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Quattro mesi prima
Con la sua improvvisa scomparsa il mana non si era portato via solo la
maggior parte della tecnologia umana, ma più in generale tutto ciò che gli
Uomini avevano costruito nel corso di mille anni in termini di società, civiltà
e cultura.
Era stato come risvegliarsi da un sogno.
Abituati com’erano ad avere tutto, forti di un
potere che permetteva di avere qualsiasi cosa senza sforzo, trovatisi da un
momento all’altro di fronte all’obbligo di fare affidamento solo sulle loro
forze molti di loro avevano finito per smarrire la retta via, abbandonandosi ai
loro più bassi istinti.
Tutto aveva finito irrimediabilmente per
sgretolarsi, e a quasi due anni dalla caduta di tutte le loro certezze non
sembrava intravedersi alcuna luce all’orizzonte, con brigantaggio, anarchia e
legge del più forte che ancora la facevano da padroni in ampie parti del mondo.
Ma più di ogni altra cosa, come ogni volta, gli
uomini avevano cercato qualcuno da odiare, su cui scaricare le colpe di quanto
stava accadendo, e la valvola di sfogo, come era prevedibile, erano stati
sempre loro: i Norma.
Non che questa distinzione avesse ancora senso: con
la scomparsa di ciò che differenziava gli umani dai supposti subumani, non
sussisteva più alcuna differenza visibile tra umani e Norma, ma le vecchie
tradizioni, malgrado tutto, non volevano saperne di morire.
Sembrava di essere tornati all’età della pietra,
con una specie di follia collettiva in cui bastava un sospetto, un’accusa,
persino una parola in malafede dettata da un qualche sentimento di invidia o
gelosia a provocare vere e proprie catastrofi, con linciaggi violenti e
sommarie esecuzioni.
Non che i Norma, quelli che esistevano già da prima
di quella specie di apocalisse, fossero scomparsi; e anzi, era stato proprio
per questo se la situazione era a tal punto degenerata.
Vessati, perseguitati e ghettizzati per secoli,
molti Norma avevano visto nella scomparsa del mana un’occasione per rifarsi di
tutti i torti subiti, e raggruppatisi in gruppi avevano dato vita a vere e
proprie bande armate che calavano come locuste sugli insediamenti umani,
massacrando e depredando, salvo poi subire talvolta la medesima sorte in un
perverso gioco al massacro che doveva aver già provocato centinaia di migliaia
di morti.
Gli umani uccidevano i Norma, i Norma uccidevano
gli umani, con entrambe le fazioni che come animali rabbiosi dilaniavano sé
stesse cercando improbabili dissidenti, traditori e infiltrati al proprio
interno.
L’Impero di Misurugi, se
possibile, era ridotto anche peggio.
Con una famiglia imperiale decimata e la crisi che
era incominciata proprio entro i suoi confini, le tensioni sociali e l’anarchia
erano esplosi con la potenza di una deflagrazione atomica, e dell’antica,
gloriosa capitale non rimaneva ormai che un ammasso di detriti in rovina, dove
facevano buon gioco prepotenti, predoni e saccheggiatori.
Avventurarsi lì dentro era davvero pericoloso, a
meno che qualcuno non volesse rischiare la vita, così buona parte degli
insediamenti e degli agglomerati venutisi faticosamente a creare in tutto quel
tempo avevano preferito spostarsi in altri luoghi, soprattutto nell’entroterra,
al riparo di foreste, montagne e altre protezioni naturali.
Questo però non impediva alle bande di razziatori
che imperversavano in zona di spadroneggiare a proprio piacimento nella
regione, e a meno di non essere ben equipaggiati era molto difficile riuscire a
proteggere efficacemente le proprie comunità.
Per fortuna non c’era solo chi se ne restava
rinchiuso entro il proprio recinto, preoccupandosi solo di difendere quello che
vi era al suo interno ignorando tutto ciò che invece stava al di fuori.
