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Autore: Carlos Olivera    11/04/2015    2 recensioni
Dimmi una cosa, principessa Angelise.
Tu sei davvero sicura di aver portato a termine Libertus? Di aver salvato i Norma? Hai condannato i Norma di questa Terra ad estinguersi poco a poco, e abbandonato quelli dell'Altra Terra in balia di una guerra senza fine con gli esseri umani che innalza tuttora montagne di corpi. E ora, in nome del finto ideale di un mondo non tuo, ti frapponi tra noi e l'unica cosa che potrebbe evitare la scomparsa di quel mondo che hai abbandonato, e del quale sembra non importarti più nulla; il mondo dei Norma. Il tuo mondo.
Tu non hai liberato proprio nessuno. Hai fatto quello che ho fatto anch'io.
Hai fallito. In tutto

Sequel di Cross Ange - Il Rondo di Angeli e Draghi, di Mitsuo Fukuda
Genere: Drammatico, Fantasy, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yuri | Personaggi: Ange, Nuovo personaggio, Silvya
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Quattro mesi prima

 

Con la sua improvvisa scomparsa il mana non si era portato via solo la maggior parte della tecnologia umana, ma più in generale tutto ciò che gli Uomini avevano costruito nel corso di mille anni in termini di società, civiltà e cultura.

Era stato come risvegliarsi da un sogno.

Abituati com’erano ad avere tutto, forti di un potere che permetteva di avere qualsiasi cosa senza sforzo, trovatisi da un momento all’altro di fronte all’obbligo di fare affidamento solo sulle loro forze molti di loro avevano finito per smarrire la retta via, abbandonandosi ai loro più bassi istinti.

Tutto aveva finito irrimediabilmente per sgretolarsi, e a quasi due anni dalla caduta di tutte le loro certezze non sembrava intravedersi alcuna luce all’orizzonte, con brigantaggio, anarchia e legge del più forte che ancora la facevano da padroni in ampie parti del mondo.

Ma più di ogni altra cosa, come ogni volta, gli uomini avevano cercato qualcuno da odiare, su cui scaricare le colpe di quanto stava accadendo, e la valvola di sfogo, come era prevedibile, erano stati sempre loro: i Norma.

Non che questa distinzione avesse ancora senso: con la scomparsa di ciò che differenziava gli umani dai supposti subumani, non sussisteva più alcuna differenza visibile tra umani e Norma, ma le vecchie tradizioni, malgrado tutto, non volevano saperne di morire.

Sembrava di essere tornati all’età della pietra, con una specie di follia collettiva in cui bastava un sospetto, un’accusa, persino una parola in malafede dettata da un qualche sentimento di invidia o gelosia a provocare vere e proprie catastrofi, con linciaggi violenti e sommarie esecuzioni.

Non che i Norma, quelli che esistevano già da prima di quella specie di apocalisse, fossero scomparsi; e anzi, era stato proprio per questo se la situazione era a tal punto degenerata.

Vessati, perseguitati e ghettizzati per secoli, molti Norma avevano visto nella scomparsa del mana un’occasione per rifarsi di tutti i torti subiti, e raggruppatisi in gruppi avevano dato vita a vere e proprie bande armate che calavano come locuste sugli insediamenti umani, massacrando e depredando, salvo poi subire talvolta la medesima sorte in un perverso gioco al massacro che doveva aver già provocato centinaia di migliaia di morti.

Gli umani uccidevano i Norma, i Norma uccidevano gli umani, con entrambe le fazioni che come animali rabbiosi dilaniavano sé stesse cercando improbabili dissidenti, traditori e infiltrati al proprio interno.

L’Impero di Misurugi, se possibile, era ridotto anche peggio.

Con una famiglia imperiale decimata e la crisi che era incominciata proprio entro i suoi confini, le tensioni sociali e l’anarchia erano esplosi con la potenza di una deflagrazione atomica, e dell’antica, gloriosa capitale non rimaneva ormai che un ammasso di detriti in rovina, dove facevano buon gioco prepotenti, predoni e saccheggiatori.

