Booom! Questo chap è per te Adri!! X’D
Capitolo 7: Awakenings
7:22
del mattino. Chi diavolo era che la disturbava a quell’ora
assurda? Di lunedì
mattina per giunta!
Il
cellulare continuava a vibrare nella sua pochette, che aveva gettato
senza
tanti complimenti da qualche parte sul pavimento la sera prima. E lei
continuava a fissare l’orologio digitale, con i suoi numeri
rossi e giganti,
che in quel momento batteva le 7:23.
Rotolò
via dalla presa dell’uomo al suo fianco, infinitamente piano,
per non
svegliarlo: non voleva vedere i suoi occhi e nemmeno il sorriso
divertito che
le avrebbe rivolto appena avesse posato il suo sguardo su di lei. In
effetti non
c’erano pericoli: dormiva così
profondamente da sembrare morto.
Con
l’aspetto che si
ritrova, direi più il dio dei morti,
concordò con se stessa, lasciando vagare lo sguardo sulla
figura possente e
semi coperta dell’uomo.
Recuperò
la sua camicia dal pavimento e se la infilò, non per
romanticismo o per
qualcosa che implicasse il fatto che lui le piacesse, ma solo
perché infilarsi
il vestito che lui le aveva tolto con tanta velocità la
notte precedente
avrebbe richiesto troppo tempo, tempo in cui il vibrare del cellulare
le
avrebbe trapanato il cervello.
Raggiunse
velocemente l’oggetto incriminato e sbloccò lo
schermo, sospirando nel leggere
il messaggio che le avevano lasciato.
DOVE
SEI?
-H
Se
solo lo sapessi, non mi
guarderesti nemmeno più in faccia,
pensò oscurando lo schermo, senza rispondere.
Rimase
a fissare il cellulare tra le sue mani per alcuni minuti, vergognandosi
come
una ladra per quello che aveva fatto. L’uomo alle sue spalle
si rigirò nel
letto, riscuotendola dal suo stato di torpore. Uscì in
fretta dalla stanza,
chiudendo la porta dietro di sé. La luce del sole che
sorgeva su un altro
giorno la avvolse non appena mise piede nell’enorme salotto,
che si affacciava
sullo skyline di New York. Addormentarsi in un superattico aveva i suoi
pregi,
e tra le tante cose, quella era una delle poche che le piacesse
così tanto:
vedere la città svegliarsi pian piano, animarsi di taxi e
pedoni indaffarati,
che da quell’altezza sembravano formiche impazzite. Anche lei
sarebbe dovuta
essere per strada, lontana da quel posto. Il suo riflesso nella
gigantesca
vetrata le rimandava l’immagine di una piccola donna, troppo
coinvolta in
qualcosa più grande di lei, schiava degli istinti e della
paura.
La
sentì arrivare, la crisi di nervi imminente del giorno dopo.
Strinse i pugni e
ricacciò indietro le lacrime. Rovistò tra le
tasche della sua giacca, lasciata
sul divano di pelle, alla ricerca delle
sigarette. Le teneva in una scatolina di metallo nero laccato, assieme
allo
zippo decorato con un teschio.
Così
fine eppure così kitsch, sorrise tra
sé, mentre ne
sfilava via una e se la metteva in bocca.
La
piccola fiamma dell’accendino le bruciò i
polpastrelli, mentre l’estremità
della sigaretta diveniva incandescente. Posò
l’accessorio dove l’aveva trovato
e inspirò profondamente. Trattenne il fiato per tutto il
tempo possibile, poi
cacciò il fumo, guardando le volute grigie diradarsi
nell’aria attorno a lei. A
volte anche lei si sentiva così, come se il più
semplice refolo di vento avesse
potuto dissolverla, trascinandola via nella corrente.
Aspirò
ancora una volta, poi di nuovo, persa nel momento di quiete dopo la
tempesta.
Poi una mano, la sua mano, le
tolse
la sigaretta dalle dita, spegnendola con un movimento veloce nel
posacenere di
cristallo, sul tavolino da caffè, che sembrava
più un pezzo d’arte che un
mobile d’arredamento.
Non
l’aveva sentito arrivare.
-“Sai
che odio quando lo fai?”- le soffiò la sua voce,
arrochita dal sonno.
-“Cosa?
Fumare?”- lei lo sapeva, lo faceva di proposito ogni volta
che si risvegliava
nel suo appartamento. Qualunque cosa pur di fargli dispetto: era la sua
piccola
rappresaglia per fargli sapere che lui non comandava su tutto, che
almeno
qualcosa le era ancora concessa.
-“Già.
È davvero volgare, sembri una…”-
-“Prostituta
d’alto bordo? Ma lo sono.”- lo beccò,
interrompendolo, un’altra cosa che lo
infastidiva.
-“Smettila
di giocare alla bambina cattiva. Il broncio non ti si
addice.”- le disse.
-“Non
mi sembra d’avere molto per cui sorridere.”- gli
rispose, voltando il viso
lontano dal suo sguardo penetrante. Lui prese a giocherellare con i
suoi
capelli, lasciati liberi a coprirle le spalle.
-“Sicura?
Avresti potuto svegliarti nel letto di Dallas o peggio ancora di uno
dei
Westerguard: sai, ho sentito dire che sono parecchio
esigenti.”- ridacchiò a
labbra strette -“Invece eccoti qui fiorellino. Mi sembrava
che apprezzassi la
mia compagnia, ieri sera.”- le disse, tirandole una ciocca di
capelli scuri,
che aveva arrotolato attorno al dito indice.
-“Mi
fai schifo.”- sibilò tra i denti lei, sottraendosi
al suo tocco.
-“Non
è vero Meg cara, e lo sai, altrimenti non saresti
qui.”-
E
lei lo sapeva perfettamente e si odiava per quello. Lo disprezzava con
tutta se
stessa, ma non poteva fare a meno di lui. Sindrome
di Stoccolma, le avrebbe detto Elsa. Ma non era vero
perché, per quanto lui
fosse il suo aguzzino, lei gli si era consegnata spontaneamente, senza
giochetti psicologici o violenza fisica. Quando qualche tempo prima
l’aveva
colpita, lo aveva fatto colto da un eccesso d’ira, per cui
poi si era scusato
in un modo molto efficace. E quando Elsa l’aveva trovata
rannicchiata sul
divano in lacrime, con un livido sulla guancia, non le aveva detto il
vero
motivo per cui piangeva; non per il dolore, o per la paura, ma solo per
il
disgusto che provava verso se stessa: gli si era concessa, allettata
dalle
languide carezze e dalle frasi sussurrate sulle sue labbra. Era umana,
donna
per giunta, e per quanto ne potesse dire la sua coinquilina, non era
per nulla
forte. Aveva bisogno d’amore nella sua vita piena di fantasmi
e, anche se
quella era la cosa più lontana dall’amore che
esistesse, lui la faceva sentire
desiderata e amata, a modo suo.