Una sera, non lontano dalla vecchia strada
imperiale che dalla capitale andava verso le montagne a est, cinque briganti
erano intenti a fare baldoria accanto ad un fuoco, tracannando birra e cantando
a tutta voce mentre facevano soddisfatti l’inventario di quanto ottenuto nel
corso del loro ultimo saccheggio.
Uno di loro, talmente ubriaco da non reggersi in
piedi, si avventurò in mezzo alla bassa boscaglia per urinare, ma come fece per
calarsi i pantaloni un misterioso quanto apparentemente minuto aggressore gli
avvolse una garrotta attorno alla gola, strozzandolo prima che avesse il tempo
di urlare; un istante dopo, i suoi compagni rimasti al campo avvertirono un rumore
inconfondibile alle loro spalle, alzando immediatamente le mani.
«Non fate una mossa, o vi brucio il cervello» disse
una voce, femminile e piacevole, ma in quel momento terribilmente minacciosa.
«Alzatevi lentamente.»
Uno di loro tentò di afferrare il mitra che aveva
accanto, ma una pallottola invalidante in una spalla gli tolse subito i
bollenti spiriti, e allora Il loro capo, un energumeno con la benda a coprirgli
l’occhio sinistro, obbedì all’ordine dell’aggressore, imitato dai suoi
compagni.
Di fronte a sé aveva un pezzo di lamiera che
rifletteva blandamente ciò che vi era davanti; così, quando ebbe occasione di
guardarci dentro, rimase talmente stupito da mettersi a ridere.
«Questo è il colmo!» disse, voltandosi. «Quale
sorpresa. Niente meno che la principessa Sylvia è venuta a farci visita.»
«Non muovere un passo!» ordinò lei seguitando a
tenergli puntata addosso la pistola. «Siete quelli che hanno rapinato i campi
della regione, vero?»
«Possiamo trovare un accordo» rispose calmo il
capo. «Abbiamo fatto su un bel bottino. Potremmo dividerlo tranquillamente, e
ce ne sarebbe abbastanza per soddisfare tutti.»
«Beni rubati. A gente che se li era guadagnati con
il sudore della fronte.»
«Questione di punti di vista. Chi non ha la forza
di tenersi stretta la sua roba, non può stupirsi se qualcuno gliela ruba.»
Sylvia ormai non si stupiva più della bassezza
raggiungibile dai suoi simili; forse perché, in passato, anche lei non era
stata molto diversa da loro.
«È per colpa di quelli come voi che questo mondo
non riesce a risollevarsi.»
«Proprio te parli, fottuta amica dei Norma?» sputò
un altro, e fu solo per un miracolo che Sylvia riuscì a contenere il desiderio
di fargli un buco in fronte
«Lasciate qui tutto quello che avete rubato e
andatevene.»
«Allora, in questo caso, dove sarebbe la differenza
tra te e noi?» domandò provocatorio il capo
«Io non terrò niente per me. È questa la
differenza.»
Imprudentemente, Sylvia si distrasse, e il capo
immediatamente ne approfittò, scagliandole in faccia con un piede un misto di
sabbia, cenere e braci, e accecandola quel tanto che bastava da permettere a
lui e agli altri di recuperare le armi.
Tuttavia non fecero in tempo a crivellarla che
qualcuno, dalla vegetazione, esplose un colpo, lasciando uno di loro a terra
morto con un proiettile dritto nell’orecchio. I suoi compagni a quel punto
spararono, ma ormai Sylvia si era già nascosta dietro un albero e fu lesta a
rispondere, generando una furiosa sparatoria cui si unirono, in breve, una
ragazza castana sui diciott’anni e un giovane uomo,
entrambi con indosso un giubbotto antiproiettile.
I predoni, rifiutandosi di fuggire e abbandonare il
loro carico, si difesero fino all’ultimo uomo, morendo tuttavia uno dopo
l’altro senza riuscire a fare a loro volta alcuna vittima.
