì i contorni della grossa buca, scivolando
un poco sui bordi
ghiacciati delle pietre, e finì per arrivare
dall’altra parte, che si stringeva
e livellava congiungendosi col fianco della montagna. Da lì
le baracche erano
più vicine.
Dovette
tapparsi il naso per non gemere. Il puzzo di verde
marcio si mescolava ad altri odori allucinanti (forse carcasse di
animali);
roba da togliere il respiro. Che schifo.
Forse
s’era sbagliato.
Forse quel
postaccio era abbandonato.
Eppure no, si
disse, aveva visto della gente. Dall’aspetto
poco raccomandabile, per giunta. E Shinta doveva essere lì,
perché se non ci
fosse stato…
Non voleva
pensarci.
S’appoggiò
contro la roccia, lasciandovi una
striscia
terrosa con la mano imbrattata di limo, e studiò con
diffidenza l’immondezzaio.
Un respiro.
Bene, scendeva
a vedere.
Appena ebbe
posato i piedi sulla bordura grigia, però, un
movimento attirò la sua attenzione.
S’appiattì contro il dosso.
L’umidità gli
passava attraverso i vestiti mentre i suoi occhi seguivano la
sciancata, esile
figura emersa da una delle baracche, diretta verso i resti di un fuoco.
Si
morse le labbra, teso. Il tipo maneggiava qua e là, fissando
periodicamente la
seconda baracca, più piccola ma solida. E chiusa.
Kenji tese le
orecchie. Che cosa ascoltava quell’uomo? Gli
pareva di… no, era troppo lontano, con lo sciacquio del
ruscello non sentiva
niente.
Meglio
avvicinarsi ancora.
Si
spostò all’ombra di un mucchio
d’assi, trattenne il
respiro e da lì passò alla roccia che sovrastava
le costruzioni.
Udì
il cigolare delle ruote ancora prima di veder il
carretto arrancare per la mulattiera. Trainato da un asino massiccio e
corredato di una finestrellina inferriata, ispirava claustrofobia anche
da
fuori. Kenji rabbrividì.
Poi
notò che procedeva sul greto del torrente e
capì come si
erano mossi per quei boschi, come avevano trovato il posto e
trasportato la
legna con cui avevano costruito (o forse era meglio dire improvvisato)
i
ripari.
Osservò
senza fiatare il viaggio del carro, che si
fermò nei
pressi del bivacco.
Scesero due
uomini, uno da cassetta, l’altro dal retro.
La figura
curva ― che aveva brandito una zappa con aria poco
amichevole ― si rilassò e levò un braccio.
«Tutto
normale?»
«Sì.»
«Non
accendere il fuoco» raccomandò
l’uomo sceso da
cassetta. «Abbiamo dei fastidi in giro.»
«I
soliti contadini?»
«No,
stavolta sono quelle maledette spie di Kyoto.
E’ un po’
che sento il loro fiato sul collo. Figli di puttana.»
«Quanto
sono vicini?»
«Troppo.
Spostiamo tutti.»
Kenji
sentì il proprio cuore accelerare.
Aveva visto
giusto. Erano loro.
«In
pieno giorno?!» esclamò il guardiano.
«Lo
sai quali sono gli ordini» ringhiò
il terzo uomo, alto e
massiccio. «Se rischia di saltare la base, via di
corsa.»
«Ma―»
«Muoviti!»
La figura
scarna si contrasse per evitare un colpo e sgusciò
via, farfugliando con alcune chiavi pesanti.
Ne
ficcò una nella porta della casupola serrata,
sollevò una
spranga, ne scostò un’altra e finalmente
aprì la porta. Gli altri due l’avevano
raggiunto, fregandosi le mani.
«Hey…
dici che possiamo divertirci, già
che non c’è il
signor Tsukasa?» suggerì l’uomo da
cassetta.
«Scordatelo.
La merce dev’essere intatta.»
«Oh,
che miserabile che sei.»
Kenji
sentì il sangue ribollirgli nelle vene.
«Il
signor Tsukasa non s’è fatto vedere
fino a ieri, se lo
sapevo mi regolavo prima!»
«Taci.»
L’omone si rivolse al piccoletto
sghembo,
mollandogli un calcio: «Allora, ce la fai? Levati dai piedi,
le tiro fuori
tutte di persona!»
Entrò
nella baracca e, pochi istanti dopo, una ragazza che
avrà avuto sì e no l’età di
Kenji sbatté in terra, con un’esclamazione di
dolore.