Avventurarsi lì dentro era davvero pericoloso, a meno che qualcuno non volesse rischiare la vita, così buona parte degli insediamenti e degli agglomerati venutisi faticosamente a creare in tutto quel tempo avevano preferito spostarsi in altri luoghi, soprattutto nell’entroterra, al riparo di foreste, montagne e altre protezioni naturali.

Questo però non impediva alle bande di razziatori che imperversavano in zona di spadroneggiare a proprio piacimento nella regione, e a meno di non essere ben equipaggiati era molto difficile riuscire a proteggere efficacemente le proprie comunità.

Per fortuna non c’era solo chi se ne restava rinchiuso entro il proprio recinto, preoccupandosi solo di difendere quello che vi era al suo interno ignorando tutto ciò che invece stava al di fuori.

Una sera, non lontano dalla vecchia strada imperiale che dalla capitale andava verso le montagne a est, cinque briganti erano intenti a fare baldoria accanto ad un fuoco, tracannando birra e cantando a tutta voce mentre facevano soddisfatti l’inventario di quanto ottenuto nel corso del loro ultimo saccheggio.

Uno di loro, talmente ubriaco da non reggersi in piedi, si avventurò in mezzo alla bassa boscaglia per urinare, ma come fece per calarsi i pantaloni un misterioso quanto apparentemente minuto aggressore gli avvolse una garrotta attorno alla gola, strozzandolo prima che avesse il tempo di urlare; un istante dopo, i suoi compagni rimasti al campo avvertirono un rumore inconfondibile alle loro spalle, alzando immediatamente le mani.

«Non fate una mossa, o vi brucio il cervello» disse una voce, femminile e piacevole, ma in quel momento terribilmente minacciosa. «Alzatevi lentamente.»

Uno di loro tentò di afferrare il mitra che aveva accanto, ma una pallottola invalidante in una spalla gli tolse subito i bollenti spiriti, e allora Il loro capo, un energumeno con la benda a coprirgli l’occhio sinistro, obbedì all’ordine dell’aggressore, imitato dai suoi compagni.

Di fronte a sé aveva un pezzo di lamiera che rifletteva blandamente ciò che vi era davanti; così, quando ebbe occasione di guardarci dentro, rimase talmente stupito da mettersi a ridere.

«Questo è il colmo!» disse, voltandosi. «Quale sorpresa. Niente meno che la principessa Sylvia è venuta a farci visita.»

«Non muovere un passo!» ordinò lei seguitando a tenergli puntata addosso la pistola. «Siete quelli che hanno rapinato i campi della regione, vero?»

«Possiamo trovare un accordo» rispose calmo il capo. «Abbiamo fatto su un bel bottino. Potremmo dividerlo tranquillamente, e ce ne sarebbe abbastanza per soddisfare tutti.»

«Beni rubati. A gente che se li era guadagnati con il sudore della fronte.»

«Questione di punti di vista. Chi non ha la forza di tenersi stretta la sua roba, non può stupirsi se qualcuno gliela ruba.»

Sylvia ormai non si stupiva più della bassezza raggiungibile dai suoi simili; forse perché, in passato, anche lei non era stata molto diversa da loro.

«È per colpa di quelli come voi che questo mondo non riesce a risollevarsi.»

«Proprio te parli, fottuta amica dei Norma?» sputò un altro, e fu solo per un miracolo che Sylvia riuscì a contenere il desiderio di fargli un buco in fronte

«Lasciate qui tutto quello che avete rubato e andatevene.»

«Allora, in questo caso, dove sarebbe la differenza tra te e noi?» domandò provocatorio il capo

«Io non terrò niente per me. È questa la differenza.»

Imprudentemente, Sylvia si distrasse, e il capo immediatamente ne approfittò, scagliandole in faccia con un piede un misto di sabbia, cenere e braci, e accecandola quel tanto che bastava da permettere a lui e agli altri di recuperare le armi.