Terminato lo scontro, gli animi si distesero.
Prudentemente, Sylvia fece qualche passo avanti,
accertandosi della morte apparente di quasi tutti gli assalitori, e dopo poco
dalla boscaglia circostante giunsero altre due ragazze.
Una delle due, armata di fucile, calzoni larghi
stretti in vita da una cintura e maglietta bianca, sormontata da un giubbotto
antiproiettile, era alta e snella, dal fisico scolpito come quello di
un’atleta, o di un soldato di professione, capelli castani corti e occhi blu,
un po’ più scuri di quelli di Sylvia; l’altra appariva più minuta, ma non per
questo meno atletica, lunghi capelli scuri raccolti in una coda e occhi verdi,
e vestiva in modo molto meno mascolino, forse persino troppo femminile dato il
luogo, il che accresceva la gentilezza della sua figura.
«Complimenti per la mira, Ashley» disse Sylvia
rinfoderando la pistola. «Allora è vero quello che ho sentito dire sulle Norma
di Arzenal.»
«Al confronto dei draghi contro cui ho combattuto,
questi sono solo feccia.» sputò a terra la castana.
Sylvia si guardò attorno, notando la grande
quantità di vettovaglie accatastate attorno al campo.
«Al solito» sospirò. «Cibo, armi e munizioni.»
La ragazza scura si avvicinò ad una delle casse per
ispezionarla, quando all’improvviso il capo, rimasto ferito di striscio, si
alzò di colpo, afferrandola e puntandole velocemente un coltello alla gola.
«Ferme!» ordinò prima che Sylvia ed Ashley
potessero alzare i fucili. «Gettate le armi! Subito! O giuro che le taglio la gola!»
Le due ragazze si guardarono, quindi, ringhiando,
obbedirono, liberandosi sia delle armi da fuoco che dei coltelli alla cintura.
«Lo immaginavo» rise. «Questo è il problema di voi
puttane amiche dei poveracci. Non potete fare a meno di difendervi tra di voi.»
«Davvero?» sentì dire in quella da una voce cupa,
quasi spaventosa. «Cosa ti fa pensare che io debba essere difesa?»
Da un istante all’altro la ragazza si liberò della
stretta, ed afferrato saldamente il braccio dell’uomo con un solo colpo gli slogò
tutte e tre le articolazioni; quindi, mentre quello ancora urlava, gli arrivò
alle spalle, e con uno scatto deciso gli girò la testa di centottanta gradi,
lasciandolo morto prima ancora che avesse il tempo di urlare.
Quindi, accertatasi che fosse morto, si inginocchiò
davanti al corpo, giunse le mani in preghiera e mormorò alcune parole, versando
anche alcune lacrime.
«Un giorno o l’altro dovrai spiegarmi come fai, Mayu» sorrise Ashley. «Saresti capace di spaccare il culo
perfino a quella bagascia di Elektra.»
«Contieni questo tuo linguaggio colorito, Ashley.
Abbi rispetto per i morti.»
«Secondo te questi hanno avuto rispetto quando
hanno rapinato, stuprato e ucciso centinaia di persone?»
«Ha ragione lei, Ashley» rispose invece Sylvia. «Se
ci mettiamo ad uccidere anche noi in maniera indiscriminata, non saremmo
migliori di loro.»
In quella, un rantolo sofferente attirò la loro
attenzione; il primo bandito ad essere stato ferito era ancora vivo, e cercava
faticosamente di allontanarsi strisciando sul terreno.
Con due passo Sylvia gli fu appresso, e giratolo
gli puntò la pistola drizza in mezzo agli occhi.
«Ti prego, non uccidermi!» supplicò quello
facendosela letteralmente addosso
«A chi avete rubato tutto questo equipaggiamento?»