«In
piedi! Su quel carro. E voi altre, uguale!»
In men che non
si dica dalla baracca uscì una decina di
ragazzine ― mistero come avessero potuto stare là dentro ― e
il gigante chiuse
la porta con un tonfo che le fece sobbalzare dalla prima
all’ultima.
Dalla sua
posizione, Kenji continuò a scrutare la casupola,
allarmato.
Shinta?
Dov’era Shinta? Non lo vedeva.
C’erano
solo ragazze.
E di tutti i
generi, notò, di tutte le condizioni: dalla
povera contadina alla signorina in bel kimono, forse sorpresa un attimo
fuori
del giardino di casa. Erano sporche, pallide e attruppate le une sulle
altre.
Si muovevano in simbiosi, senza staccarsi.
Presto anche
quella che era stata buttata avanti si riunì al
gruppo, fissando gli aguzzini con occhi sbarrati.
«Ho
detto dentro al carro!» ruggì il
ciclope.
Kenji strinse
le palpebre.
L’uomo
dovette percepire il suo odio, perché
esitò e si
guardò intorno.
O no?
No…
Stava
studiando le ragazze.
Avanzò,
deciso. «Ferme. Voltatevi.»
Che cosa stava
complottando?
Le prigioniere
impietrirono e obbedirono con muto terrore,
sempre strette tra loro.
«Mettetevi
in fila.»
Quello
sembrò terrorizzarle oltre ogni dire. Si guardarono,
chiudendosi semmai più a riccio.
«Che
cosa nascondete?»
«N-niente,
signore» osò balbettare una.
«Abbiamo solo
freddo.»
«Allora
mettetevi in fila, che problema
c’è?»
Altri sguardi
sgomenti.
Kenji
scattò in piedi, colto da uno strano presentimento.
Senza
ulteriori avvertimenti l’omaccione balzò e,
tolte di
mezzo quattro, cinque ragazze con un unico pugno, giunse al centro del
gruppo,
affondandovi la mano.
E si
bloccò.
«E
questo cos’è?»
L’attimo
dopo sollevava Shinta per una caviglia, tenendoselo
davanti al naso, accompagnato dall’urlo angosciante del
bambino.
Kenji non ci
vide più.
Bastardi.
Li avrebbe
ammazzati tutti. Non meritavano che la morte!
Trovato col
piede il bordo del picco d’osservazione, si
buttò e piombò loro addosso con un ruggito.
Non si
fermò finché i tre uomini non furono
irriconoscibili,
un ammasso di stracci e carne contusa.
Poi
s’appoggiò alla sakabato, lasciandola
affondare nel
terriccio e premendosi una mano contro il fianco. Aveva vinto, ma era
stato
imprudente.
Aveva
dimenticato il ghiaccio, il fango. E quelli, dopo
avergli lasciato abbattere lo smilzo e il mulattiere, s’eran
vendicati
portandogli via il terreno sotto i piedi.
Un momento, un
lampo e un altro tipo di ghiaccio gli entrava
nella carne.
Staccò
lentamente la mano dal fianco sinistro, aprendo piano
i lembi del gi per giudicare la ferita. Uh. Non era un esperto ― forse
Sozou
avrebbe potuto dare un parere più attendibile ― ma non aveva
comunque un
bell’aspetto; sanguinava come una dannata.
E faceva un
male cane.
«Uh»
ringhiò, applicando pressione.
Tra i ciuffi
di capelli osservò di sbercio gli avversari.
Deglutì.
Certo loro
stavano peggio.
Ma se
l’erano meritato. Sì, se
l’erano…
«Hic…
sob.»
Alzò
la testa di scatto e vide suo fratello, di nuovo
attorniato dalle ragazze, stretto fra loro, lanciato in un pianto
isterico. Più
tardi, ragionando a mente fredda, avrebbe provato gratitudine per loro:
l’avevano protetto e isolato da quella situazione disgustosa.
Ma adesso voleva
suo fratello.
Vicino, senza
discussioni.
Strinse i
denti e le raggiunse.
«Datemelo
qui.» Loro gridarono, spaventate dalla
sua spada
gocciolante. «Datemelo!» urlò.
Shinta lo
riconobbe.
«K-k-kenji-chaan!»
strillò. Si districò dalle braccia
che tentavano di trattenerlo, saltò e
gli fu addosso, finalmente al sicuro.