E
poi lui era…lui. Anche
con i suoi
quasi 40 anni, rimaneva l’uomo più piacente e
seducente che avesse mai visto.
-“Non
mi pare d’aver avuto molta scelta. Se te l’avessi
chiesto, mi avresti lasciata
andare?”-
-“No.”-
rispose secco, facendole accapponare la pelle. Sapeva farla
rabbrividire di
piacere e al tempo stesso farle venire la pelle d’oca per la
paura, solo con
un’inflessione della voce.
-“Sai,”-
cominciò, prendendole il mento e voltandole il viso verso di
lui –“potrei
decidere di non lasciarti andare mai più; potrei decidere di
tenerti per me
soltanto, senza l’intromissione di altri uomini; potrei
decidere di lasciare
solo la tua amichetta a fare il lavoro sporco.”- le
sussurrò sulle labbra –“Ti
piacerebbe?”-
Meg
lo fissò intensamente, con gli occhi spalancati per la
paura: non poteva dire
sul serio.
-“Come
puoi chiedermelo?”- fece quasi sconvolta
–“Non potrei mai lasciare Elsa da sola
in mezzo a tanti”- temporeggiò pensando alle
parole da usare –“… rifiuti
umani!”
-“Meg,
Meg, Meg.”- la canzonò
–“L’altruismo e il cameratismo poche
volte aiutano e, di
solito, non ti portano lontano.”- le sue carezze diventarono
più insistenti.
Meg
chiuse gli occhi, cercando di non cedere alla malia di quelle mani
esperte e
tentatrici.
-“E
poi Elsa non sembra avere nei tuoi confronti la stessa premura che hai
tu verso
di lei.”- quelle parole la riportarono con i piedi per terre,
risvegliandola da
quel torpore intossicante in cui la gettava la presenza di Ades, come
una
secchiata d’acqua gelata –“ Ti ha
lasciata da sola ieri sera, o sbaglio? È
fuggita via assieme a quel bamboccio del figlio di Nick North, senza
preoccuparsi di te, di quello che sarebbe potuto accaderti, o di chi ti
avrebbe
riaccompagnata a casa…o se,
saresti
tornata a casa.”
-“Stava
lavorando anche lei, no? Perché avrebbe dovuto preoccuparsi
di me?”- cercò di
eludere la domanda, anche se il pungiglione velenoso delle sue parole,
l’aveva
colta su un nervo scoperto: il solo pensiero che Elsa
l’avesse lasciata di
proposito da sola o che, ancora peggio, non si fosse interessata della
sua
sorte, la faceva sentir male.
Sobbalzò,
presa alla sprovvista, quando Ades le strinse forte i fianchi e
l’attirò a sé
con prepotenza, con uno sguardo irato negli occhi: “Credi che
non mi sia
accorto a che gioco sta giocando la tua amica? Crede di essere furba,
mmh? E tu
di certo non puoi sperare di prendermi in giro come lei, tesoro. Sei un
libro
aperto per me: riesco a leggere tutto quello che ti passa per la mente,
attraverso il tuo sguardo.”- ridacchiò compiaciuto
–“Ad esempio, in questo
momento vorresti colpirmi, ma la paura ti blocca. Fallo , Meg. Colpisci
forte.”- la stuzzicò.
Meg
cercava di mantenere un’espressione neutra e lo sguardo
impassibile, così che
lui non potesse leggervi altro, anche se il cuore le batteva impazzito
nel
petto ed era sicura di essere diventata di una sfumatura di bianco
cadaverico.
La
battaglia di sguardi durò alcuni infiniti secondi, prima che
lui la lasciasse
andare, con un sorriso, quel
sorriso
che lei tanto odiava, trionfante.
Lo
aveva fatto di nuovo. Aveva vinto lui.
-“Ho
una riunione importante e non posso far tardi. Ci rivediamo
stasera.”- le disse
dandole le spalle –“Nic ti
riaccompagnerà al tuo appartamento.”-
Lo
guardò allontanarsi di qualche passo e poi voltarsi di nuovo
verso di lei: “E
di’ ad Elsa che non ci sarà sempre Jack North a
salvarla.”
-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-
L’odore
dei pancake l’aveva ingannata, facendole immaginare di essere
di nuovo a casa,
al caldo nel suo letto, con le coperte tirate fin sul naso, Anna che
ronfava
nella camera accanto e la mamma giù in cucina a preparare la
colazione per
tutti. Ed invece, quando aprì gli occhi, con un sorriso
davvero felice sulle
labbra, si ritrovò in una camera che non era quella di casa,
né quella del suo
appartamento.
Le
ci volle qualche minuto per realizzare dove fosse.
Le
camere degli ospiti le facevano sempre uno strano effetto,
perché erano vuote,
prive di un’anima propria, senza un pizzico di vita a
colorarne le pareti o le
suppellettili: la facevano sentire estranea e non voluta, come un
regalo
indesiderato, lasciato in un angolo. Questa, per quanto accogliente
fosse, non
faceva eccezione.
Eppure,
era solo una sua strana sensazione, nessuno l’aveva accolta
lì di controvoglia,
anzi. La sera prima aveva pregato Jack di non riaccompagnarla al suo
appartamento, ma di portarla ovunque ci fosse la vita vera. Andiamo
a bere, per quanto ne possiamo sapere potremmo essere morti entro
domani
mattina, gli aveva detto. Ma Jack non si era lasciato
impressionare da
quelle parole: l’aveva guardata trattenere a stento le
lacrime che le
riempivano gli occhi e aveva ingranato la quinta, senza rivelarle la
loro
destinazione.
Quando
erano arrivati nei garage sotterranei del North Building,
l’aveva ringraziato
silenziosamente per non averle dato ascolto e, appena ne aveva avuto
l’opportunità, lo aveva stretto in uno di quegli
abbracci che molto raramente
concedeva, trattenendolo a sé più del necessario.
Ma lui non si era scostato.
Aveva ricambiato il gesto con più trasporto di quanto Elsa
s’aspettasse.
-“Preferisci
dormire nella camera degli ospiti o…”- le aveva
chiesto, appena avevano varcato
la soglia del suo appartamento.
-“La
camera degli ospiti andrà benissimo.”- lo aveva
interrotto prontamente lei,
abbassando lo sguardo imbarazzata.
Lui
le aveva fatto strada, anche se lei avrebbe saputo trovarla ad occhi
chiusi
quella stanza. La vista dell’enorme letto a doppia piazza
aveva immediatamente
risvegliato la sua stanchezza, lasciandole addosso il desiderio di
tuffarsi tra
quei morbidi cuscini e non risvegliarsi mai più.
-
“Vuoi che resti a farti compagnia finché non ti
addormenti?”- le aveva chiesto
ancora, quando lei aveva tentennato sulla soglia, tremando
impercettibilmente.
Aveva
annuito, senza pensarci due volte. Quel letto così invitante
le era sembrato
all’improvviso troppo grande, freddo e vuoto. Jack le aveva
rivolto un piccolo
sorriso rincuorante ed era sparito per alcuni minuti, per riapparire
poi con
indosso la sua tenuta da notte e degli indumenti adatti per lei, tra le
mani.