Tuttavia non fecero in tempo a crivellarla che qualcuno, dalla vegetazione, esplose un colpo, lasciando uno di loro a terra morto con un proiettile dritto nell’orecchio. I suoi compagni a quel punto spararono, ma ormai Sylvia si era già nascosta dietro un albero e fu lesta a rispondere, generando una furiosa sparatoria cui si unirono, in breve, una ragazza castana sui diciott’anni e un giovane uomo, entrambi con indosso un giubbotto antiproiettile.

I predoni, rifiutandosi di fuggire e abbandonare il loro carico, si difesero fino all’ultimo uomo, morendo tuttavia uno dopo l’altro senza riuscire a fare a loro volta alcuna vittima.

Terminato lo scontro, gli animi si distesero.

Prudentemente, Sylvia fece qualche passo avanti, accertandosi della morte apparente di quasi tutti gli assalitori, e dopo poco dalla boscaglia circostante giunsero altre due ragazze.

Una delle due, armata di fucile, calzoni larghi stretti in vita da una cintura e maglietta bianca, sormontata da un giubbotto antiproiettile, era alta e snella, dal fisico scolpito come quello di un’atleta, o di un soldato di professione, capelli castani corti e occhi blu, un po’ più scuri di quelli di Sylvia; l’altra appariva più minuta, ma non per questo meno atletica, lunghi capelli scuri raccolti in una coda e occhi verdi, e vestiva in modo molto meno mascolino, forse persino troppo femminile dato il luogo, il che accresceva la gentilezza della sua figura.

«Complimenti per la mira, Ashley» disse Sylvia rinfoderando la pistola. «Allora è vero quello che ho sentito dire sulle Norma di Arzenal

«Al confronto dei draghi contro cui ho combattuto, questi sono solo feccia.» sputò a terra la castana.

Sylvia si guardò attorno, notando la grande quantità di vettovaglie accatastate attorno al campo.

«Al solito» sospirò. «Cibo, armi e munizioni.»

La ragazza scura si avvicinò ad una delle casse per ispezionarla, quando all’improvviso il capo, rimasto ferito di striscio, si alzò di colpo, afferrandola e puntandole velocemente un coltello alla gola.

«Ferme!» ordinò prima che Sylvia ed Ashley potessero alzare i fucili. «Gettate le armi! Subito! O giuro che le taglio la gola!»

Le due ragazze si guardarono, quindi, ringhiando, obbedirono, liberandosi sia delle armi da fuoco che dei coltelli alla cintura.

«Lo immaginavo» rise. «Questo è il problema di voi puttane amiche dei poveracci. Non potete fare a meno di difendervi tra di voi.»

«Davvero?» sentì dire in quella da una voce cupa, quasi spaventosa. «Cosa ti fa pensare che io debba essere difesa?»

Da un istante all’altro la ragazza si liberò della stretta, ed afferrato saldamente il braccio dell’uomo con un solo colpo gli slogò tutte e tre le articolazioni; quindi, mentre quello ancora urlava, gli arrivò alle spalle, e con uno scatto deciso gli girò la testa di centottanta gradi, lasciandolo morto prima ancora che avesse il tempo di urlare.

Quindi, accertatasi che fosse morto, si inginocchiò davanti al corpo, giunse le mani in preghiera e mormorò alcune parole, versando anche alcune lacrime.

«Un giorno o l’altro dovrai spiegarmi come fai, Mayu» sorrise Ashley. «Saresti capace di spaccare il culo perfino a quella bagascia di Elektra

«Contieni questo tuo linguaggio colorito, Ashley. Abbi rispetto per i morti.»

«Secondo te questi hanno avuto rispetto quando hanno rapinato, stuprato e ucciso centinaia di persone?»

«Ha ragione lei, Ashley» rispose invece Sylvia. «Se ci mettiamo ad uccidere anche noi in maniera indiscriminata, non saremmo migliori di loro.»