Kenji
barcollò e cadde, emettendo un gemito gutturale.
Ma non
protestò, anzi. Lo tenne stretto e riprese fiato, gli
occhi chiusi, la spada caduta a terra.
«Shinta.»
«Kenji-chan,
Kenjii―»
Era
lì.
Aveva saputo
della sua scomparsa per poco, ma era stato
ugualmente un delirio.
Adesso era
finita.
Dèi,
grazie.
Stava bene.
Pian piano,
però, il sollievo di riavere suo fratello si
smorzò e il ragazzo ebbe la mente abbastanza libera da
capire che quello non
era il momento di distrarsi. Dovevano lasciare quel posto.
Si
raddrizzò con qualche difficoltà, si tolse
Shinta di
dosso (permettendogli però di attaccarsi a una manica, pena
la ripresa delle
grida strazianti), poi recuperò la sakabato e strinse i
denti per non
lamentarsi della ferita.
Infine
guardò le altre vittime.
Lo fissavano,
tremanti.
«In
piedi, andiamo. Dobbiamo scappare.»
I loro guardi
passarono dalla diffidenza all’incertezza.
«Dove?»
«Beh,
via da qui! Questi» accennò ai
corpi dei rapitori,
senza guardarli «non erano gli unici, no? Li ho sentiti
parlare.»
«Sì»
pigolò una bambinetta
«c’era un altro uomo cattivo
ieri, e non da solo.»
«Allora
muovetevi.»
Controllò
che si alzassero tutte, poi fece dietrofront,
scavalcò alcune assi e colse un barlume nel cerchio del
bivacco.
Un’idea.
Poco dopo
s’addentravano di buon passo nel bosco, diretti
alla città, lasciandosi alle spalle le fiamme che
consumavano i resti
puzzolenti di quell’inferno.
Kenshin e Hiko
arrivarono sul posto quando le fiamme s’erano
già spente, soffocate dall’umidità.
Erano riuscite a bruciare una delle due
baracche, sfondandone il tetto; l’altra era solo annerita
dalla fuliggine.
Kenshin
s’avvicinò senza tante precauzioni, troppo
smanioso
di scoprire la verità, e vide che non erano stati i primi ad
accorrere: Aoshi e
Misao aspettavano al centro della piccola conca, vicino a quelli che
parevano…
Tre corpi.
Schizzati di
sangue.
Dovette
rallentare, raggelato. Non poteva essere quello che
pensava.
Fa che non sia
stato lui,
pregò,
assordato dal
silenzio.
«Non
c’è più
nessuno» furono le parole con cui Aoshi lo
salutò. «E hanno cercato di bruciare
tutto.»
Dall’altro
versante del monte, ovvero dalla
sommità,
comparvero le sagome di Sanosuke e della signora Omasu, anche loro di
corsa.
«Cos’è
successo?!»
«Abbiamo
visto il fumo!»
«Erano
segnali?»
«No»
rispose Misao. «Siamo stati battuti
sul tempo.»
Kenshin non
notò il vecchio maestro abbandonare il suo
fianco, perlustrare e scartabellare fra i resti
dell’accampamento. No, lui
vedeva solo i corpi deformati dei tre uomini. Tre criminali, si
rammentò. E la
sciarpa verde di suo figlio, caduta in un angolo…
Ma non poteva
credere che l’avesse fatto davvero.
S’avvicinò
con circospezione, cercando segni di vita.
C’era
qualcosa di familiare, oltre all’odore di
sangue?
La scena
rimase muta finché Hiko non sedette su un sasso,
dando un’ultima occhiata al campo di battaglia.
«Sì,
è stato lui.»
«Lui
chi?» fece Misao, dubbiosa. Aoshi strinse gli
occhi.
«Il
mio allievo, chi altro? Questi segni» Hiko
indicò lunghe
strisce di ciottoli spostati e fango schizzato, lasciate un
po’ dappertutto.
Kenshin le considerò a sua volta. «Li lascia solo
l’Hiten Mitsurugi, coi suoi
movimenti veloci. E il risultato…»
Tutti gli
occhi conversero sui cadaveri.
«Li
ha ammazzati?» esclamò Sanosuke,
sbigottito.
Quelle parole
sembrarono sigillare con un solo sparo la
sorte di quegli uomini, di Kenji e della sua famiglia.
Kenji
posò i piedi sul pavimentato cittadino con una
sensazione molto simile al sollievo. Solo che non ebbe modo di
apprezzarla.
