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Autore: Melitot Proud Eye    21/12/2008    1 recensioni
«Allora, perché mi hai chiamato così? “Kenji” è “la via della spada”, hai dimenticato? Perché?»
Non è mai facile trovare il giusto mezzo. E bisogna fare attenzione a non perdere qualcosa d'importante nel tentativo.
[8-11-2011: inizio edit della storia - primo capitolo]
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nota dell'autrice: ecco l'undicesimo capitolo! Finalmente si arriva al sodo. Siete pronti per l'attesa, seria Kenji action, la tensione (si spera) e l'immancabile angst? <3 Spero di sì, perché sono abbastanza soddisfatta del risultato (ho lavorato più su alcuni capitoli che su altri).
Nel prossimo capitolo, il climax. Se riesco dovrei terminare la pubblicazione entro Capodanno ^^ accidenti, la storia l'avevo iniziata (e terminata) proprio un annetto fa... come vola il tempo.
Buona lettura.

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Capitolo XI
Non saro’ Battosai



“Una tigre può correre mille miglia.”

Proverbio giapponese


Nessuno. Il posto sembrava deserto.
Kenji strinse le palpebre, lanciando un’occhiata dietro di sé nel timore che l’avessero sentito arrivare e gli tendessero un agguato. Ma la fitta selva di tronchi era immota, silenziosa. Decise allora di spostarsi.
Non giù nella gola: prima doveva assicurarsi una buona panoramica. Seguì i contorni della grossa buca, scivolando un poco sui bordi ghiacciati delle pietre, e finì per arrivare dall’altra parte, che si stringeva e livellava congiungendosi col fianco della montagna. Da lì le baracche erano più vicine.
Dovette tapparsi il naso per non gemere. Il puzzo di verde marcio si mescolava ad altri odori allucinanti (forse carcasse di animali); roba da togliere il respiro. Che schifo.
Forse s’era sbagliato.
Forse quel postaccio era abbandonato.
Eppure no, si disse, aveva visto della gente. Dall’aspetto poco raccomandabile, per giunta. E Shinta doveva essere lì, perché se non ci fosse stato…
Non voleva pensarci.
S’appoggiò contro la roccia, lasciandovi una striscia terrosa con la mano imbrattata di limo, e studiò con diffidenza l’immondezzaio.
Un respiro.
Bene, scendeva a vedere.
Appena ebbe posato i piedi sulla bordura grigia, però, un movimento attirò la sua attenzione. S’appiattì contro il dosso. L’umidità gli passava attraverso i vestiti mentre i suoi occhi seguivano la sciancata, esile figura emersa da una delle baracche, diretta verso i resti di un fuoco. Si morse le labbra, teso. Il tipo maneggiava qua e là, fissando periodicamente la seconda baracca, più piccola ma solida. E chiusa.
Kenji tese le orecchie. Che cosa ascoltava quell’uomo? Gli pareva di… no, era troppo lontano, con lo sciacquio del ruscello non sentiva niente.
Meglio avvicinarsi ancora.
Si spostò all’ombra di un mucchio d’assi, trattenne il respiro e da lì passò alla roccia che sovrastava le costruzioni.
Udì il cigolare delle ruote ancora prima di veder il carretto arrancare per la mulattiera. Trainato da un asino massiccio e corredato di una finestrellina inferriata, ispirava claustrofobia anche da fuori. Kenji rabbrividì.
Poi notò che procedeva sul greto del torrente e capì come si erano mossi per quei boschi, come avevano trovato il posto e trasportato la legna con cui avevano costruito (o forse era meglio dire improvvisato) i ripari.
Osservò senza fiatare il viaggio del carro, che si fermò nei pressi del bivacco.
Scesero due uomini, uno da cassetta, l’altro dal retro.
La figura curva ― che aveva brandito una zappa con aria poco amichevole ― si rilassò e levò un braccio.
«Tutto normale?»
«Sì.»
«Non accendere il fuoco» raccomandò l’uomo sceso da cassetta. «Abbiamo dei fastidi in giro.»
«I soliti contadini?»
«No, stavolta sono quelle maledette spie di Kyoto. E’ un po’ che sento il loro fiato sul collo. Figli di puttana.»
«Quanto sono vicini?»
«Troppo. Spostiamo tutti.»
Kenji sentì il proprio cuore accelerare.
Aveva visto giusto. Erano loro.