-“Credo
che questi ti vadano bene…erano di Tooth.”- le
aveva detto, depositando sul
letto gli abiti piegati.
Aveva
annuito sovrappensiero, poi si era cambiata in fretta e in silenzio,
evitando
di indugiare troppo sui suoi pensieri tetri, sui ricordi conservati in
quella
casa, tra le pieghe di quelle lenzuola, nel profumo di quegli abiti che
non le
appartenevano, ma che non avevano più un proprietario.
Si
era lasciata cullare dall’abbraccio di Jack finché
il sonno non l’aveva vinta,
non trovando nessun imbarazzo in quella loro vicinanza o nelle parole
di
conforto che le aveva rivolto. In realtà, sarebbe stata bene
con lui anche in
silenzio, ma lui sembrava ostinato a voler riempire quelle pause con
gesti
premurosi e frasi apprensive. Si era sentita amata, come non le
accadeva da
molto e il suo sonno era stato piacevole e ristoratore, privo degli
incubi che
la turbavano quasi ogni notte. Si sentiva a casa tra le braccia di
Jack. Eppure
non aveva sognato lui quando il sonno l’aveva vinta.
Un
paio di occhi giada avevano danzato dietro le sue palpebre chiuse, per
tutta la
notte. Occhi che la scrutavano attentamente, che le scavavano dentro,
alla
ricerca di un tesoro dimenticato sul fondo della sua anima. Per quanto
assurdo
fosse stato il loro incontro, Hans Westerguard, con il suo portamento
fiero, il
sorriso luminoso, lo charme di un uomo d’altri tempi e i suoi
modi affabili, si
era indubbiamente scavato una piccola nicchia nei suoi pensieri. Le era difficile decifrare quali
sensazioni le
suscitasse il ricco erede: oscillavano dall’inquietudine ad
un’insana
attrazione. Ma anche ora che si trovava in quel letto troppo grande per
lei
sola, ad osservare il soffitto stuccato, non riusciva a venire a capo
di quel
mistero che era il più giovane dei Westerguard.
Tutto
in lei aveva gridato fuggi, quando
lui le si era avvicinato come un predatore, con passo sicuro e
silenzioso,
quasi temesse di farla scappare se avesse fatto il minimo rumore. Si
era
sentita come un uccellino in gabbia, messo all’angolo dal
gatto. Tuttavia la
sua voce calda e pacata, e il suo tocco leggero sulle sue mani fredde,
aveva
calmato il ritmo accelerato del suo cuore.
E
quando Jack l’aveva portata via, sottraendola alla sua
presenza ingombrante,
non aveva potuto fare a meno di voltarsi a guardarlo per
un’ultima volta,
incrociare il suo sguardo sicuro e penetrante, guardare quegli occhi
troppo
belli per essere veri e la sua espressione delusa nel vederla andare
via.
Un
bussare alla porta la richiamò alla realtà:
“Els, sei sveglia?”
Si
alzò a sedere, stropicciandosi gli occhi: “Tra un
po’.”- disse sorridendo a
Jack, che si era fermato sulla soglia.
-“Babbo
Natale e signora sono seduti a colazione, ti andrebbe di farmi
compagnia?”- le
chiese, prendendo il giro il padre con quel soprannome calzante.
-“Con
piacere.”- disse
strofinandosi di nuovo
gli occhi. Le mani erano diventate nere, piene del makeup con cui era
andata a
dormire –“ Forse dovrei rendermi presentabile
prima, che dici?”-
-“Il
bagno sai dov’è e per quanto riguarda i vestiti,
puoi benissimo venire in
pigiama, ma se vuoi l’armadio di Tooth è sempre
nello stesso posto.”- le disse
abbassando lo sguardo.
Elsa
gli si avvicinò e gli lasciò un bacio sulla
guancia: “Grazie.”- Si ritrovò a
pensare che, molto probabilmente, non avrebbe mai smesso di ringraziare
Jack
North.
*-*-*-*-*-*-*
Rovistare
tra i vestiti della sua migliore amica morta, come fosse in uno dei
tanti
franchising Target, non era il modo migliore per cominciare la
giornata.
Purtroppo le toccava se non voleva scendere in strada con un pigiama
verde con
stampe di colibrì, o ancora peggio con un vestito Armani
ricoperto di paillette
a specchio che avrebbe praticamente calamitato l’attenzione
di mezza New York
su di lei. Essere al centro dell’attenzione era tutto
ciò che non voleva in
quel momento. Così scelse gli abiti più semplici
che riuscì a trovare: un paio
di jeans, un maglione blu e delle snickers che un tempo dovevano essere
di un
bianco immacolato.
Si
vestì in fretta, guardando in giro, osservando i resti
materiali della vita di
Toothiana North, la prima amica che avesse mai avuto, la sua spalla al
liceo,
la sua complice, la sua migliore amica, la sua sorella maggiore. Erano
praticamente cresciute assieme. Quando i North avevano lasciato
Arendale per
trasferirsi nella Grande Mela, aveva sofferto come un cane: non
c’era più alcun
divertimento senza Tooth. Ma quando anche lei era arrivata a New York
tre anni
prima, le scorribande erano ricominciate e il divertimento si era
triplicato,
fino a quando... Ancora non le sembrava vero che lei non ci fosse
più. Era
qualcosa che la consumava dentro, il dolore della sua perdita. Poteva
solo
immaginare come dovesse sentirsi la sua famiglia, cosa provasse Jack.
Toothiana
era stata una figlia devota, un po’ pazza,
ma dedita alla sua famiglia, una studentessa modello,
prima in tutti i
suoi corsi, ed un brillante futuro chirurgo. Eppure tutti i suoi sogni
erano
andati persi, rinchiusi in un scatola. Per sempre.
I
suoi occhi luminosi le sorridevano dalle foto appese nel lungo
corridoio che
portava alla sala da pranzo. C’era anche lei in alcune di
quelle foto e in una
c’era persino tutta la sua famiglia al completo: gli Aren e i
North erano amici
di lunga data. Alcune foto ritraevano il signor North con suo padre
Agdar,
insieme alla squadra di canottaggio di cui avevano fatto parte al
college. In
un’altra, i coniugi North si abbracciavano, con il piccolo
Jack che faceva
capolino da un fagottino tra le braccia della madre. Ingrid North le
era sempre
piaciuta, con il suo portamento elegante e i lunghi capelli biondi e
quegli
occhi scuri, profondi come due pozzi, capaci di inghiottirti, colmi di
una
tristezza che sembrava bruciarle l’anima. Si era sempre
chiesta cosa
nascondessero quegli occhi tristi, quale segreto celassero sul fondo.
Eppure il
suo sguardo era dolce e attento.
-“Eccoti
Elsie.”- la salutò la padrona di casa, chiamandola
con quel nomignolo infantile
che le ricordava giorni più felici.