Digrignò
i denti e strinse più forte il fianco
sinistro,
dove la stoffa gli si stava incollando alla pelle. Per fortuna il suo
gi era
nero ― non poteva rendersi conto appieno del macello che doveva essere
il suo
corpo. Uno svenimento mancato.
Forse.
«Stammi
vicino» disse a Shinta.
Il bambino non
se lo fece ripetere.
Ringuainata
con impaccio la spada, Kenji barcollò e torse il
collo per ispezionare le ragazze che aveva salvato insieme al fratello.
Stavano
a debita distanza, ma non lontane, e apparentemente incollate tra loro
col
mastice.
«Allora,
volete muovervi?»
Una (che lo
superava di una buona spanna) avanzò timidamente
mostrando un pezzo di tessuto a fiori.
Lui lo
studiò, perplesso.
«Che
è?»
La brunetta
abbassò gli occhi.
«Sei
ferito» balbettò lei.
«Questa è la stoffa più pulita
che abbiamo, lasciati―»
«Non
c’è tempo» rispose.
«Ma
stai perdendo tanto sangue!»
Non aveva
tutti i torti. Il fianco gli doleva in modo sordo,
mentre la sua testa fluttuava.
Scontroso,
sedette su una catasta di legna e si lasciò
avvicinare. Le mani della ragazza spostarono la stoffa del suo gi e gli
sfiorarono il torso, realizzando con pochi, esperti giri una fasciatura
d’emergenza. Kenji arrossì, incerto sulle proprie
reazioni. Non gli piaceva
quella vicinanza. Lo faceva sentire vulnerabile.
Attese con
impazienza.
«Finito?»
esclamò alla fine, scostandola
e richiudendosi il
gi.
Lei
arretrò e il ragazzo si sentì un verme.
«Grazie»
bofonchiò, raccogliendo Shinta
da terra. «Ngr.»
La ragazza
corrugò la fronte.
«Oh,
non dovresti sforzar―»
«Fatti
gli affari tuoi. Avanti, entriamo. Conosco un posto
dove possiamo riposarci.»
Imboccò
l’entrata est, notando gli sguardi
incuriositi dei
pochi cittadini (ma perché quel deserto? Di solito la
città era piena di vita a
quell’ora) e nel prendere la direzione dell’Aoiya
scelse una strada secondaria.
Al secondo
bivio camminare era faticoso.
Al terzo
barcollava.
Che strano.
Ora che
l’energia della ricerca e dello scontro
l’avevano
abbandonato, si sentiva svuotato. Shinta gli riposava in braccio,
poggiando la
testolina sulla sua spalla; piccole mani stringevano forte il suo
colletto
nero, accompagnate da mormorii sconclusionati. Scostò di
lato la testa per
evitare di starnutire nei suoi capelli.
Non avrebbe
permesso che gli succedesse altro. Stava bene…
ma sarebbe tornato come prima? Oppure la cicatrice degli allucinanti
giorni di
prigionia l’avrebbe cambiato per sempre?
Rivide il
covo, buio e squallido. Risentì le parole di quei
bastardi.
Perse
l’equilibrio ma, prima di cadere, fu sostenuto
delicatamente.
«Ti
aiutiamo.»
Chi erano?
Dov’era? Pensare stava diventando difficile.
Ah
sì, ah sì. All’Aoiya, lì
doveva andare. Ma l’immagine
della gola dove aveva combattuto si faceva avanti, prepotente e
inspiegabile.
C’era qualcosa che richiedeva la sua attenzione. Ma
perché proprio
adesso?
Ah,
perché… all’improvviso non
ricordava nemmeno quale lato
della spada avesse usato. Quale aveva usato? E perché stava
pensando a questo?
Quante volte
li aveva colpiti?
Dove?
Era suo, vero,
il sangue che aveva versato nel bosco? Non
poteva averli uccisi.
Kenji
sgranò gli occhi, cercando di distinguere fra contorni
ondeggianti.
Eppure non
ricordava. Con proterva sincerità,
l’affievolirsi
dell’euforia gli concesse una visione molto più
limpida di quanto non avesse prima.
Li aveva guardati prima di andarsene? No. Avevano parlato, emesso
qualche
suono? Il volto di
suo padre, cupo e
foriero di sventura, si sovrappose all’immagine degli
sconfitti riportando
timori repressi.
No. Non
l’aveva fatto. Non avrebbe mai ucciso
un’altra
persona, per quanto miserabile… neanche se…
perché l’Hiten Mitsurugi―
Ma non ne era sicuro.