«In pieno giorno?!» esclamò il guardiano.
«Lo sai quali sono gli ordini» ringhiò il terzo uomo, alto e massiccio. «Se rischia di saltare la base, via di corsa.»
«Ma―»
«Muoviti!»
La figura scarna si contrasse per evitare un colpo e sgusciò via, farfugliando con alcune chiavi pesanti.
Ne ficcò una nella porta della casupola serrata, sollevò una spranga, ne scostò un’altra e finalmente aprì la porta. Gli altri due l’avevano raggiunto, fregandosi le mani.
«Hey… dici che possiamo divertirci, già che non c’è il signor Tsukasa?» suggerì l’uomo da cassetta.
«Scordatelo. La merce dev’essere intatta.»
«Oh, che miserabile che sei.»
Kenji sentì il sangue ribollirgli nelle vene.
«Il signor Tsukasa non s’è fatto vedere fino a ieri, se lo sapevo mi regolavo prima!»
«Taci.» L’omone si rivolse al piccoletto sghembo, mollandogli un calcio: «Allora, ce la fai? Levati dai piedi, le tiro fuori tutte di persona!»
Entrò nella baracca e, pochi istanti dopo, una ragazza che avrà avuto sì e no l’età di Kenji sbatté in terra, con un’esclamazione di dolore.
«In piedi! Su quel carro. E voi altre, uguale!»
In men che non si dica dalla baracca uscì una decina di ragazzine ― mistero come avessero potuto stare là dentro ― e il gigante chiuse la porta con un tonfo che le fece sobbalzare dalla prima all’ultima.
Dalla sua posizione, Kenji continuò a scrutare la casupola, allarmato.
Shinta? Dov’era Shinta? Non lo vedeva.
C’erano solo ragazze.
E di tutti i generi, notò, di tutte le condizioni: dalla povera contadina alla signorina in bel kimono, forse sorpresa un attimo fuori del giardino di casa. Erano sporche, pallide e attruppate le une sulle altre. Si muovevano in simbiosi, senza staccarsi.
Presto anche quella che era stata buttata avanti si riunì al gruppo, fissando gli aguzzini con occhi sbarrati.
«Ho detto dentro al carro!» ruggì il ciclope.
Kenji strinse le palpebre.
L’uomo dovette percepire il suo odio, perché esitò e si guardò intorno.
O no? No…
Stava studiando le ragazze.
Avanzò, deciso. «Ferme. Voltatevi.»
Che cosa stava complottando?
Le prigioniere impietrirono e obbedirono con muto terrore, sempre strette tra loro.
«Mettetevi in fila.»
Quello sembrò terrorizzarle oltre ogni dire. Si guardarono, chiudendosi semmai più a riccio.
«Che cosa nascondete?»
«N-niente, signore» osò balbettare una. «Abbiamo solo freddo.»
«Allora mettetevi in fila, che problema c’è?»
Altri sguardi sgomenti.
Kenji scattò in piedi, colto da uno strano presentimento.
Senza ulteriori avvertimenti l’omaccione balzò e, tolte di mezzo quattro, cinque ragazze con un unico pugno, giunse al centro del gruppo, affondandovi la mano.
E si bloccò.
«E questo cos’è?»
L’attimo dopo sollevava Shinta per una caviglia, tenendoselo davanti al naso, accompagnato dall’urlo angosciante del bambino.
Kenji non ci vide più.
Bastardi.
Li avrebbe ammazzati tutti. Non meritavano che la morte!
Trovato col piede il bordo del picco d’osservazione, si buttò e piombò loro addosso con un ruggito.

Non si fermò finché i tre uomini non furono irriconoscibili, un ammasso di stracci e carne contusa.
Poi s’appoggiò alla sakabato, lasciandola affondare nel terriccio e premendosi una mano contro il fianco. Aveva vinto, ma era stato imprudente.
Aveva dimenticato il ghiaccio, il fango. E quelli, dopo avergli lasciato abbattere lo smilzo e il mulattiere, s’eran vendicati portandogli via il terreno sotto i piedi.
Un momento, un lampo e un altro tipo di ghiaccio gli entrava nella carne.
Staccò lentamente la mano dal fianco sinistro, aprendo piano i lembi del gi per giudicare la ferita. Uh. Non era un esperto ― forse Sozou avrebbe potuto dare un parere più attendibile ― ma non aveva comunque un bell’aspetto; sanguinava come una dannata.