-“Buongiorno.”-
sorrise, sedendosi al fianco di Jack che leggeva il giornale.
-“Elsa!
Dovresti farti vedere più spesso da queste parti. Sai che
casa nostra è sempre
aperta per te.”- la rimproverò con un sorriso
bonario il signor North.
-“Sono
stata parecchio…impegnata negli ultimi tempi.
Vedrò di farmi perdonare, zio
Nick.”- rispose, versandosi del caffè.
North
rise di gusto: “Era da tanto che non mi chiamavi
più così. Ma tu in fondo
rimani sempre la piccola Els, non è vero?”-
-“Già,
la piccola Els.”- borbottò pensierosa, portandosi
la tazza alle labbra. Era
davvero quella di una volta? Molto probabilmente, no. Ma glielo avrebbe
lasciato credere, ci avrebbe creduto anche lei per il momento,
perché alla
vecchia Elsa mancava sentirsi così, parte di qualcosa. Parte
di una famiglia.
-“Quando
Jack mi ha detto che eri nostra ospite, ho chiesto a Mariah di
preparare i pancake
per colazione. I tuoi preferiti, se non ricordo male.”- le
sorrise Ingrid
dall’altro lato del tavolo- “Lì
c’è lo sciroppo d’acero e lì
la cioccolata.”-
le indicò due contenitori affusolati.
-“Si,
grazie.”- le se illuminarono gli occhi: quanta premura
mostravano nei suoi
confronti, e lei non era stata capace di perdere due minuti per
chiamare e
chiedere di loro, di come se la passavano. Erano quello che di
più vicino ad
una famiglia avesse a disposizione al momento. Doveva ricordarselo
più spesso.
Si
riempì il piatto e ci versò su il cioccolato. Il
primo boccone mandò in estasi
le sue papille gustative e il secondo le mandò in circolo
una quantità
sproporzionata di endorfine, facendola rilassare ancora di
più.
-“E
Anna?”- chiese Nick. La semplice menzione del nome di sua
sorella annullò tutti
gli effetti benefici del cioccolato, che si trasformò in
fiele sulla sua lingua
-“Dovremmo
organizzare una cena una di queste sere e stare tutti
assieme.”- continuò
Ingrid, girando il cucchiaino nel suo tè.
Elsa
scambiò un’occhiata con Jack, che non aveva ancora
aperto bocca.
-“G-già”-
farfugliò –“sarebbe una bella idea. Ad
Anna farebbe sicuramente piacere.”-
Jack
notò il suo disagio e intervenne: “Els io devo
fare delle commissioni ad
Harlem, vuoi che ti riaccompagni a casa?”-
-“Jack!
Lasciala finire in pace. Posso farla riaccompagnare da uno degli
autisti.”- lo
rimproverò il padre.
-“No,
no. In realtà avrei anch’io da fare. E uno strappo
mi farebbe comodo.”- si
scusò politicamente, pulendosi le labbra con un tovagliolo e
alzandosi –“È
stato bello stare con voi, anche se per poco.”- sorrise.
-“Torna
quando vuoi Elsie.”- le ricordò ancora la madre si
Jack, andandole incontro e
stringendola in un abbraccio. Lei ricambiò, inspirando il
profumo della donna,
così simile a quello di sua madre.
Lasciò
a malincuore casa North quella mattina.
Un pezzo di lei era rimasto lì con loro, nella rassicurante
routine quotidiana,
fatta di gesti piccoli e ripetitivi. La vecchia Elsa, quella vera.
Jack
la riaccompagnò al suo appartamento di Prospect Park:
“Mi dispiace per prima.
Loro vogliono bene sia a te che ad Anna, e non immaginano nemmeno
lontanamente
tutta questa brutta situazione.”
-“Non
c’è bisogno che tu dica niente, Jack.”-
lo rassicurò –“Sono stati magnifici,
come sempre. Anzi, sono stati un toccasana per me. Mi hanno fatto
sentire meno
la mancanza di casa.”
Jack
le sorrise triste, prima di sporgersi sul seggiolino e posarle un bacio
leggero
sulla fronte: “Quella è anche casa tua, Els. Lo
è sempre stata.”
-“Lo
so.”- disse guardando fuori, evitando di incrociare il suo
sguardo –“Grazie di
tutto, J.”- aprì lo sportello.
-“Ci
vediamo presto.”- la salutò l’amico.
Osservò
la macchina sparire tra le strade trafficate e poi si voltò
verso il palazzone
grigio che le si stagliava davanti. Sospirò sconfitta.
-“Ricomincia
la recita.”-
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Era
in coda, da quanto? Venti minuti, mezz’ora? Non lo sapeva di
preciso, ma sapeva
con assoluta certezza che tra non molto sarebbe esplosa come una
supernova. Cosa mi aspettavo? È
lunedì mattina, si
lamentò tra sé, battendo insistentemente il piede
in terra. Il tizio alla
cassa, davanti a lei, aveva ordinato venti diversi tipi di bevanda, tra
caffè
macchiati e tè al ginseng, da mandare ad un ufficio nel
palazzo adiacente alla
caffetteria. Stava sciorinando, con una cadenza lenta e fastidiosa, i
nomi di
tutti i suoi colleghi da apporre sui bicchieri.
-“Karis,
con la K o con il Ch?”- chiese il commesso dietro al bancone,
con un pennarello
in un mano e un bicchiere di carta nell’altra.
Non
ci vide più dalla rabbia: “Insomma amico, stai
scherzando?”- sbottò,
calamitando l’attenzione di mezzo negozio- “Quante
Karis potranno mai esserci
in un ufficio? Che importanza fa se è con a K o con il
CH?”-
-“Finalmente
qualcuno l’ha detto.”- sentì qualcuno
borbottare dal fondo della fila alle sue
spalle.
Il
commesso scribacchiò veloce sul bicchiere, poi
liquidò il cliente con uno
sterile ‘Arrivederci’.
Merida
scalò di un posto, finalmente capace di ordinare per
sé: “Un doppio espresso e
un London Fog.”-disse al ragazzo, che ormai la guardava come
si guarda un bomba
ad orologeria, mentre lei, ignorandolo, digitava un messaggio sul
cellulare, da
mandare ad Hiccup.
M-
Prendi appunti. Oggi foldo, faccio
da balia alla testa rossa.
H-
Sta male?
M-
Notte di bagordi…è tornata a casa
con uno sconosciuto.
H-
Uno che non era Mr.IoHoUnContoInBancaaSeiZeri? Voglio
tutti i retroscena.
M-
OMG! Ti rendi conto che sembri una
vecchia zitella in cerca di scoop? E ti chiedi anche perché
Astrid ti ignora?
H-
Sono curioso…tutto qui.
M- Devo andare. Ti aggiorno
dopo Miss
Marple XD
Gettò il
cellulare in borsa, passò una
banconota al cassiere e recuperò la sua ordinazione.