L’orrore
di quel tremendo dubbio fece beccheggiare il suo
corpo come una nave sperduta nella tempesta, finché
un’ondata non l’abbatté
rovinosamente sugli scogli, spezzandola. Il terreno tremava. La sua
bocca era
amara e gli dolevano gli occhi.
Che cosa ho
fatto?
L’hai
fatto.
Aveva tolto la
vita.
Nel delirio
dell’anemia, ne ebbe la certezza.
Suo padre
aveva ragione: alla fine era diventato un
assassino. E non avrebbe mai più avuto il coraggio di
guardarlo negli occhi.
Sì,
non respiravano. Non si muovevano.
Erano morti.
Alla fine, tutti gli incubi peggiori di Kenshin
prendevano vita.
Dèi…
perché?
«No.»
Tutti
fissarono Aoshi, che aveva parlato con fermezza.
Hiko si teneva
per i ginocchi, facendo evidentemente uno sforzo
per non gemere.
«La
vita casalinga ti ha davvero rimbambito, Kenshin. Smetti
di aspettare che tuo figlio diventi un omicida e guarda bene. Sono
vivi.» Senza
lasciare la sua postazione, sollevò col piede
un’asse marcita rivelando
impugnatura e lama di una spada spezzata. «Ha usato una spada
a lama invertita.
Non sarebbe riuscito a spezzare questa, senza.»
Ma dove poteva
averla presa?
«E,
porca vacca, scommetto quel che volete che ha rovinato
una delle mie.»
«Himura,
con tutti i decessi che hai visto dovresti
riconoscere i morti, ormai» commentò Aoshi,
asciutto, ignorando Hiko.
Poi
inserì un piede sotto il busto di uno dei rapitori e lo
rivoltò senza tanti complimenti, strappandogli un vagito.
Lo stesso
fecero gli altri, calciati senza pietà da Misao e
Sano.
Kenshin
barcollò. Avrebbe voluto ridere e piangere e
prendersi a schiaffi insieme ― perché lui continuava a
dubitare e Kenji
continuava a dimostrargli che non ne aveva ragione, ancora e ancora,
rimanendo
un po’ più ferito ogni volta…
Ferito.
Tornò
a concentrarsi sul sangue che macchiava la scena, e
che all’inizio aveva creduto quello di un massacro. Visti da
vicino, gli
sconfitti mostravano solo ematomi e tagli superficiali, alcuni
addirittura
vecchi, non dovuti alla recente battaglia.
In lui si fece
strada un brutto presentimento.
«Ma
allora, questo sangue―»
Nel fango
smosso, confuso d’impronte, colse un cratere
più
profondo. Lì c’era una macchia più
larga.
Poi, dai
pressi del bivacco partiva una serie d’impronte
dirette a valle. Alcune erano più infossate, accompagnate da
uno stillicidio
scuro.
«Kenji.»
«Non
è detto» commentò Hiko.
«Ma è probabile.»
Kenshin chiuse
gli occhi per superare la vertigine, ben
piantato sulle gambe.
Dannazione,
avrebbe dovuto mangiare di più.
«Shinta.
Voglio sapere dov’è
Shinta.»
«Beh,
se è con Kenji possiamo stare tranquilli,
no?» disse
Misao, estraendo una lunga, ruvida corda dalla sacca che portava in
spalla e
cominciando a legar le mani di un criminale.
«Per
niente. Non è possibile che fossero solo
tre.»
«Kenshin
ha ragione» dichiarò Sano.
Aoshi
annuì, facendo un cenno ad Omasu.
«I
nostri ne hanno visti almeno sei, uno con una vanga sulla
schiena. Dev’essere il capo.»
Kenshin
corrugò la fronte.
«Una
vanga?»
«Sono
contadini?» aggiunse Sano, confuso.
Le labbra
dell’okashira s’incurvarono, sprezzanti.
«Per
favore. Voi girate con le spade alla cintura?»
«L’ha
camuffata» intuì
Kenshin, percependo una nuova
tensione.
«Ma
quale arma potrebbe passare per una vanga,
gente?!»
Il suo sguardo
incrociò quello di Hiko. «Non ti
viene in
mente niente?» fece il maestro.
Strinse le
mascelle fino a sentir stridere i denti. «Una
nagamaki.»
«Una
che?» fece Sano.