E faceva un male cane.
«Uh» ringhiò, applicando pressione.
Tra i ciuffi di capelli osservò di sbercio gli avversari. Deglutì.
Certo loro stavano peggio.
Ma se l’erano meritato. Sì, se l’erano…
«Hic… sob.»
Alzò la testa di scatto e vide suo fratello, di nuovo attorniato dalle ragazze, stretto fra loro, lanciato in un pianto isterico. Più tardi, ragionando a mente fredda, avrebbe provato gratitudine per loro: l’avevano protetto e isolato da quella situazione disgustosa. Ma adesso voleva suo fratello.
Vicino, senza discussioni.
Strinse i denti e le raggiunse.
«Datemelo qui.» Loro gridarono, spaventate dalla sua spada gocciolante. «Datemelo!» urlò.
Shinta lo riconobbe.
«K-k-kenji-chaan!» strillò. Si districò dalle braccia che tentavano di trattenerlo, saltò e gli fu addosso, finalmente al sicuro.
Kenji barcollò e cadde, emettendo un gemito gutturale.
Ma non protestò, anzi. Lo tenne stretto e riprese fiato, gli occhi chiusi, la spada caduta a terra.
«Shinta.»
«Kenji-chan, Kenjii―»
Era lì.
Aveva saputo della sua scomparsa per poco, ma era stato ugualmente un delirio.
Adesso era finita.
Dèi, grazie.
Stava bene.
Pian piano, però, il sollievo di riavere suo fratello si smorzò e il ragazzo ebbe la mente abbastanza libera da capire che quello non era il momento di distrarsi. Dovevano lasciare quel posto.
Si raddrizzò con qualche difficoltà, si tolse Shinta di dosso (permettendogli però di attaccarsi a una manica, pena la ripresa delle grida strazianti), poi recuperò la sakabato e strinse i denti per non lamentarsi della ferita.
Infine guardò le altre vittime.
Lo fissavano, tremanti.
«In piedi, andiamo. Dobbiamo scappare.»
I loro guardi passarono dalla diffidenza all’incertezza.
«Dove?»
«Beh, via da qui! Questi» accennò ai corpi dei rapitori, senza guardarli «non erano gli unici, no? Li ho sentiti parlare.»
«Sì» pigolò una bambinetta «c’era un altro uomo cattivo ieri, e non da solo.»
«Allora muovetevi.»
Controllò che si alzassero tutte, poi fece dietrofront, scavalcò alcune assi e colse un barlume nel cerchio del bivacco.
Un’idea.
Poco dopo s’addentravano di buon passo nel bosco, diretti alla città, lasciandosi alle spalle le fiamme che consumavano i resti puzzolenti di quell’inferno.

Kenshin e Hiko arrivarono sul posto quando le fiamme s’erano già spente, soffocate dall’umidità. Erano riuscite a bruciare una delle due baracche, sfondandone il tetto; l’altra era solo annerita dalla fuliggine.
Kenshin s’avvicinò senza tante precauzioni, troppo smanioso di scoprire la verità, e vide che non erano stati i primi ad accorrere: Aoshi e Misao aspettavano al centro della piccola conca, vicino a quelli che parevano…
Tre corpi.
Schizzati di sangue.
Dovette rallentare, raggelato. Non poteva essere quello che pensava.
Fa che non sia stato lui, pregò, assordato dal silenzio.
«Non c’è più nessuno» furono le parole con cui Aoshi lo salutò. «E hanno cercato di bruciare tutto.»
Dall’altro versante del monte, ovvero dalla sommità, comparvero le sagome di Sanosuke e della signora Omasu, anche loro di corsa.
«Cos’è successo?!»
«Abbiamo visto il fumo!»
«Erano segnali?»
«No» rispose Misao. «Siamo stati battuti sul tempo.»
Kenshin non notò il vecchio maestro abbandonare il suo fianco, perlustrare e scartabellare fra i resti dell’accampamento. No, lui vedeva solo i corpi deformati dei tre uomini. Tre criminali, si rammentò. E la sciarpa verde di suo figlio, caduta in un angolo…
Ma non poteva credere che l’avesse fatto davvero. S’avvicinò con circospezione, cercando segni di vita.
C’era qualcosa di familiare, oltre all’odore di sangue?