In quella, un rantolo sofferente attirò la loro attenzione; il primo bandito ad essere stato ferito era ancora vivo, e cercava faticosamente di allontanarsi strisciando sul terreno.

Con due passo Sylvia gli fu appresso, e giratolo gli puntò la pistola drizza in mezzo agli occhi.

«Ti prego, non uccidermi!» supplicò quello facendosela letteralmente addosso

«A chi avete rubato tutto questo equipaggiamento?»

«Noi… noi non abbiamo rubato niente! Quando siamo arrivati noi il villaggio era deserto!»

«Di che villaggio parli?» chiese Ashley

«Dolkin! Il villaggio di Dolkin. Era orrendo. Qualcuno… o qualcosa aveva spazzato via tutto. C’erano morti ovunque. Abbiamo preso quello che potevamo e siamo scappati di corsa.

Vi giuro che è la verità.»

Sylvia lo guardò negli occhi, saggiandone la paura; quindi, riposta l’arma, tolse lo scarpone dal suo petto permettendogli di alzarsi.

«Hai dieci secondi per sparire. Se ti pesco di nuovo in questa regione la prossima volta mirerò con più attenzione.»

Senza farselo ripetere quel poveretto scappò via più veloce della luce, e le tre ragazze, caricatesi ognuna di quanto potevano portare, tornarono verso la strada, dove trovarono ad attenderle un imponente quanto minaccioso mezzo di trasporto.

Sembrava un incrocio tra un autocarro e  un veicolo da combattimento; poggiato su tre diverse coppie di pneumatici, ognuno dei quali era spesso quasi il doppio rispetto ad una ruota normale, era protetto in ogni direzione da un pesante rivestimento corazzato, tanto spesso che probabilmente neanche un missile anticarro sarebbe stato in grado di bucarlo.

Se l’apparato difensivo era di prim’ordine, l’armamento faceva perfino paura: tra feritoie adatte a sparare dall’interno, generatori di fumo, e soprattutto una coppia di mitragliatrici a canne rotanti, una a prua ed una a poppa, posizionate su torrette ruotabili a trecentosessanta gradi, ed una terza torretta che ospitava otto razzi terra-aria, quella specie di mostro sarebbe stato capace di entrare indisturbato in qualunque fortezza, anche la più difesa.

Innumerevoli luci di posizione e fari per fendere anche l’oscurità più nera completavano il tutto.

Sul muso, decorato con motivi floreali, campeggiava un graffito psichedelico in vernice giallo oro: Bulldog.

«Comoda Ruka, comoda!» imprecò Ashley all’indirizzo della giovane ragazza castana che masticava tranquillamente una gomma con la schiena poggiata alla carrozzeria blindata e una rivista d’auto in mano. «Tanto qui non c’è niente da fare!»

«Siamo di cattivo umore oggi. Posso suggerire una buona tazza di te?»

«Piantala Ruka, oggi non è proprio giornata» intervenne Sylvia caricando le due casse che portava con sé nel vano posteriore

«Niente male come caccia.» osservò Luca

«E non immagini neanche cosa c’è in quel campo. Domani manderemo un furgone a recuperare tutto. Per ora portiamo con noi questo.»

«Agli ordini, capo.»

Terminato il lavoro le quattro ragazze si ritrovarono all’interno del vano posteriore del veicolo, arredato come un camper e provvisto di ogni comfort, tra cui un ampio tavolo da pranzo sul quale venne srotolata una cartina della regione.

«Hanno detto di aver preso tutto questo materiale dal villaggio di Dolkin» disse Sylvia indicando l’insediamento, il cui nome era vergato a penna. «Ma hanno anche detto che quando sono arrivati lo hanno trovato già assalito e distrutto.»

«Quindi» ipotizzò Mayu. «Potrebbe esserci un’altra banda che saccheggia gli insediamenti in questa zona?»

«Se il racconto di quell’avanzo di galera è vero, temo non si tratti solo di questo.»