«Oltre
due braccia. Lama dritta, lunga. Affondo diretto e
falciata» recitò Aoshi, impassibile.
«Come
il mio zanbato?»
«Molto
più maneggevole.»
«Merda.»
Kenshin
guardò l’okashira, ricambiato.
«Andate»
disse questi. «Noi restiamo e
sistemiamo il posto.»
Annuì,
deciso. Non sarebbe riuscito a stare fermo comunque.
«Sano.»
«Eccomi!»
«Vengo
anch’io» annunciò Hiko.
«A prender mia moglie.»
Ma non ve ne
fu bisogno. In quel momento, infatti, colsero
distintamente
il rumore di rami spezzati e spostati, sempre più vicini; si
tesero, ognuno
mettendo mano alle proprie armi. Invece dei complici dei rapitori,
però, dai
meandri stopposi e grigiastri della foresta emersero due figure
familiari,
madide di sudore.
Kenshin
sgranò gli occhi.
«Kaoru?»
In
quell’istante Kenji s’irrigidì,
invaso da una sensazione
sgradevole. Come se qualcuno lo osservasse dal buio.
Passò
gli occhi sull’antica viuzza, sui muri e i
tetti,
attirando l’attenzione delle ragazze.
«Cosa…?»
sussurrò una.
Si riscosse.
«Niente. Ci siamo quasi.»
Shinta si
mosse, nascondendogli il visino nel collo.
«Kenji-chan.»
«Adesso,
Shinta. Fra poco saremo con mamma e
papà.»
«Davvero?»
Sì.
Anche se io…
Gli ultimi
metri furono una tortura, fisica e mentale.
Zoppicando,
giunse alla bella porta dell’Aoiya, fece bussare
e quasi ruzzolò dentro quando l’uscio
s’aprì.
«Nonno
Okina» ansimò, incontrando gli
occhi sgranati del
vecchio. «C’è posto per dei
profughi?»
«Santi
numi, ragazzo, entra.»
«Okon»
fece eco Hiko, compassato.
Il gruppo
accolse l’arrivo delle due donne con un silenzio
tra l’esterrefatto e il preoccupato. Ormai abituato alle
cattive notizie,
Kenshin mosse incontro alla moglie.
«Cos’è
successo?»
Kaoru
saltò il dislivello che portava alla conca e lo
raggiunse,
trafelata, guardandosi freneticamente attorno. La vide riconoscere i
segni di
lotta, l’odore di bruciato e i tre corpi esanimi sul greto.
Per poi guardarlo,
pallida.
«Kenshin,
l’hai trovato? Dov’è?»
La prese per
le spalle.
«Cos’è
successo, Kaoru?
Dov’è Inoi?»
«Dov’è
Shinta?!»
gridò lei, dibattendosi.
Kenshin non
rispose, sbalordito. Perché Kaoru si trovava
lì?
Doveva rimanere all’Aoiya… s’erano
accordati così. Si volse verso la signora
Okon, ora in piedi accanto agli altri Oniwabanshu; era vestita in
uniforme da
spia, con pantaloni neri sotto la gonna dall’alto spacco, per
tener lontano il
freddo.
«Mi
dispiace, Himura, ho cercato di fermarla»
mormorò lei,
dispiaciuta. «Ma quando abbiamo visto il fumo abbiamo temuto
il peggio. Tutta
la città l’ha notato.»
Già.
Il mancato incendio.
«Dov’è
mia figlia?»
«A-all’Aoiya,
al sicuro.»
Kenshin
abbassò gli occhi su Kaoru, che sembrava
sull’orlo
dell’isteria.
«Hai
lasciato Inoi?»
«E’
con Okina. Kenshin, dovevo
venire.»
Sospirò,
ordinandosi di restare calmo. Non era colpa di
Kaoru… capiva cosa provava.
Però
fu più forte di lui. La lasciò,
risentito e calamitato
d’istinto verso la città; proprio sul ciglio della
scarpata, dove conducevano
le orme prima di sparire. Lei e gli altri lo seguirono.
«Kenji
è arrivato prima di noi e ha portato via
tutti»
spiegò. «Ma i rapitori non erano solo
tre.»
«Che
cos’è quello?»
esclamò Omasu.
Tutti
seguirono la direzione da lei indicata. Lontano, un
massiccio blocco di persone brulicava nei pressi della porta nord,
rendendo
difficile il passaggio a quello che aveva tutta l’aria di
essere un moderno
carro-cisterna.