La scena rimase muta finché Hiko non sedette su un sasso, dando un’ultima occhiata al campo di battaglia.
«Sì, è stato lui.»
«Lui chi?» fece Misao, dubbiosa. Aoshi strinse gli occhi.
«Il mio allievo, chi altro? Questi segni» Hiko indicò lunghe strisce di ciottoli spostati e fango schizzato, lasciate un po’ dappertutto. Kenshin le considerò a sua volta. «Li lascia solo l’Hiten Mitsurugi, coi suoi movimenti veloci. E il risultato…»
Tutti gli occhi conversero sui cadaveri.
«Li ha ammazzati?» esclamò Sanosuke, sbigottito.
Quelle parole sembrarono sigillare con un solo sparo la sorte di quegli uomini, di Kenji e della sua famiglia.

Kenji posò i piedi sul pavimentato cittadino con una sensazione molto simile al sollievo. Solo che non ebbe modo di apprezzarla.
Digrignò i denti e strinse più forte il fianco sinistro, dove la stoffa gli si stava incollando alla pelle. Per fortuna il suo gi era nero ― non poteva rendersi conto appieno del macello che doveva essere il suo corpo. Uno svenimento mancato.
Forse.
«Stammi vicino» disse a Shinta.
Il bambino non se lo fece ripetere.
Ringuainata con impaccio la spada, Kenji barcollò e torse il collo per ispezionare le ragazze che aveva salvato insieme al fratello. Stavano a debita distanza, ma non lontane, e apparentemente incollate tra loro col mastice.
«Allora, volete muovervi?»
Una (che lo superava di una buona spanna) avanzò timidamente mostrando un pezzo di tessuto a fiori.
Lui lo studiò, perplesso.
«Che è?»
La brunetta abbassò gli occhi.
«Sei ferito» balbettò lei. «Questa è la stoffa più pulita che abbiamo, lasciati―»
«Non c’è tempo» rispose.
«Ma stai perdendo tanto sangue!»
Non aveva tutti i torti. Il fianco gli doleva in modo sordo, mentre la sua testa fluttuava.
Scontroso, sedette su una catasta di legna e si lasciò avvicinare. Le mani della ragazza spostarono la stoffa del suo gi e gli sfiorarono il torso, realizzando con pochi, esperti giri una fasciatura d’emergenza. Kenji arrossì, incerto sulle proprie reazioni. Non gli piaceva quella vicinanza. Lo faceva sentire vulnerabile.
Attese con impazienza.
«Finito?» esclamò alla fine, scostandola e richiudendosi il gi.
Lei arretrò e il ragazzo si sentì un verme.
«Grazie» bofonchiò, raccogliendo Shinta da terra. «Ngr.»
La ragazza corrugò la fronte.
«Oh, non dovresti sforzar―»
«Fatti gli affari tuoi. Avanti, entriamo. Conosco un posto dove possiamo riposarci.»
Imboccò l’entrata est, notando gli sguardi incuriositi dei pochi cittadini (ma perché quel deserto? Di solito la città era piena di vita a quell’ora) e nel prendere la direzione dell’Aoiya scelse una strada secondaria.
Al secondo bivio camminare era faticoso.
Al terzo barcollava.
Che strano.
Ora che l’energia della ricerca e dello scontro l’avevano abbandonato, si sentiva svuotato. Shinta gli riposava in braccio, poggiando la testolina sulla sua spalla; piccole mani stringevano forte il suo colletto nero, accompagnate da mormorii sconclusionati. Scostò di lato la testa per evitare di starnutire nei suoi capelli.
Non avrebbe permesso che gli succedesse altro. Stava bene… ma sarebbe tornato come prima? Oppure la cicatrice degli allucinanti giorni di prigionia l’avrebbe cambiato per sempre?
Rivide il covo, buio e squallido. Risentì le parole di quei bastardi.
Perse l’equilibrio ma, prima di cadere, fu sostenuto delicatamente.
«Ti aiutiamo.»
Chi erano? Dov’era? Pensare stava diventando difficile.
Ah sì, ah sì. All’Aoiya, lì doveva andare. Ma l’immagine della gola dove aveva combattuto si faceva avanti, prepotente e inspiegabile. C’era qualcosa che richiedeva la sua attenzione. Ma perché  proprio adesso?
Ah, perché… all’improvviso non ricordava nemmeno quale lato della spada avesse usato. Quale aveva usato? E perché stava pensando a questo?