«Noi… noi non abbiamo
rubato niente! Quando siamo arrivati noi il villaggio era deserto!»
«Di che villaggio parli?» chiese Ashley
«Dolkin! Il villaggio di Dolkin. Era orrendo. Qualcuno… o
qualcosa aveva spazzato via tutto. C’erano morti ovunque. Abbiamo preso quello
che potevamo e siamo scappati di corsa.
Vi giuro che è la verità.»
Sylvia lo guardò negli occhi, saggiandone la paura;
quindi, riposta l’arma, tolse lo scarpone dal suo petto permettendogli di
alzarsi.
«Hai dieci secondi per sparire. Se ti pesco di nuovo
in questa regione la prossima volta mirerò con più attenzione.»
Senza farselo ripetere quel poveretto scappò via
più veloce della luce, e le tre ragazze, caricatesi ognuna di quanto potevano
portare, tornarono verso la strada, dove trovarono ad attenderle un imponente
quanto minaccioso mezzo di trasporto.
Sembrava un incrocio tra un autocarro e un veicolo da combattimento; poggiato su tre
diverse coppie di pneumatici, ognuno dei quali era spesso quasi il doppio
rispetto ad una ruota normale, era protetto in ogni direzione da un pesante rivestimento
corazzato, tanto spesso che probabilmente neanche un missile anticarro sarebbe
stato in grado di bucarlo.
Se l’apparato difensivo era di prim’ordine,
l’armamento faceva perfino paura: tra feritoie adatte a sparare dall’interno,
generatori di fumo, e soprattutto una coppia di mitragliatrici a canne rotanti,
una a prua ed una a poppa, posizionate su torrette ruotabili a trecentosessanta
gradi, ed una terza torretta che ospitava otto razzi terra-aria, quella specie
di mostro sarebbe stato capace di entrare indisturbato in qualunque fortezza,
anche la più difesa.
Innumerevoli luci di posizione e fari per fendere
anche l’oscurità più nera completavano il tutto.
Sul muso, decorato con motivi floreali, campeggiava
un graffito psichedelico in vernice giallo oro: Bulldog.
«Comoda Ruka, comoda!»
imprecò Ashley all’indirizzo della giovane ragazza castana che masticava
tranquillamente una gomma con la schiena poggiata alla carrozzeria blindata e
una rivista d’auto in mano. «Tanto qui non c’è niente da fare!»
«Siamo di cattivo umore oggi. Posso suggerire una
buona tazza di te?»
«Piantala Ruka, oggi non
è proprio giornata» intervenne Sylvia caricando le due casse che portava con sé
nel vano posteriore
«Niente male come caccia.» osservò Luca
«E non immagini neanche cosa c’è in quel campo.
Domani manderemo un furgone a recuperare tutto. Per ora portiamo con noi
questo.»
«Agli ordini, capo.»
Terminato il lavoro le quattro ragazze si
ritrovarono all’interno del vano posteriore del veicolo, arredato come un
camper e provvisto di ogni comfort, tra cui un ampio tavolo da pranzo sul quale
venne srotolata una cartina della regione.
«Hanno detto di aver preso tutto questo materiale
dal villaggio di Dolkin» disse Sylvia indicando l’insediamento,
il cui nome era vergato a penna. «Ma hanno anche detto che quando sono arrivati
lo hanno trovato già assalito e distrutto.»
«Quindi» ipotizzò Mayu.
«Potrebbe esserci un’altra banda che saccheggia gli insediamenti in questa
zona?»
«Se il racconto di quell’avanzo di galera è vero,
temo non si tratti solo di questo.»
«Ha ragione» disse Ashley «Quale razziatore
assalterebbe un villaggio senza rubare niente?»
Sylvia alzò lo sguardo verso Ruka.
«Quanto ci vorrebbe per arrivare a Dolkin?»
«Con il bulldog, direi circa due ore.»
