Lei era una ragazza
incredibilmente sola. Assunta vedeva sempre che se ne stava in
disparte, a gambe incrociate e con un libro in mano. Aveva i capelli
nerissimi legati in una coda bassa, gli occhiali e le sopracciglia
spesse; vestiva di nero e molte ragazze la prendevano in giro. Era
diversa da loro: Assunta, come molte altre ragazze della loro
età,
aveva cominciato a lavorare da ragazzina, mentre lei ancora studiava
o fingeva di farlo, dicevano le malelingue, in modo che non potesse
sporcarsi le mani. Si sedeva sui gradini della fontana di Piazza
Lamarmora e leggeva anche per delle ore, come se potesse spostarsi
dal loro mondo al suo, quello immerso in quelle righe, in quelle
pagine, in quei libri che divorava uno dopo l'altro. Assunta era
incuriosita da lei: erano state nel banco vicino alla scuola
elementare ed era sempre stata una bambina molto strana, crescendo si
erano perse di vista e avrebbe voluto parlarle, sapere come stava,
sapere perché non si sforzava di fare amicizia e di essere
un po'
come le altre. Così, quel nuvoloso pomeriggio, si strinse la
borsa
sotto braccio e si tirò indietro i capelli corti, lisci,
schiarendosi la gola, avvicinandosi a lei a passo quieto. Non sapeva
come intraprendere un discorso, così s'inchinò
appena e le sventolò
una mano a poco dal viso, attirando la sua attenzione.
«C-Ciao»,
esordì, schiarendosi
la gola ancora una volta. «Sono Assunta, t'arrerc- [ti
ricord-]»,
l'altra la interruppe: la voce ferma, glaciale.
«Du sciu chini sesi [So
chi
sei]». Le alzò il viso appena, prima di
posarsi di nuovo a
quelle parole scritte a macchina.
«Oh, mellusu aicci [meglio
così]», sospirò, guardandosi
indietro per un attimo: uomini
leggevano i quotidiani sdraiati sulle sedie del bar davanti, ragazze
civettavano intorno a dei ragazzi più presi da se stessi e
dai
propri capelli che da loro, e bambini tiravano le giacche color
pastello delle loro madri, che parlavano e ridevano posando
delicatamente una mano alla bocca. Forse cercava una distrazione.
Voleva conoscerla ma lei non sembrava interessata a sua volta. Stava
per riaprire bocca quando udì il suo nome e si
voltò, ritrovando le
sue amiche Efisia e Gavina, a braccetto, che la intimavano di
avvicinarsi. «Scusami, devo andare», le
sussurrò, allontanandosi.
Le due amiche la accolsero con un forte abbraccio, trascinandola via.
«Amicizia noa,
lè? [Nuova
amica, eh?]», rise Efisia, allontanandosi un
ricciolo nero dal
viso.
«Figuraridda [Figurati]»,
rispose con sarcasmo, alzando gli occhi al cielo, «Volevo
vedere cosa stava leggendo, non fa altro tutto il giorno, cussa in
gunis' [quella lì]».
Risero, allontanandosi,
seguite a
vista dallo sguardo attento sotto gli occhiali della ragazza.
Daniele stava fuori di casa
con
entrambe le mani alla bocca, continuando a passarsele in viso e ai
capelli, in gesto disperato. I carabinieri lo avevano trattenuto
fuori e non gli avevano permesso di rivedere il corpo di sua nonna. I
vicini erano tutti fuori dalle loro case e guardavano la scena che si
stava consumando a pochi passi da loro come avrebbero fatto con una
telenovela in televisione e gli si poteva scorgere parlottare e
indicare, a volte. Lei stava al suo fianco ma lui continuava a
spostarsi, a inchinarsi, a sbattere i piedi a terra, a stringere i
pugni e a urlare senza voce. I genitori di Laura gli avevano aperto
la porta di casa, promettendogli che poteva stare da loro e con loro
quando e come voleva, ma lui non ascoltava, era distante. Portarono
fuori sua nonna sotto un telo nero e mancò il fiato a
entrambi,
fatti allontanare dai carabinieri.
«Dani, andiamo
dentro»,
sussurrò con un filo di voce appena, così
asciutta da bloccarle il
respiro. «Non ci fanno avvicinare, lo sai». Gli
allungò la mano
alla spalla ma lui si scansò come se ne avesse paura.