Quante volte li aveva colpiti?
Dove?
Era suo, vero, il sangue che aveva versato nel bosco? Non poteva averli uccisi.
Kenji sgranò gli occhi, cercando di distinguere fra contorni ondeggianti.
Eppure non ricordava. Con proterva sincerità, l’affievolirsi dell’euforia gli concesse una visione molto più limpida di quanto non avesse prima. Li aveva guardati prima di andarsene? No. Avevano parlato, emesso qualche suono?  Il volto di suo padre, cupo e foriero di sventura, si sovrappose all’immagine degli sconfitti riportando timori repressi.
No. Non l’aveva fatto. Non avrebbe mai ucciso un’altra persona, per quanto miserabile… neanche se…  perché l’Hiten Mitsurugi―
Ma non ne era sicuro.
L’orrore di quel tremendo dubbio fece beccheggiare il suo corpo come una nave sperduta nella tempesta, finché un’ondata non l’abbatté rovinosamente sugli scogli, spezzandola. Il terreno tremava. La sua bocca era amara e gli dolevano gli occhi.
Che cosa ho fatto?
L’hai fatto.
Aveva tolto la vita.
Nel delirio dell’anemia, ne ebbe la certezza.
Suo padre aveva ragione: alla fine era diventato un assassino. E non avrebbe mai più avuto il coraggio di guardarlo negli occhi.

Sì, non respiravano. Non si muovevano.
Erano morti. Alla fine, tutti gli incubi peggiori di Kenshin prendevano vita.
Dèi… perché?
«No.»
Tutti fissarono Aoshi, che aveva parlato con fermezza.
Hiko si teneva per i ginocchi, facendo evidentemente uno sforzo per non gemere.
«La vita casalinga ti ha davvero rimbambito, Kenshin. Smetti di aspettare che tuo figlio diventi un omicida e guarda bene. Sono vivi.» Senza lasciare la sua postazione, sollevò col piede un’asse marcita rivelando impugnatura e lama di una spada spezzata. «Ha usato una spada a lama invertita. Non sarebbe riuscito a spezzare questa, senza.»
Ma dove poteva averla presa?
«E, porca vacca, scommetto quel che volete che ha rovinato una delle mie.»
«Himura, con tutti i decessi che hai visto dovresti riconoscere i morti, ormai» commentò Aoshi, asciutto, ignorando Hiko.
Poi inserì un piede sotto il busto di uno dei rapitori e lo rivoltò senza tanti complimenti, strappandogli un vagito.
Lo stesso fecero gli altri, calciati senza pietà da Misao e Sano.
Kenshin barcollò. Avrebbe voluto ridere e piangere e prendersi a schiaffi insieme ― perché lui continuava a dubitare e Kenji continuava a dimostrargli che non ne aveva ragione, ancora e ancora, rimanendo un po’ più ferito ogni volta…
Ferito.
Tornò a concentrarsi sul sangue che macchiava la scena, e che all’inizio aveva creduto quello di un massacro. Visti da vicino, gli sconfitti mostravano solo ematomi e tagli superficiali, alcuni addirittura vecchi, non dovuti alla recente battaglia.
In lui si fece strada un brutto presentimento.
«Ma allora, questo sangue―»
Nel fango smosso, confuso d’impronte, colse un cratere più profondo. Lì c’era una macchia più larga.
Poi, dai pressi del bivacco partiva una serie d’impronte dirette a valle. Alcune erano più infossate, accompagnate da uno stillicidio scuro.
«Kenji.»
«Non è detto» commentò Hiko. «Ma è probabile.»
Kenshin chiuse gli occhi per superare la vertigine, ben piantato sulle gambe.
Dannazione, avrebbe dovuto mangiare di più.
«Shinta. Voglio sapere dov’è Shinta.»
«Beh, se è con Kenji possiamo stare tranquilli, no?» disse Misao, estraendo una lunga, ruvida corda dalla sacca che portava in spalla e cominciando a legar le mani di un criminale.
«Per niente. Non è possibile che fossero solo tre.»
«Kenshin ha ragione» dichiarò Sano.
Aoshi annuì, facendo un cenno ad Omasu.
«I nostri ne hanno visti almeno sei, uno con una vanga sulla schiena. Dev’essere il capo.»
Kenshin corrugò la fronte.
«Una vanga?»
«Sono contadini?» aggiunse Sano, confuso.