Sorseggiò il suo tè,
rigorosamente bollente ed amaro, mentre ritornava
all’appartamento, ammettendo
con sé stessa che la teiera che aveva acquistato qualche
mese prima, era
praticamente diventata un soprammobile, da quando aveva scoperto la
comodità
della caffetteria all’angolo.
Quando
arrivò alla porta, aveva bevuto
quasi tutto il contenuto del bicchiere, senza accorgersene, persa nei
propri
pensieri. Poggiò l’altro bicchiere ai suoi piedi e
rovistò nella borsa alla
ricerca delle chiavi, maledicendo quella sottospecie di pozzo nero e la
tutta
la paccottiglia inutile che si portava dietro. Quando finalmente
riuscì ad
entrare, trovò tutto come l’aveva lasciato quasi
un’ora prima: Anna doveva
ancora risvegliarsi dal suo coma indotto. Al suo risveglio
l’avrebbe aspettata
un terzo grado coi controfiocchi, dal quale poi avrebbe redatto un
sunto da
inviare ad Hiccup, che a sua volta lo avrebbe inoltrato a Rapunzel e in
meno di
dieci minuti la bionda si sarebbe fiondata nel loro appartamento,
salendo tre
rampe di scale a due a due, per accertarsi delle condizioni fisiche e
mentali
dell’amica in stato comatoso.
Sperò
solo che Anna si svegliasse
presto, perché a) il caffè che le aveva preso si
sarebbe altrimenti freddato,
diventando una ciofeca imbevibile e b) i suoi nervi avrebbero
cominciato a dare
i numeri.
Sbatté
con forza la porta.
Anna,
eccoti un piccolo aiuto.
*-*-*-*-*-*-*
Il rumore della
porta che sbatteva la
richiamò alla realtà, trascinandola via da un
sonno senza sogni, popolato solo
da ombre scure e visioni distorte. Rotolò nel letto,
aggrovigliandosi nelle
lenzuola; non ricordava di essere mai arrivata al letto o di essersi
tolta le
scarpe, ma eccola, distesa lì, più morta che viva.
Aveva un sapore
atroce sulla lingua,
una banda di mariachi scatenati che le suonavano la cucaracha in testa,
e un
buco allo stomaco profondo come la faglia di Sant’Andrea. Si
stropicciò gli
occhi e provò a mettere a fuoco la stanza e soprattutto la
sveglia sul
comodino.
9:35…la
bastarda traditrice non aveva
suonato!
-“Merda!”-
saltò a sedere, con la
conseguenza che la stanza cominciò a vorticarle furiosamente
attorno e ricadde
scomposta sul materasso, con le gambe ancora avvolte per
metà nelle lenzuola.
Sospirò,
scostandosi i capelli
finitigli davanti agli occhi, analizzando la situazione: era tornata a
casa
ubriaca, accompagnata da qualcuno, di cui al momento non ricordava
né il nome
né i connotati, a cui associava senza sapere
perché la cioccolata; ricordava
anche del rosso che le aveva danzato davanti agli occhi per alcuni
minuti, e
quella non poteva che essere la prova schiacciante che ad un certo
punto, nel
suo stato delirante, Merida era saltata fuori dalla sua stanza, e un
boato assordante,
proprio come quello che l’aveva appena svegliata.
Poi buio. Solo
benefico e piacevole
buio, seguito da un altrettanto gradito silenzio.
Provò di
nuovo a rimettersi in piedi,
con più calma stavolta, liberando le gambe dalle lenzuola. I
primi passi che
mosse, furono accompagnati da un senso di rallentamento
inquietantemente
fastidioso. Si fermò due volte, tenendosi la testa, prima di
arrivare alla
porta della sua stanza.
-“Eccola
che risorge dal regno dei
morti.”- la accolse la voce della coinquilina, non appena
mise piede nel
piccolo salotto-“Pensavo d’averti persa per sempre.
Avevo già fatto piani per
la tua stanza: sappi che sarebbe diventata il mio
imaginatorium.”-
-“Devi
smetterla di farlo.”- biascicò
con la bocca impastata, ignorando le sue frecciatine.
-“Cosa?”-
le fece eco Merida dalla
cucina.
-“Quella
porta verrà giù un bel
giorno.”- sbottò indicandola, mentre si lasciava
cadere sul divano e richiudeva
gli occhi, ancora troppo pesanti da tenere aperti.
-“Tieni.
Giù, senza fiatare.”- la
scozzese le si parò davanti, porgendole un bicchiere
d’acqua e una compressa
bianca.
-“Vuoi
drogarmi?”- le chiese con un
sorrisetto, prendendo il bicchiere e ingoiando la pillola con un sorso
d’acqua.
-“Come se
avessi bisogno di una pillola
per farti perdere conoscenza.”- Merida roteò gli
occhi e si riavviò in
cucina-“Basta darti una serata libera e una bottiglia. Farai
tutto da sola.”-
-“Questo
è un colpo basso.”- si lamentò
stiracchiandosi -“Non stavo così male.”-
-“Mmh-mh.”-
la rossa tornò indietro,
con il caffè –“Chi è
Christopher?”- le chiese a bruciapelo, sedendole accanto.
Anna prese un sorso
di caffè e fece una
faccia disgustata: “Mio dio, è amaro!”-
-“È
caffè, cosa ti aspettavi?”-
-“Sinceramente,
della cioccolata.”-
-“Non
sviare il discorso…Christopher, chi
è?”-
-“Lui
è…ehm.”- valutò le varie
risposte
che le frullavano in mente, poi scelse la meno improbabile -
“Il fattorino
carino della pizzeria all’angolo.”-
Il sopracciglio
sinistro di Merida
schizzò su, fin quasi all’attaccatura dei capelli:
“Sul serio? Questa è la
risposta migliore che quel tuo cervello spostato riesce a
darmi?”-
-“Mi sono
appena svegliata, cosa
pretendi!”-
-“Non
è il sonno che ti annebbia la
mente, mia cara. Sono i fumi dell’alcool che ancora ti
circolano in corpo.”-
puntualizzò, facendole segno di bere il caffè
–“Si può sapere quanto hai bevuto
ieri sera? Per la pellaccia di Mor’du, non ricordi nemmeno
chi ti ha
riaccompagnata a casa!”-
-“Chi
è Mor’du?”-
-“Anna!”-
Sospirò:
“Christopher?”- chiese
esitante, guardando Merida dal bordo del bicchiere.
La coinquilina
annuì: “Ti ho trovata
sulla porta, tra le braccia di questo Christopher, mezza intontita e la
faccia
di una che si era divertita abbastanza.”-
ridacchiò a quelle ultime parole-
“Cos’è, hai già dimenticato
il tuo principe azzurro senza macchia e senza
paura, in sella al suo cavallino rampante?”- la
pungolò con un dito.
-“Aspetta
che?”- balzò
sull’attenti-“Cosa
intendi per tra le braccia di questo
Christopher? Noi
stavamo…”-lasciò in sospeso la frase,
ingoiando a vuoto.