Le quattro si consultarono con gli occhi tra di
loro, annuendo.
«Andiamo, allora.»
Dolkin esisteva già da prima dell’Apocalisse,
come era stato soprannominato il giorno in cui il Mana era scomparso, e di
tutti i villaggi della regione era sicuramente uno dei più difesi, con le sue
mura di fortuna, ma comunque efficaci, fatte di rottami e detriti vari, le sue
torrette d’avvistamento e le sue armi pesanti.
Vi si arrivava attraverso una strada stretta e
tortuosa, volutamente alterata per impedire gli assalti rapidi ed improvvisi,
ed il bulldog, che non brillava certo per agilità, ebbe a sua volta parecchi
problemi per raggiungere l’abitato.
Sylvia e le sue compagne, illuminando con i fari i
bastioni del villaggio, non furono sorprese di trovarne l’accesso sfondato, ma
quando, lentamente, il loro mezzo varcò il portone, il terrore si materializzò
nei loro occhi.
In quegli anni tutte e quattro ne avevano viste di
cose orribili, ma quello che restava di Dolkin andava
al di là di ogni immaginazione.
Ovunque era distruzione e morte.
Gli incendi, ormai spenti, avevano distrutto quasi
tutto, tramutando le case di legno e pietra in ammassi decadenti di macerie, e
l’aria, su cui aleggiava un terrificante silenzio, puzzava di morte.
Il fuoco si era accanito persino sui cadaveri, e
quei pochi che non erano ancora stati bruciati fino alle ossa apparivano a tal
punto dilaniati da risultare irriconoscibili.
Le quattro ragazze dovettero farsi forza per non
distogliere lo sguardo, e quando, armate fino ai denti, scesero dal blindato, l’odore
era tale che solo per miracolo riuscirono a non vomitare.
«Oh, mio Dio.» riuscì a mormorare Ruka
Non era possibile.
Non era umano.
Chi poteva avere mai concepito una tale
mostruosità? A che punto poteva arrivare la follia umana così lungamente
repressa dal condizionamento di Embryo?
Sylvia strinse più forte le mani attorno al fucile,
sforzandosi di contenere la rabbia che portava dentro.
«Controlliamo in giro. Vediamo se riusciamo a
capire cos’è successo qui.»
«Giuro che appena trovo il responsabile gli sfondo
il culo.» imprecò Ashley allontanandosi verso il vecchio municipio assieme a Mayu
Sylvia e Ruka invece si
avviarono lungo una delle stradine che uscivano dalla piazza, ma bastarono
pochi minuti di ispezione per rendersi conto che lì dentro non c’era più
niente, ma soprattutto nessuno, da salvare.
Chiunque fosse stato, aveva fatto molta attenzione
a coprire le sue tracce, oltre a non lasciare superstiti; anche a questo era
servito il fuoco.
Eppure, ogni spiffero, ogni sibilo, ogni minimo
movimento era per le due ragazze come un allarme, ed i nervi di entrambe erano
a fior di pelle.
Sylvia si chinò, raccogliendo dal terreno coperto
di fango e di cenere un giocattolo di legno, talmente distrutto che nel
sollevarlo questo le si distrusse tra le mani. Lì accanto, supino, un corpo
carbonizzato, e dalle dimensioni non era difficile intuire doversi trattare del
proprietario del gioco.
«Bastardi.» ringhiò
«Ehi, guarda» disse Ruka
indicando la pesante porta, apparentemente sprangata, di un seminterrato dall’altra
parte della strada. «Forse lì c’è ancora qualcosa di utile.»
In quel momento la ricerca di provvigioni era l’ultimo
dei pensieri di Sylvia, ma ciò nonostante la ragazza volle comunque controllare
cosa vi era lì dentro, e assieme alla sua compagna discese lungo la ripida
scala in cemento.