Le labbra dell’okashira s’incurvarono, sprezzanti. «Per favore. Voi girate con le spade alla cintura?»
«L’ha camuffata» intuì Kenshin, percependo una nuova tensione.
«Ma quale arma potrebbe passare per una vanga, gente?!»
Il suo sguardo incrociò quello di Hiko. «Non ti viene in mente niente?» fece il maestro.
Strinse le mascelle fino a sentir stridere i denti. «Una nagamaki.»
«Una che?» fece Sano.
«Oltre due braccia. Lama dritta, lunga. Affondo diretto e falciata» recitò Aoshi, impassibile.
«Come il mio zanbato?»
«Molto più maneggevole.»
«Merda.»
Kenshin guardò l’okashira, ricambiato.
«Andate» disse questi. «Noi restiamo e sistemiamo il posto.»
Annuì, deciso. Non sarebbe riuscito a stare fermo comunque. «Sano.»
«Eccomi!»
«Vengo anch’io» annunciò Hiko. «A prender mia moglie.»
Ma non ve ne fu bisogno. In quel momento, infatti, colsero distintamente il rumore di rami spezzati e spostati, sempre più vicini; si tesero, ognuno mettendo mano alle proprie armi. Invece dei complici dei rapitori, però, dai meandri stopposi e grigiastri della foresta emersero due figure familiari, madide di sudore.
Kenshin sgranò gli occhi.
«Kaoru?»

In quell’istante Kenji s’irrigidì, invaso da una sensazione sgradevole. Come se qualcuno lo osservasse dal buio.
Passò gli occhi sull’antica viuzza, sui muri e i tetti, attirando l’attenzione delle ragazze.
«Cosa…?» sussurrò una.
Si riscosse. «Niente. Ci siamo quasi.»
Shinta si mosse, nascondendogli il visino nel collo. «Kenji-chan.»
«Adesso, Shinta. Fra poco saremo con mamma e papà.»
«Davvero?»
Sì. Anche se io…
Gli ultimi metri furono una tortura, fisica e mentale.
Zoppicando, giunse alla bella porta dell’Aoiya, fece bussare e quasi ruzzolò dentro quando l’uscio s’aprì.
«Nonno Okina» ansimò, incontrando gli occhi sgranati del vecchio. «C’è posto per dei profughi?»
«Santi numi, ragazzo, entra.»

«Okon» fece eco Hiko, compassato.
Il gruppo accolse l’arrivo delle due donne con un silenzio tra l’esterrefatto e il preoccupato. Ormai abituato alle cattive notizie, Kenshin mosse incontro alla moglie.
«Cos’è successo?»
Kaoru saltò il dislivello che portava alla conca e lo raggiunse, trafelata, guardandosi freneticamente attorno. La vide riconoscere i segni di lotta, l’odore di bruciato e i tre corpi esanimi sul greto. Per poi guardarlo, pallida.
«Kenshin, l’hai trovato? Dov’è?»
La prese per le spalle.
«Cos’è successo, Kaoru? Dov’è Inoi?»
«Dov’è Shinta?!» gridò lei, dibattendosi.
Kenshin non rispose, sbalordito. Perché Kaoru si trovava lì? Doveva rimanere all’Aoiya… s’erano accordati così. Si volse verso la signora Okon, ora in piedi accanto agli altri Oniwabanshu; era vestita in uniforme da spia, con pantaloni neri sotto la gonna dall’alto spacco, per tener lontano il freddo.
«Mi dispiace, Himura, ho cercato di fermarla» mormorò lei, dispiaciuta. «Ma quando abbiamo visto il fumo abbiamo temuto il peggio. Tutta la città l’ha notato.»
Già. Il mancato incendio.
«Dov’è mia figlia?»
«A-all’Aoiya, al sicuro.»
Kenshin abbassò gli occhi su Kaoru, che sembrava sull’orlo dell’isteria.
«Hai lasciato Inoi?»
«E’ con Okina. Kenshin, dovevo venire.»
Sospirò, ordinandosi di restare calmo. Non era colpa di Kaoru… capiva cosa provava.
Però fu più forte di lui. La lasciò, risentito e calamitato d’istinto verso la città; proprio sul ciglio della scarpata, dove conducevano le orme prima di sparire. Lei e gli altri lo seguirono.