-“Non
sulla porta di casa, per lo meno.
Ma non so prima dove tu sia stata e cos’abbia
fatto.”- scrollò le spalle-“Ti
sei divertita?”-
-“Non
è successo niente, ne sono
assolutamente certa: sono stata da Olaf, e c’era la
semifinale di campionato e
credo d’aver bevuto da sola, almeno all’inizio.
Poi…poi”- si colpì la fronte
-“Ma certo, Christopher! Tranquilla, è il cugino
di Olaf. Ora ricordo tutto: mi
ha solo riportata a casa, non è successo
nient’altro.”- sorseggiò ancora il
caffè- “Che ti dicevo, dovevo solo svegliarmi
meglio.”- incrociò i piedi sul
tavolino davanti a sé, poi li riabbassò
velocemente, colpita da un pensiero-
“Hans non dovrà mai venire a sapere di questa
cosa, non vorrei che si facesse
un’idea sbagliata. Intesi?”- farfugliò.
-“Croce
sul cuore.”- la prese in giro
l’amica.
Merida prese il
telecomando,
abbandonato sul tavolino, e si sistemò meglio sul divano,
accendendo la tv: “Peccato
che non sia successo niente.”- blaterò, facendo
sobbalzare Anna.
-“Che vuoi
dire?”-
-“Sai,
Christopher non è niente male.”-
ridacchiò.
-“Ah si?
Non me ne sono accorta.”-
tergiversò, guardando casualmente lo schermo della tv dove
passavano una replica
dei Muppets.
-“A me non
sembrava: lo guardavi come
si guarda qualcosa da mangiare. Avrei scommesso che l’avresti
morso.”-
-“Non
essere ridicola. Christopher è
l’idiota del caffè, non potrebbe mai piacermi in quel senso.”-
-“L’idiota
del caffè?”- chiese Merida,
sempre più curiosa.
-“Storia
lunga e noiosa.”- tagliò corto
Anna, strappando il telecomando dalle mani dell’amica. Fece
zapping per alcuni
secondi, poi scelse il notiziario: il giornalista della pagina sportiva
si
stava lanciando in un caloroso resoconto della schiacciante vittoria
dei
Broncos alla semifinale della sera precedente.
-“Dico sul
serio. Sei sicura che Hans
sia sempre la tua prima scelta?”- Merida si
riappropriò del telecomando,
facendole quasi versare il caffè addosso.
-“Assolutamente
si. E poi non lascerei
mai Hans per uno appena conosciuto.”- puntualizzò.
-“Hans
l’hai conosciuto una sera di tre
mesi fa, te ne sei innamorata al primo sguardo e state praticamente
assieme…grande coerenza da parte tua.”-
-“Ma Hans
è…”-
-“Ti prego
non dire l’uomo della tua
vita.”- la stoppò sul nascere-“Se
dovessi ascoltare ancora una volta i tuoi
discorsi deliranti sul vero amore, potrei morire sul serio.”-
-“Ma
è così! La nostra è una di quelle
storie d’amore che capita una volta in dieci generazioni:
siamo fatti l’uno per
l’altra.”-
-“Hai
fame?”- le chiese all’improvviso,
alzandosi dal divano e dirigendosi nella piccola cucina.
-“Cos’è
questo cambio di registro?”-
chiese sospettosa Anna.
-“Devo
trovare un modo per tapparti la
bocca.”- aprì il frigo e ne cacciò le
uova e il latte -“Allora? Qualche
preferenza?”-
-“Mmm no.
Basta che sia roba
commestibile. Ho una fame che mangerei anche te.”-
-“E che
pancake siano, allora!”-
esclamò Merida, soddisfatta d’aver messo a tacere
sul nascere qualsiasi
sproloquio/soliloquio sulla compatibilità di coppia tra Anna
e il suo principe
delle favole.
-“Credo
dovremmo fare della spesa se
non vogliamo mangiare cereali e Coca Cola per pranzo. Te la senti di
scendere?”-
-“Certo.
Dammi da mangiare per riempire
questo buco nero che ho nello stomaco, un’altra aspirina e
mezz’ora per
prepararmi e sarò operativa.”- le rispose tra uno
sbadiglio e l’altro.
-“Le
aspirine sono nell’armadietto in
bagno, i pancake saranno pronti tra un po’
e…Anna?”-
-“Mmh?”-
-“I denti.
Lavali.”-
-“Mer!”-
fece scandalizzata.
-“Hai un
alito che sveglierebbe i
morti.”-
Anna le
lanciò una delle sue ciabattine
rosa fosforescente, che volò dritta dal salotto alla cucina,
colpendo in pieno
il cartone del latte, rovesciandone fuori tutto il contenuto.
-“Anna! Ma
dico, sei impazzita?”-
sbraitò la scozzese rossa in viso, con goccioline di latte
che le cadevano dai
riccioli rossi.
-“Ops…quando
sono sbronza la mia mira
ne risente.”- disse trattenendo a stento le risate.
-“Ah, ora
saresti sbronza?! Beh, grazie
alla tua mira puoi dire addio ai pancake. Ci toccherà andare
alla tavola
calda.”-
*-*-*-*-*-*-*
-“Che
ti avevo detto: fare la spesa a stomaco pieno, aiuta a non comprare
cose
inutili e nocive per la salute.”- sorrise contenta Merida
spingendo il carrello
pieno di frutta e verdura giù per la corsia del supermercato.
Avevano
da poco lasciato la tavola calda sotto casa, dove avevano consumato una
colazione degna di quel nome: uova e bacon, pancake e caffelatte.
-“Per
me abbiamo esagerato con la natura... ci sono troppi pochi coloranti e
zuccheri.”- si lamentò Anna mentre osservava con
l’acquolina in bocca gli
scaffali pieni di biscotti e dolciumi che le correvano ai lati.
Un
verso deliziato le sfuggì di bocca quando passò
davanti ad uno scaffale pieno
di buste colorate e si fermò estasiata.
-“Mer!
Mer, ti prego! Una di queste, una sola, poi chiuderò il
becco e non mi lamenterò
più per il resto della settimana.”-
le mostrò una confezione di marshmallows ricoperti di
cioccolato.
-“Poniti
questa domanda: sono necessari?”-
-“Assolutamente
si!”- sbottò.
-“A
cosa ti servono, sentiamo.”-
-“Te
l’ho mai detto che soffro di cali di zuccheri?”-
-“Tu?
Di cali di zuccheri?”- Merida scoppiò a ridere
–“Tu hai una raffineria di
zucchero in corpo, non uno stomaco, altro che cali.”- la
scozzese riprese a
camminare, spingendo il carrello verso le casse.
-“Allora?
Posso prenderne una?”- continuò Anna, correndole
dietro con la confezione
stretta saldamente tra le dita, come se da essa dipendesse la sua vita.
Merida
guardò prima la faccia sorridente e supplicante di Anna, poi
il pacchetto
incriminato. Annuì rassegnata, indicandole di metterlo nel
carrello con il
resto della spesa.