Dinnanzi alla porta vi era un altro corpo,
ugualmente carbonizzato e irriconoscibile; probabilmente quella poveretta, perché
di una donna doveva trattarsi, aveva cercato disperatamente di salvarsi
entrando lì dentro, salvo trovare un catenaccio a chiuderne il battente vedendo
segnato il suo destino.
Per potersi liberare del lucchetto Sylvia fu
costretta a ricorrere ad una scarica di pallottole, e ci volle la forza di
entrambe per riuscire ad aprire il pesante portone, parzialmente fuso e
distorto dalle fiamme.
Sembrava un vecchio magazzino, basso e spazioso, con
file di casse accatastate a formare quasi un labirinto; le luci, alimentate
come il resto da un generatore a carburante, funzionavano ancora, ma erano
quasi tute difettose, producendo una luce ad intermittenza che aveva il solo
effetto di creare sinistri giochi di ombre che accrescevano ulteriormente le
tensione.
Nel silenzio, Sylvia e Ruka
si addentrarono nello stanzone, il terreno umido che scricchiolava sotto i loro
scarponi, le dita sul grilletto pronte a sparare.
D’un tratto, guardandosi attorno, Sylvia ebbe l’impressione
di notare qualcosa, come un movimento nel buio. Dapprincipio pensò ad un’impressione,
ma poi sia lei che la sua compagna udirono inconfondibili rumori di passi.
«Chi và là?» disse, certa di aver visto qualcosa
muoversi
Chiunque fosse lì con loro non rispose, continuando
a correre senza apparente senso in ogni direzione, e mentre Ruka
tornava velocemente verso la porta bloccando quell’uscita Sylvia si mise sulle
tracce del fuggitivo, il quale, comprendendo di essere in trappola, smise
apparentemente di muoversi.
La ragazza continuò a camminare, in silenzio,
saggiando ogni passo, fino a che un respiro affannoso ma sterile, forzatamente
represso, raggiunse le sue orecchie.
Voltato un angolo, si ritrovò di fronte,
rannicchiata a terra, una ragazzina a prima vista poco più giovane di lei,
undici o dodici anni al massimo, i lunghi capelli rosso vino bagnati e
spettinati, l’espressione allo stesso tempo assente e terrorizzata e i vestiti
strappati; era anche ferita, ma erano perlopiù graffi e lividi non
particolarmente seri.
«Non aver paura» disse rinfoderando la pistola.
«Non voglio farti del male.»
Quella sembrò quasi non essersi accorta di lei,
seguitando a guardare in basso come intontita, e allora Sylvia si avvicinò con
garbo, cercando di non spaventarla ulteriormente.
«Stai bene? Chi vi ha fatto questo?»
«Li hanno mangiati» mormorò lei. «Hanno bevuto i
loro organi.»
«Di che stai parlando? Che cosa è successo qui?»
Ma lei, ancora, non rispose, rannicchiandosi ancora
di più, e allora Sylvia la strinse a sé cercando di confortarla.
«Tranquilla. Ora sei al sicuro.»
Nota dell’Autore
Eccomi qua!^_^
Ci ho messo un po’ a
postare questo primo capitolo, ma quella da cui sono appena uscito è stata una
settimana di fuoco, e poi ho voluto togliermi di torno altri progetti che stavo
portando avanti.
Ad ogni modo, eccoci qua.
Come si sarà capito,
la battaglia del prologo non era altro che l’incipit di quella che in realtà
sarà la seconda metà della storia.
Fino ad allora, la
vicenda si svolgerà interamente dal punto di vista di Sylvia, il che significa
che tutti i personaggi principali della serie, con qualche eccezione, almeno
per ora saranno assenti.
Ma non abbiate paura,
verrà anche il loro momento.
Quello che avete
potuto vedere in cima è una locandina speciale che ho voluto creare per questa
storia.
Spero che vi piaccia.
Grazie a Taiga per la
sua recensione.
A presto!^_^
Carlos Olivera