«Kenji è arrivato prima di noi e ha portato via tutti» spiegò. «Ma i rapitori non erano solo tre.»
«Che cos’è quello?» esclamò Omasu.
Tutti seguirono la direzione da lei indicata. Lontano, un massiccio blocco di persone brulicava nei pressi della porta nord, rendendo difficile il passaggio a quello che aveva tutta l’aria di essere un moderno carro-cisterna.
«Sono i pompieri» rispose Aoshi.
Misao gli prese il binocolo e lo puntò in basso.
«Sì. Devono aver visto il fumo.»
«Ma sono in ritardo» osservò Sanosuke. «E poi come sperano di arrivare fin quassù?»
«Sano, la città di Kyoto ha avuto delle brutte esperienze col fuoco» disse Kenshin. «Non puoi biasimarli se, ancora a distanza di decenni, si impensieriscono. Tanto più che un incendio in tardo autunno è sospetto.»
Prese il binocolo a Misao e iniziò a scorrerlo sulle vie, setacciando una zona nota.
Kaoru lo toccò piano, pallida.
«Che cosa vedi?»
«Niente.»
«Non lo trovi?»
«E’ meglio muoversi.»
La mano di Aoshi comparve nel suo campo visivo e gli spostò leggermente il binocolo.
«Là.»
Incerto, Kenshin guardò nella direzione suggerita.

Kenji sedette sulla veranda, silenzioso, mentre nonno Okina mandava segnali di fumo dal fornello portatile. La piastra emanava un piacevole calore e rendeva il freddo meno pungente; il legno, invece, era gelido.
Lasciò ciondolare la testa, socchiudendo gli occhi.
Gli sembrava d’aver vagato per secoli.
Nonno Okina tornò subito da lui. «Che ci fai ancora qui? Ti avevo detto di entrare, sciocco ragazzo.»
Si sentì prendere sotto le ascelle e sollevare; deglutì. Non s’era reso conto d’essere tanto smorto ― e il vecchio aveva una forza straordinaria per i suoi settanta.
«Ugh.»
Fermi, fermi tutti!
«Nonno!»
C’era un peso attaccato ai suoi hakama ― la stoffa sulla ferita tirava. Shinta strillò. «Kenji, nooo! Vicino!»
Ah, ecco cos’era. Allungò una mano alla cieca, agganciò la testa del fratello e se lo tirò dietro.
«Sono qui.»
Okina sospirò. Raccolse meglio il suo fardello e lo trascinò dentro la locanda, sbuffando come una locomotiva in retromarcia.
«Non state rendendo le cose più semplici, voi due.»
«Posso camminare da solo» bofonchiò Kenji, umiliato.
«Sì, proprio.»
Il vecchio lo mollò con delicata rudezza su un paio di futon, sfiatando dal naso. La sua barba infiocchettata tremò. «Non so come tu ti sia ridotto in questo modo, anche se posso immaginarlo, ma ti assicuro che i tuoi non saranno contenti. Adesso togliti quella roba, ché ti medico.»
Annebbiato, Kenji obbedì.
I suoi genitori. Ah, quando avessero scoperto cos’aveva fatto…
Le mani cominciarono a tremargli.
Okina sparì per un attimo, poi tornò con una grande cassa di legno, due piatti di onigiri e una coperta. Quest’ultima la usò per avvolgerci Shinta, arruffandogli i capelli. Il piccolo si abbassò un poco, timido.
«Lo conosci il nonno Okina, vero? Non c’è da aver paura» disse il vecchio, porgendogli le polpette di riso. «Avrai fame: sono per te.»
Shinta guardò Kenji, poi sorrise e accettò. Kenji piegò leggermente le labbra, rincuorato.
Finì si togliersi il gi e lottò col nodo delle bende, finché nonno Okina non gli scostò le dita, lavorandoci al posto suo.
«Tua madre e tuo padre?»
Avvertì il tessuto staccarsi pian piano dalla pelle, incrostata di sangue. Il dolore lo risvegliò.
«Non sono qui? Mia madre e mia sorella…»
«Tua madre è corsa via al primo segno di fuoco.» La benda venne via, strappando un po’ di pelle. «Seguita da Okon. Speravo le avessi incrociate.»
Kenji strinse i denti.
«E Inoi?»
Ebbe la risposta a spron battuto: mentre il nonno disinfettava la ferita di nuovo sanguinante, un rumore di passi pesanti risalì il corridoio; poi lo shoji si spalancò, lasciando entrare una bambina dai capelli color castagna, scarmigliata e impolverata.