«Ha ragione» disse Ashley «Quale razziatore assalterebbe un villaggio senza rubare niente?»

Sylvia alzò lo sguardo verso Ruka.

«Quanto ci vorrebbe per arrivare a Dolkin

«Con il bulldog, direi circa due ore.»

Le quattro si consultarono con gli occhi tra di loro, annuendo.

«Andiamo, allora.»

 

Dolkin esisteva già da prima dell’Apocalisse, come era stato soprannominato il giorno in cui il Mana era scomparso, e di tutti i villaggi della regione era sicuramente uno dei più difesi, con le sue mura di fortuna, ma comunque efficaci, fatte di rottami e detriti vari, le sue torrette d’avvistamento e le sue armi pesanti.

Vi si arrivava attraverso una strada stretta e tortuosa, volutamente alterata per impedire gli assalti rapidi ed improvvisi, ed il bulldog, che non brillava certo per agilità, ebbe a sua volta parecchi problemi per raggiungere l’abitato.

Sylvia e le sue compagne, illuminando con i fari i bastioni del villaggio, non furono sorprese di trovarne l’accesso sfondato, ma quando, lentamente, il loro mezzo varcò il portone, il terrore si materializzò nei loro occhi.

In quegli anni tutte e quattro ne avevano viste di cose orribili, ma quello che restava di Dolkin andava al di là di ogni immaginazione.

Ovunque era distruzione e morte.

Gli incendi, ormai spenti, avevano distrutto quasi tutto, tramutando le case di legno e pietra in ammassi decadenti di macerie, e l’aria, su cui aleggiava un terrificante silenzio, puzzava di morte.

Il fuoco si era accanito persino sui cadaveri, e quei pochi che non erano ancora stati bruciati fino alle ossa apparivano a tal punto dilaniati da risultare irriconoscibili.

Le quattro ragazze dovettero farsi forza per non distogliere lo sguardo, e quando, armate fino ai denti, scesero dal blindato, l’odore era tale che solo per miracolo riuscirono a non vomitare.

«Oh, mio Dio.» riuscì a mormorare Ruka

Non era possibile.

Non era umano.

Chi poteva avere mai concepito una tale mostruosità? A che punto poteva arrivare la follia umana così lungamente repressa dal condizionamento di Embryo?

Sylvia strinse più forte le mani attorno al fucile, sforzandosi di contenere la rabbia che portava dentro.

«Controlliamo in giro. Vediamo se riusciamo a capire cos’è successo qui.»

«Giuro che appena trovo il responsabile gli sfondo il culo.» imprecò Ashley allontanandosi verso il vecchio municipio assieme a Mayu

Sylvia e Ruka invece si avviarono lungo una delle stradine che uscivano dalla piazza, ma bastarono pochi minuti di ispezione per rendersi conto che lì dentro non c’era più niente, ma soprattutto nessuno, da salvare.

Chiunque fosse stato, aveva fatto molta attenzione a coprire le sue tracce, oltre a non lasciare superstiti; anche a questo era servito il fuoco.

Eppure, ogni spiffero, ogni sibilo, ogni minimo movimento era per le due ragazze come un allarme, ed i nervi di entrambe erano a fior di pelle.

Sylvia si chinò, raccogliendo dal terreno coperto di fango e di cenere un giocattolo di legno, talmente distrutto che nel sollevarlo questo le si distrusse tra le mani. Lì accanto, supino, un corpo carbonizzato, e dalle dimensioni non era difficile intuire doversi trattare del proprietario del gioco.

«Bastardi.» ringhiò

«Ehi, guarda» disse Ruka indicando la pesante porta, apparentemente sprangata, di un seminterrato dall’altra parte della strada. «Forse lì c’è ancora qualcosa di utile.»

In quel momento la ricerca di provvigioni era l’ultimo dei pensieri di Sylvia, ma ciò nonostante la ragazza volle comunque controllare cosa vi era lì dentro, e assieme alla sua compagna discese lungo la ripida scala in cemento.