«Sono
i pompieri» rispose Aoshi.
Misao gli
prese il binocolo e lo puntò in basso.
«Sì.
Devono aver visto il fumo.»
«Ma
sono in ritardo» osservò Sanosuke.
«E poi come sperano
di arrivare fin quassù?»
«Sano,
la città di Kyoto ha avuto delle brutte
esperienze
col fuoco» disse Kenshin. «Non puoi biasimarli se,
ancora a distanza di
decenni, si impensieriscono. Tanto più che un incendio in
tardo autunno è
sospetto.»
Prese il
binocolo a Misao e iniziò a scorrerlo sulle vie,
setacciando una zona nota.
Kaoru lo
toccò piano, pallida.
«Che
cosa vedi?»
«Niente.»
«Non
lo trovi?»
«E’
meglio muoversi.»
La mano di
Aoshi comparve nel suo campo visivo e gli spostò
leggermente il binocolo.
«Là.»
Incerto,
Kenshin guardò nella direzione suggerita.
Kenji sedette
sulla veranda, silenzioso, mentre nonno Okina
mandava segnali di fumo dal fornello portatile. La piastra emanava un
piacevole
calore e rendeva il freddo meno pungente; il legno, invece, era gelido.
Lasciò
ciondolare la testa, socchiudendo gli occhi.
Gli sembrava
d’aver vagato per secoli.
Nonno Okina
tornò subito da lui. «Che ci fai
ancora qui? Ti
avevo detto di entrare, sciocco ragazzo.»
Si
sentì prendere sotto le ascelle e sollevare;
deglutì. Non
s’era reso conto d’essere tanto smorto ― e il
vecchio aveva una forza
straordinaria per i suoi settanta.
«Ugh.»
Fermi, fermi
tutti!
«Nonno!»
C’era
un peso attaccato ai suoi hakama ― la stoffa sulla
ferita tirava. Shinta strillò. «Kenji, nooo!
Vicino!»
Ah, ecco
cos’era. Allungò una mano alla cieca,
agganciò la
testa del fratello e se lo tirò dietro.
«Sono
qui.»
Okina
sospirò. Raccolse meglio il suo fardello e lo
trascinò
dentro la locanda, sbuffando come una locomotiva in retromarcia.
«Non
state rendendo le cose più semplici, voi
due.»
«Posso
camminare da solo» bofonchiò
Kenji, umiliato.
«Sì,
proprio.»
Il vecchio lo
mollò con delicata rudezza su un paio di
futon, sfiatando dal naso. La sua barba infiocchettata
tremò. «Non so come tu
ti sia ridotto in questo modo, anche se posso immaginarlo, ma ti
assicuro che i
tuoi non saranno contenti. Adesso togliti quella roba, ché
ti medico.»
Annebbiato,
Kenji obbedì.
I suoi
genitori. Ah, quando avessero scoperto cos’aveva
fatto…
Le mani
cominciarono a tremargli.
Okina
sparì per un attimo, poi tornò con una
grande cassa di
legno, due piatti di onigiri e una coperta. Quest’ultima la
usò per avvolgerci
Shinta, arruffandogli i capelli. Il piccolo si abbassò un
poco, timido.
«Lo
conosci il nonno Okina, vero? Non
c’è da aver paura»
disse il vecchio, porgendogli le polpette di riso. «Avrai
fame: sono per te.»
Shinta
guardò Kenji, poi sorrise e accettò. Kenji
piegò
leggermente le labbra, rincuorato.
Finì
si togliersi il gi e lottò col nodo delle
bende, finché
nonno Okina non gli scostò le dita, lavorandoci al posto
suo.
«Tua
madre e tuo padre?»
Avvertì
il tessuto staccarsi pian piano dalla pelle,
incrostata di sangue. Il dolore lo risvegliò.
«Non
sono qui? Mia madre e mia sorella…»
«Tua
madre è corsa via al primo segno di
fuoco.» La benda
venne via, strappando un po’ di pelle. «Seguita da
Okon. Speravo le avessi
incrociate.»
Kenji strinse
i denti.
«E
Inoi?»
Ebbe la
risposta a spron battuto: mentre il nonno
disinfettava la ferita di nuovo sanguinante, un rumore di passi pesanti
risalì
il corridoio; poi lo shoji si spalancò, lasciando entrare
una bambina dai
capelli color castagna, scarmigliata e impolverata.
«Nonno!
Chi sono quelle―oh.»