«Nonno! Chi sono quelle―oh.»
I suoi occhi avevano incontrato quelli di Kenji.
«Ciao, Inoi-chan.»
Lei sgranò gli occhi; le tremarono le labbra, deformò la bocca e restò muta. Poi, ripresasi, pestò un piede in terra.
«Con te non ci parlo! Ti odio!»
E uscì, andandosene con passo sdegnato. Il ragazzo abbassò lo sguardo.
«Piccola Inoi, mi chiami Toga, per favore?» le gridò dietro Okina. Una voce lontana assentì.
In quel momento Kenji sentì il fianco bruciargli e guaì, voltandosi verso il vecchio.
«Hey!»
Il nonno stava mettendo via della garza sporca e preparava bende… filo… ago. Con tutto il coraggio e l’incoscienza dei suoi tredici anni, Kenji si sentì sbiancare.
«Eh, no. No nonno, no no.»
«Stai balbettando, ragazzo.»
«Non sto balbettando!»
«Ma guarda. Sei davvero tu quello che è scappato di casa ed è sopravvissuto a Seijuro Hiko?»
«Che c’entra? Non voglio quella roba vicino alla mia pelle.»
Il nonno si fece serio.
«E’ brutta, giovanotto. Se non cucio, non posso assicurarti che tra una settimana sarai ancora tra noi.» Kenji deglutì a vuoto. «Mai ricevuta una ferita d’arma bianca? Sono insidiose, te lo dice un esperto. Scommetto che ora ci vedi quasi doppio.»
Deglutì ancora, poi abbrancò la tazza di tè che fumava sul piattino degli onigiri e bevve per farsi coraggio.
Quando abbassò lo sguardo, il vecchio aveva già cucito metà ferita, rapido e indolore. La tazza gli cadde di mano, mancando Shinta per un pelo.
«Merda!» Il bambino sobbalzò. Kenji corrugò le sopracciglia. «Scusa, Shinta.»
Lui accennò un sorriso, gli occhioni lucidi.
Oh no.
Intanto nonno Okina annodava il filo, lo spezzava coi denti (ugh) e cominciava a fare una nuova fasciatura. Era incredibile come tutti intorno a lui fossero pieni di sorprese. Ogni giorno qualcuno lo stupiva.
Peccato che fosse troppo tardi per pensare prima di agire.
In quell’istante lo shoji s’aprì, mostrando Toga, Inoi (che guardava altrove, scontrosa) e una cameriera, dietro la quale indugiavano le ragazze rapite. Nonno Okina s’alzò, riponendo i medicamenti nella cassa e porgendola al figlio di Omasu.
«Sono tornati?»
Il ragazzetto scosse la testa.
«E Shiro e Kuro?»
«Nemmeno.»
«Ma dove diavolo sono finiti tutti quanti?»
«Al momento non ci sono clienti, nonno. L’ultimo se n’è andato senza pagare.»
Sulla tempia di Okina si gonfiò una vena. «Non farà molta strada, stanne certo. Comunque io parlavo degli Oniwabanshu. Dove sono? Questa è la base, per la miseria, tuo padre e Kuro dovevano star via poco e Okon non doveva neanche andarsene.»
La faccia a spillo del ragazzetto rimase neutra. «Pare che la città sia in allarme per un nuovo incendio.»
«Nuovo?»
«A sud. Qualcuno ha incendiato dei covoni incustoditi. I pompieri e la folla stanno bloccando tutto.»
«E perché non ne ho saputo niente?»
«Perché non è tornato nessuno a dircelo.»
Kenji poté vedere chiaramente l’espressione del vecchio Oniwabanshu: irata.
Faceva paura.
«Sembrerebbe un po’ troppo per una coincidenza. Attirare tutta la gente e l’attenzione all’opposto… del luogo dove ci sono i bambini.» I loro occhi s’incontrarono. «No, hai sentito: non ci sono altri adulti oltre a me, qui. Sarà meglio fare un altro paio di segnali di fumo.»
Un rivolo di sudore colò giù per il collo di Kenji.
«No» disse, la bocca arida. «Non si può.»
Sbirciò in direzione del cortile, rigido. Impossibile. Eppure―
Vide cambiare anche la postura del nonno.
Erano stati seguiti.
   
 
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