-“Sai,
da quando abito con te, non ti ho mai vista mangiare nulla di sano.
Praticamente
ti nutri di biscotti, pasticcini, noodles in scatola, degli hamburger
di Olaf,
occasionalmente di uova e bacon della tavola calda e non sia mai che
manchi
cioccolato in quantità industriale nella tua
dieta!”-
Anna
mise su il broncio, farfugliando tra sé che era grande e
poteva mangiare ciò
che più le aggradava.
-“Almeno
stasera mangerai qualcosa di buono. Ho deciso di preparare lo stovies
(*).”-
disse mettendosi in coda per pagare.
-“Devo
preoccuparmi?”- saltellò sul posto Anna,
affiancandola.
-“Fidati,
mi chiederai di rifarlo.”-
-“Se
è buono la metà della cena del Ringraziamento,
allora di sicuro.”-
Merida
controllò velocemente che ci fossero tutti gli ingredienti
necessari e sospirò
scocciata- “Ho dimenticato le carote. Ti dispiacerebbe
andarle a prendere?”-
-“Poniti
questa domanda:”- le fece il verso-“sono
necessarie?”-
-“Si.”-
le rispose con la faccia più seria che riuscì a
tirare fuori.
Anna
si avviò sconfitta giù per i corridoi del
supermercato, canticchiando a bassa
voce, fino al reparto degli ortaggi che, per quanto non le piacessero,
erano
una gioia per gli occhi: il rosso dei pomodori, il giallo delle
pannocchie, il
verde dei cavoli e l’arancio delle carote.
Si
avvicinò a passo svelto allo stand e valutò quali
prendere, osservandole con
occhio critico, con una mano sotto il mento e il dito indice che le
batteva
sulle labbra al ritmo della musica che suonava bassa
nell’aria.
A
casa non era mai lei a fare la spesa. Di solito se ne occupava la
governante o
al massimo la mamma. Né lei né Elsa avevano mai
messo piede in un supermercato,
prima di New York. Si vergognava di confessarlo alla coinquilina,
perché
avrebbe potuto tacciarla di essere ancora più inutile di
quanto già non fosse.
Sostò
lì per alcuni minuti indecisa: non voleva scegliere quelle
sbagliate,
altrimenti Merida l’avrebbe rimandata indietro a prenderne
altre. La scelta di Anna,
borbottò tra sé.
Quando cominciò a battere anche il piede destro in terra, e
prima che
cominciasse ad ancheggiare come un’invasata al ritmo della
musica, qualcuno si
schiarì la voce alle sue spalle, facendola sobbalzare. Si
portò le mani al
cuore, voltandosi di scatto.
-“Oh
mio dio!”- esclamò- “Sei solo
tu.”- poi si ricompose.
-“Ciao
anche a te.”- la salutò Kristoff cercando di
aggirarla.
Anna
arretrò, presa alla sprovvista, andando a sbattere contro lo
stand: “C-che
fai?”
-“Carote.”-
-“Che?”-
-“Dietro
di te.”-
-“Oh…c-certo.”-
Anna gli fece spazio e lui afferrò le prime che gli
capitarono a tiro. Poi le
rivolse un cenno del capo e fece per andarsene.
-“Aspetta!”-
lo richiamò, guadagnandosi uno sguardo interrogativo e
lievemente scocciato
–“I-io…ti dispiacerebbe sceglierne anche
per me? Si, insomma le…”- fece un
colpo di tosse per nascondere l’imbarazzo della
voce-“ ehm, carote.”-
-“Dici
sul serio?”-
-“Ti
sembro una che scherza?”-
-“Tu
sei pazza.”- si voltò di nuovo per andarsene.
-“Anche,
ma ascolta: devo sceglierle per la mia coinquilina, che è
già alla cassa, e se
prendo quelle sbagliate potrebbe anche decidere di sbattermi fuori sul
pianerottolo e, per quanto sia confortevole, non mi sembra proprio il
luogo
ideale per vivere. Inoltre ti disturberei a tutte le ore del giorno per
ogni
minima cosa, quindi se non vuoi che…”-
-“Cosa
stai blaterando?”-
-“Le-carote-sono-di-vitale-importanza!”-
sillabò.
Kristoff
la osservò bene, senza parole: la rossa sembrava venuta
fuori da uno di quei
cartoni animati per le bambine, tutta pimpante e chiassosa, e il
maglione
natalizio con una renna sul davanti che le spuntava dal cappotto, non
faceva
altro che confermare la sua teoria sulla dubbia sanità
mentale della ragazza
che aveva di fronte.
Sospirò
demoralizzato, acconsentendo in silenzio alla sua richiesta; prese un
mazzo di
carote e gliele passò: “Contenta?”-
-“Sicuro
vadano bene?”-
-“Fidati.”-
-“Cos’è,
sei un esperto di carote?”- indagò petulante.
-“Le
vuoi o no?”- sbottò scocciato, agitandole gli
ortaggi arancioni davanti al
viso.
Anna
le afferrò e gli rivolse un’occhiataccia:
“Non c’è bisogno di essere
scortesi.”
Il
ragazzo le voltò di nuovo le spalle e si avviò
giù per un altro reparto. Anna
lo seguì a ruota e lo affiancò, scrutandolo da
capo a piedi con un sorrisino
sulle labbra.
-“Vedo
che ti sei ripresa alla grande dalla super sbronza di ieri.”-
-“Mmh,
si. Merito del caffè e delle aspirine.”-
Fecero
silenzio. Era una situazione imbarazzante.
-“Non
hai qualcun altro a cui dare i tormenti, lentiggini?”- le
chiese, innervosito
dalla sua presenza assillante.
Anna
storse il naso al soprannome, ma lasciò correre:
“Non ti sto seguendo. Stiamo
solo facendo la stessa strada.”- puntualizzò,
rovistandosi nelle tasche del
cappotto.
Tirò
fuori degli incarti di caramelle, le chiavi
dell’appartamento, un biglietto
usato della metro e degli scontrini di Starbucks, prima di trovare
quello che
stava cercando.
-“Tieni.”-
gli porse un cartoncino giallo.
-“Cos’è?”-
le chiese senza prenderlo, guardando il pezzo di carta come fosse un
serpente
velenoso.
-“U-un
buono per la lavanderia. Si insomma, per ringraziarti per ieri sera e
per le
carote. Ti devo ancora un caffè, ma questo mi sembra un buon
inizio.”- gli
sorrise, facendogli cenno di prendere il buono.
Lui
arrossì impercettibilmente, almeno così le
sembrò, e distolse lo sguardo:
“N-non ce n’era bisogno. Ho fatto solo un favore ad
Olaf…”-
-“Insisto.
Ti ho creato solo guai dal primo momento: ricordi l’incidente
della metro?”-
gli disse correndogli dietro per mantenere il suo passo.
-“Come
dimenticarlo.”- ridacchiò lui, indicando la
macchia di caffè schiarita che
ancora imbrattava la fronte del suo cappotto.
