«Mamma, sei
proprio tu?»
Connie sbatte le
palpebre e aspetta, nell'attesa di un segno che tarda ad arrivare
chiude le mani a pugno, afflitto e impotente. Non è vero,
non è reale. Non può essere altrimenti, tenta
vanamente di convincersi prima di scoppiare in lacrime, consapevole che
non v'è necessità di risposta alcuna,
perché la muta replica che non vuole ascoltare è
già stata data.
La testa è vuota e dentro il carro c'è poca luce,
Connie incrocia le gambe, svogliato, e appoggia il capo al legno duro;
l'assenza di rumore è opprimente e preferirebbe che
qualcuno, uno qualsiasi di quelli che gli stanno accanto, parlasse. Ma
c'è silenzio ed è terribile.
Nemmeno la donna che gli sede dirimpetto e che prima, prima quand'erano
ancora al villaggio, s'è permessa di porre fin troppe
domande, parla – Hanji, la tua lingua è sempre
troppo veloce.
Quando la comitiva si ferma e uno spiraglio di luce gli ferisce gli
occhi, il ragazzo si affloscia. Quanto deve durare quest'agonia?
Il viaggio è finito.
C'è qualcosa
di fondamentalmente sbagliato nel porre quella domanda, Connie ne
è cosciente. Chiunque è in grado di riconoscere
con una frettolosa occhiata il viso della propria madre tra migliaia di
volti estranei. Ma Connie continuerà a chiederselo, a
chiederglielo; perché lei – ammesso che sia
davvero lei – non gli risponde, non parla, non può
e non sarà in grado farlo. Forse quel «bentornato
a casa» se l'è solo immaginato. Forse, si ripete
incredulo, quello che ha davanti agli occhi è solo un titano
che le somiglia: un gigante che la ricorda davvero parecchio.
Prova a crederci, ci
prova con tutto se stesso. Le coincidenze capitano, giusto? Potrebbe
essere un caso, un'amara beffa.
Connie non ricorda bene,
magari si è fatto prendere dall'immaginazione e si
è lasciato suggestionare. Ma lei, il titano, le assomiglia
in maniera a dir poco strabiliante.
Non sapere è
più doloroso di mille parole e Sasha è troppo,
troppo lontana.
«Mamma?»
Ed è
silenzio, dannatissimo silenzio. Come qualche ora più tardi
nel carro.