I suoi occhi
avevano incontrato quelli di Kenji.
«Ciao,
Inoi-chan.»
Lei
sgranò gli occhi; le tremarono le labbra,
deformò la
bocca e restò muta. Poi, ripresasi, pestò un
piede in terra.
«Con
te non ci parlo! Ti odio!»
E
uscì, andandosene con passo sdegnato. Il ragazzo
abbassò
lo sguardo.
«Piccola
Inoi, mi chiami Toga, per favore?» le
gridò dietro
Okina. Una voce lontana assentì.
In quel
momento Kenji sentì il fianco bruciargli e
guaì,
voltandosi verso il vecchio.
«Hey!»
Il nonno stava
mettendo via della garza sporca e preparava
bende… filo… ago. Con tutto
il coraggio e l’incoscienza dei suoi tredici
anni, Kenji si sentì sbiancare.
«Eh,
no. No nonno, no no.»
«Stai
balbettando, ragazzo.»
«Non
sto balbettando!»
«Ma
guarda. Sei davvero tu quello che è scappato
di casa ed
è sopravvissuto a Seijuro Hiko?»
«Che
c’entra? Non voglio quella roba vicino alla
mia pelle.»
Il nonno si
fece serio.
«E’
brutta, giovanotto. Se non cucio, non posso
assicurarti
che tra una settimana sarai ancora tra noi.» Kenji
deglutì a vuoto. «Mai
ricevuta una ferita d’arma bianca? Sono insidiose, te lo dice
un esperto.
Scommetto che ora ci vedi quasi doppio.»
Deglutì
ancora, poi abbrancò la tazza di
tè che fumava sul
piattino degli onigiri e bevve per farsi coraggio.
Quando
abbassò lo sguardo, il vecchio aveva già
cucito metà
ferita, rapido e indolore. La tazza gli cadde di mano, mancando Shinta
per un
pelo.
«Merda!»
Il bambino sobbalzò. Kenji
corrugò le sopracciglia.
«Scusa, Shinta.»
Lui
accennò un sorriso, gli occhioni lucidi.
Oh no.
Intanto nonno
Okina annodava il filo, lo spezzava coi denti
(ugh) e cominciava a fare una nuova fasciatura. Era incredibile come
tutti
intorno a lui fossero pieni di sorprese. Ogni giorno qualcuno lo
stupiva.
Peccato che
fosse troppo tardi per pensare prima di agire.
In
quell’istante lo shoji s’aprì,
mostrando Toga, Inoi (che
guardava altrove, scontrosa) e una cameriera, dietro la quale
indugiavano le
ragazze rapite. Nonno Okina s’alzò, riponendo i
medicamenti nella cassa e
porgendola al figlio di Omasu.
«Sono
tornati?»
Il ragazzetto
scosse la testa.
«E
Shiro e Kuro?»
«Nemmeno.»
«Ma
dove diavolo sono finiti tutti quanti?»
«Al
momento non ci sono clienti, nonno. L’ultimo se
n’è
andato senza pagare.»
Sulla tempia
di Okina si gonfiò una vena. «Non
farà molta
strada, stanne certo. Comunque io parlavo degli Oniwabanshu. Dove sono?
Questa
è la base, per la miseria, tuo padre e Kuro dovevano star
via poco e Okon non
doveva neanche andarsene.»
La faccia a
spillo del ragazzetto rimase neutra. «Pare che
la città sia in allarme per un nuovo incendio.»
«Nuovo?»
«A
sud. Qualcuno ha incendiato dei covoni incustoditi. I
pompieri e la folla stanno bloccando tutto.»
«E
perché non ne ho saputo niente?»
«Perché
non è tornato nessuno a
dircelo.»
Kenji
poté vedere chiaramente l’espressione del
vecchio
Oniwabanshu: irata.
Faceva paura.
«Sembrerebbe
un po’ troppo per una coincidenza.
Attirare
tutta la gente e l’attenzione
all’opposto… del luogo dove ci sono i
bambini.» I
loro occhi s’incontrarono. «No, hai sentito: non ci
sono altri adulti oltre a
me, qui. Sarà meglio fare un altro paio di segnali di
fumo.»
Un rivolo di
sudore colò giù per il collo di
Kenji.
«No»
disse, la bocca arida. «Non si
può.»
Sbirciò
in direzione del cortile, rigido. Impossibile.
Eppure―
Vide cambiare
anche la postura del nonno.
Erano stati
seguiti.
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