-“Prendilo,
su.”- continuò, sorridendogli riconoscente.
Lui
lo afferrò e per un momento le loro dita si sfiorarono, ma
nessuno dei due
sembrò accorgersene.
-“Grazie.”-
le disse guardandola per la prima volta dritto negli occhi.
-“Figurati.”-
gli rispose scrollando le spalle, sostenendo il suo sguardo. Ecco
perché quella
mattina aveva associato il cioccolato alla sua figura: i suoi occhi
erano
praticamente del colore della cioccolata calda che amava tanto.
-“Anna!
Ma quanto c’hai messo?”- la riscosse una voce,
facendola sussultare.
Merida
aveva un diavolo per capello: l’aveva aspettata per ben dieci
minuti davanti
alle casse e aveva ceduto il posto a venti persone diverse. Odiava
aspettare.
-“Stavo
per mandare una squadra di soccorso a cercarti!”-
esclamò, prendendo le carote
dalle mani dell’amica-“Ci voleva tanto per delle
stupide carote?”-
Anna
e Kristoff si scambiarono uno sguardo: “Cosa ti avevo
detto?”- disse lei
scuotendo il capo.
La
scozzese sembrò accorgersi solo in quel momento del ragazzo
e lo squadrò da
capo a piedi: “Heilà, Christopher!”- lo
salutò come fosse il più vecchio dei
suoi migliori amici, con un sorriso raggiante sulle labbra mentre
punzecchiava
il fianco di Anna con un gomito.
-“Heilà
mmm…pazza con l’arco.”-
ricambiò titubante.
-“Già!
Scusa per ieri sera, non volevo essere così violenta,
ma Anna era in quelle condizioni e tu sei...”- lo
indicò gesticolando
ampiamente-“Insomma, chi non avrebbe frainteso? Mettiti nei
miei panni
Christopher, badare alla testa rossa qui, non è
facile.”- si lamentò.
-“Si
chiama Kristoff, Mer. E poi non ho mica bisogno della tata, sono capace
di
cavarmela da sola.”-
Kristoff
omise il fatto che si era appena fatta aiutare a scegliere delle
verdure, per
non peggiorare la sua situazione.
-“Ah,
siamo già passati al nome di battesimo?”- la
stuzzicò, glissando sulle sue
proteste.
-“Che?”-
-“Lascia
perdere.”- ridacchiò la scozzese, rimettendosi in
fila- “È stato un piacere, Kristoff.”-gli
disse porgendogli la
mano-“E per la cronaca, io sono Merida.”
Kristoff
la afferrò e Merida la scosse energicamente:“Si,
si, anche per me.”- si
affrettò a dire, anche se conoscere l’altra rossa
gli era sembrato più un
incontro del quarto tipo. Da dove venivano fuori quelle due invasate?
-“Beh”-
si intromise Anna- “Ci vediamo in giro, o sul pianerottolo
o…dovunque sia.”-
farfugliò, ripetendo il gesto della coinquilina.
Il
ragazzo strinse anche la sua mano e una scossa di
elettricità statica li fece
saltare sul posto.
-“S-si…c-ci
vediamo in giro.”- bofonchiò lui allontanandosi.
Anna
si strinse la mano al petto e lo guardò allontanarsi con le
spalle incurvate.
-“Tipo
singolare.”- le disse Merida ridacchiando sorniona.
-“Smettila,
ho capito a che gioco stai giocando.”- la ammonì-
“Se proprio ti interessa
tanto perché non te lo prendi tu?”-
-“Non
è il mio tipo.”- tagliò corto.
Prima
che Anna potesse controbattere che il suo tipo ideale poteva essere
solo un
orso, il cellulare le cinguettò in tasca.
Passo a
prenderti alle 9 in punto. Andiamo a cena in un posto speciale.
-“Anna?
Anna!”- Merida le agitò una mano davanti al viso
–“Stai bene? Fissi quello
schermo con uno sguardo che potrebbe bucarlo.”- la
trascinò per un braccio alla
cassa: era finalmente arrivato il loro turno –“Chi
ti ha scritto?”
-“Hans.”-
soffiò fuori, con occhi sognanti.
-“Ah,
ecco spiegato quello
sguardo.”-
sbuffò –“Cosa dice? Che anche stasera ha
da fare?”-
-“Tutt’altro.”-
Anna le piazzò il cellulare sotto gli occhi
–“Credo che il tuo stovies dovrà
aspettare.”-
(*)Stovies:
piatto tipico scozzese a base di carne e verdure. Tipo un Gulash, per
capirci.
NdA:
Saaaaaaalve! Come ve la passate da queste parti? Spero con tutto il
cuore che
stiate tutti bene ;) Era da un po’ che questa storia non
veniva aggiornate, eh!
Credevate che fossi morta, vero?! Non vi libererete mai di
me...muahuhauahuah!
Ne è passata di acqua sotto i ponti in tutti questi mesi,
sono successi fatti,
ho fatto cose e la vita è andata avanti. Eppure il fatto di
dover aggiornare
questa ff ha continuato a martellarmi in testa per tutto il tempo XD
Sarò
sincera: sono stata tentata di abbandonare tutto e tirare i remi in
barca. Non
avevo proprio voglia di continuarla, né questa né
le mie altre ff, un po’ per
mancanza di ispirazione, un po’ per pigrizia e un
po’ per i tiri mancini della
vita reale, che sembrava essere di mezzo ogni volta che mi accingevo ad
aprire
word. Ma grazie ad Adriana (aka Amberly_1, accendete una candela per
questa
santa ragazza che mi ha praticamente tenuto compagnia tutti i giorni,
mi ha
letteralmente raccolto con la paletta e mi ha rimesso in carreggiata
con le sue
dolcissime parole e i suoi preziosi consigli! Senza di lei questo
capitolo non
esisterebbe!) e alle recensioni che non sono mai mancate in questi
mesi,
nonostante la mia lontananza da efp, la voglia mi è un
po’ ritornata, se non
per il bene della storia, almeno per la vostra felicità
(spero! XD).
Anyway,
now I’m back snowflakes ^.^
Spero
di poter aggiornare presto anche Slice of Life in Arendelle e la
raccolta di
one shot Kristanna *.*
Come
sempre, ci si legge in giro! ;)
Ah,
per poco non me ne dimenticavo: in questi mesi mi sono un po’
cimentata con
Gimp, che per chi non lo sapesse è un programma di grafica,
e dopo vari
tentativi e molti fallimenti, sono riuscita a creare delle
cover/copertine per
questa ff. Fanno schifo, lo so! XD Vorrei che voi ne sceglieste una e
quella che piacerà di più sarà la
copertina permanente di Dirty Little Secrets :) Se poi queste non vi
piacciono
e qualcuno di voi a tempo perso volesse cimentarsi come me e ne volesse
creare
una propria, io sono aperta a tutto XD
Ecco,
ora ho davvero finito!
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