«No, no»,
si voltò, fissandola
ad occhi sgranati, rossi e lucidi, «Adesso… Adesso
torno da mia
madre. Ho bisogno… Ho bisogno di mia madre»,
annuì, abbassando
per un attimo lo sguardo. Lei immobile. «Lei deve venire qui,
ma
prima devo andare io da lei», annuì ancora, come
se la sua mente
facesse domande per poi rispondersi da sola.
«Va bene»,
tentò un sorriso
malinconico. «Vengo con te. Potreste aver bisogno di me.
È da molto
che non vedo tua mad-».
«No»,
quasi le urlò e lei
sobbalzò, «No. Vado io. Non… Non
seguirmi», la intimò,
puntandole contro un dito, prima di allontanarsi con passo pesante
verso una delle macchine dei carabinieri.
Sua madre le poggiò
una mano
sulla spalla come per consolarla e lei fissò il ragazzo con
sguardo
attento, serio.
Assunta era una donnina
estremamente tenace, se si metteva in testa qualcosa. Le sue amiche
le avevano caldamente consigliato di lasciar perdere quella
strana, ma lei si era messa in testa di salvarla dalla sua
condizione di solitudine e vittima, e di provare a farle capire
com'era stare in compagnia, in amicizia. Convinse Gavina ed Efisia ad
uscire tutte e quattro insieme un pomeriggio che non avevano da
lavorare, uscendo di casa senza essere viste dai loro genitori, e si
ritrovarono in Piazza Sella, fra imbarazzi e risate sottomesse.
Gavina in verità era molto in ansia per essere uscita senza
avvertire nessuno ed Efisia la spintonava per tentare di
tranquillizzarla; era quasi sorpresa di scoprire che anche quella
strana aveva il suo stesso timore e si guardava attorno con angoscia
e scontento. Si fecero una lunga passeggiata avanti e indietro fra la
piazza e le vie adiacenti, fermandosi di tanto in tanto all'ombra
degli alberi per far riposare la testa lontana dal sole. Assunta
tentava con ogni mezzo di far parlare la ragazza, di metterla a suo
agio senza grande successo, ma le altre due continuavano a prenderla
in giro, spingendola, ridendo di lei e di quello che diceva appena
trovava il coraggio di aprire bocca. Assunta le trovava divertenti ma
la nuova arrivata non sembrava apprezzarle allo stesso modo. Un
gruppo di ragazzi attirò la loro attenzione e, mentre le tre
amiche
intrattenevano i giovani, lei se ne stava in disparte a guardare per
terra, immobile, ansando come un pesce fuor d'acqua. Assunta sapeva
che lei doveva sentirsi fuori luogo ma sperava che provasse a
sciogliersi, così le inviò un tale Mario per
farle compagnia e lui
sembrò gradire. Indossava un completo marrone chiaro e i
capelli ben
pettinati: sperava fosse il suo tipo poiché, secondo lei,
era
semplicemente affascinante. Mario le mostrò uno dei suoi
migliori
sorrisi ma lei lo aveva scrutato appena, riabbassando velocemente lo
sguardo, come rapita dal suo mondo interiore. Il ragazzo aveva
provato a prenderle un fiorellino giallo da un'aiuola e a
offrirglielo in dono, ma lei rifiutò anche quello, scuotendo
selvaggiamente la sua testa nera. Assunta sbuffò e tale
Mario allo
stesso modo. Una volta tornate a casa, Efisia e Gavina speravano di
poter in parte dimenticare quella serata imbarazzante, ma Assunta,
anche se per un attimo si era sentita decisamente sconfitta, non era
pronta a rinunciarci e aveva provato ad avvicinarsi alla ragazza
strana ancora, e ancora, e ancora, creando una piccola crepa
sul
suo scudo invisibile, definendola amicizia.
Daniele aveva deciso di
prendere
il primo pullman per Carbonia quella stessa sera. Aveva avuto il via
libera dai carabinieri per prendere alcune delle sue cose dalla loro
casa e, con sguardo smarrito e sofferente, aveva trascinato uno zaino
dall'aspetto pesante fin su alla panchina della fermata, senza volere
aiuti di nessun tipo. Di tanto in tanto si guardava alle spalle come
se si aspettasse di vedere qualcosa e poi riaffondava il viso tra le
mani, scuotendo la testa.