Dinnanzi alla porta vi era un altro corpo, ugualmente carbonizzato e irriconoscibile; probabilmente quella poveretta, perché di una donna doveva trattarsi, aveva cercato disperatamente di salvarsi entrando lì dentro, salvo trovare un catenaccio a chiuderne il battente vedendo segnato il suo destino.

Per potersi liberare del lucchetto Sylvia fu costretta a ricorrere ad una scarica di pallottole, e ci volle la forza di entrambe per riuscire ad aprire il pesante portone, parzialmente fuso e distorto dalle fiamme.

Sembrava un vecchio magazzino, basso e spazioso, con file di casse accatastate a formare quasi un labirinto; le luci, alimentate come il resto da un generatore a carburante, funzionavano ancora, ma erano quasi tute difettose, producendo una luce ad intermittenza che aveva il solo effetto di creare sinistri giochi di ombre che accrescevano ulteriormente le tensione.

Nel silenzio, Sylvia e Ruka si addentrarono nello stanzone, il terreno umido che scricchiolava sotto i loro scarponi, le dita sul grilletto pronte a sparare.

D’un tratto, guardandosi attorno, Sylvia ebbe l’impressione di notare qualcosa, come un movimento nel buio. Dapprincipio pensò ad un’impressione, ma poi sia lei che la sua compagna udirono inconfondibili rumori di passi.

«Chi và là?» disse, certa di aver visto qualcosa muoversi

Chiunque fosse lì con loro non rispose, continuando a correre senza apparente senso in ogni direzione, e mentre Ruka tornava velocemente verso la porta bloccando quell’uscita Sylvia si mise sulle tracce del fuggitivo, il quale, comprendendo di essere in trappola, smise apparentemente di muoversi.

La ragazza continuò a camminare, in silenzio, saggiando ogni passo, fino a che un respiro affannoso ma sterile, forzatamente represso, raggiunse le sue orecchie.

Voltato un angolo, si ritrovò di fronte, rannicchiata a terra, una ragazzina a prima vista poco più giovane di lei, undici o dodici anni al massimo, i lunghi capelli rosso vino bagnati e spettinati, l’espressione allo stesso tempo assente e terrorizzata e i vestiti strappati; era anche ferita, ma erano perlopiù graffi e lividi non particolarmente seri.

«Non aver paura» disse rinfoderando la pistola. «Non voglio farti del male.»

Quella sembrò quasi non essersi accorta di lei, seguitando a guardare in basso come intontita, e allora Sylvia si avvicinò con garbo, cercando di non spaventarla ulteriormente.

«Stai bene? Chi vi ha fatto questo?»

«Li hanno mangiati» mormorò lei. «Hanno bevuto i loro organi.»

«Di che stai parlando? Che cosa è successo qui?»

Ma lei, ancora, non rispose, rannicchiandosi ancora di più, e allora Sylvia la strinse a sé cercando di confortarla.

«Tranquilla. Ora sei al sicuro.»

 

 





Nota dell’Autore

Eccomi qua!^_^

Ci ho messo un po’ a postare questo primo capitolo, ma quella da cui sono appena uscito è stata una settimana di fuoco, e poi ho voluto togliermi di torno altri progetti che stavo portando avanti.

Ad ogni modo, eccoci qua.

Come si sarà capito, la battaglia del prologo non era altro che l’incipit di quella che in realtà sarà la seconda metà della storia.

Fino ad allora, la vicenda si svolgerà interamente dal punto di vista di Sylvia, il che significa che tutti i personaggi principali della serie, con qualche eccezione, almeno per ora saranno assenti.

Ma non abbiate paura, verrà anche il loro momento.

Quello che avete potuto vedere in cima è una locandina speciale che ho voluto creare per questa storia.

Spero che vi piaccia.

Grazie a Taiga per la sua recensione.

A presto!^_^

Carlos Olivera

  
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