Lei lo aveva seguito e lo
scrutava con insistenza da dietro la parete di un'abitazione. Le si
spezzava il cuore a vederlo in quello stato per sua nonna, d'altronde
anche lei stava soffrendo molto: Laura le aveva voluto molto bene e
quei sentimenti sembravano voler tentare di lacerarle qualcosa
dall'interno. Riabbassò un poco lo sguardo e si volse
indietro,
udendo dei passi, scontrandosi con un'enorme faccia nera: quella
maschera aveva un naso gonfio, la bocca pendeva pesantemente verso il
basso in una forma che ricordava quasi un ferro di cavallo e i suoi
occhi erano delle fessure piccole e arrabbiate, accentuate dalle
rifiniture del legno che rappresentavano le sopracciglia. Gli occhi
al di là della maschera erano neri e la fissavano con
severità. Lei
tremò impercettibilmente, tornando indietro di mezzo passo e
sbattendo le spalle contro il muro.
Non sapeva cosa fare.
Quell'essere era reale ed era davanti a lei, in una presenza forte e
maestosa, nonché inquietante. Prese coraggio e spinse quel
mamuthones spalancando i palmi delle mani, tastando il crespo e
vischioso manto nero e marrone. Gli scivolò accanto e corse
via,
sperando di seminarlo.
Per un po', Gavina ed Efisia
giurarono di troncare la loro amicizia con Assunta se lei non avesse
smesso di invitare ai loro ritrovi quella ragazza strana.
Continuavano a ripetere che lei non era una di loro e che non lo
sarebbe stata mai, ma, soprattutto, che non era la benvenuta. Quella
ragazza aveva iniziato a fare conversazione, anche se breve, e a
ridere, per giunta. Quella piccola crepa sul suo scudo invisibile
fatta da Assunta con tanto sforzo si era dilatata e aveva stretto una
connessione con la loro amica. Loro due avevano tentato più
volte di
ferirla, facendola apparire ancora più inadeguata a ogni
cosa più
di quanto da sola già non fosse, ma la sua amicizia con
Assunta si
era fatta così forte che a lei non interessava
più apparire sciocca
davanti a lei e ci rideva un po' su, dopo un attimo appena di
disorientamento.
Un pomeriggio, le due ragazze
erano uscite di casa con l'intento di parlare con Assunta e dirle
ciò
che pensavano senza impedimenti e, per questa ragione, le avevano
chiesto di farsi trovare un po' prima del solito orario, in una via
senso unico, piccola e poco trafficata. Imboccarono Via Nuova e
girarono a destra, sotto un breve tunnel, arrivando dinanzi a una
scena raccapricciante: non solo la ragazza strana era già
lì, ma
con le mani congiunte e soffiandoci sopra, riusciva a creare dei
piccoli giochi di luci e colori, osservata da Assunta che era a un
metro da lei, a bocca aperta. Loro due gridarono e la ragazza strana
sbatté le mani, facendo svanire la magia.
Assunta spalancò
gli occhi,
indicando l'altra. «Avete visto anche voi
cosa…?». Le due la
presero per le braccia e la trascinarono di qualche passo
più
indietro, sfidando con lo sguardo la poverina che, spaventata
dall'intrusione, si era messa a boccheggiare dall'ansia.
«Sesi 'na macca [Sei
una
(ragazza) matta]», le gridò Gavina,
irrigidendo i denti.
«Du sciemmu ga no
viasta 'na
giusta [Lo sapevo che non eri una (ragazza) sana]»,
rincarò
Efisia, in preda alla collera.
Disperata e sul punto di
piangere, la ragazza si rivolse alla sua unica amica, implorando
aiuto con il solo sguardo. Assunta la fissava senza parole
finché,
di scatto, non abbracciò le due amiche al suo fianco,
fissandola con
sgomento, iniziando a scuotere brevemente la testa. «M'anti
chistionau de… de cussasa diaicci…
[Mi hanno parlato di
quelle
così]».
L'altra iniziò a scuotere la testa a sua volta, sussurrando
di non
dare retta a quelle voci; aveva preso passo verso di lei quando
Assunta si fece indietro, e così si fermò,
deglutendo. «Diacci
cummenti e tui! [Così
come te] No, no, ti credevo adiversa, mi spraxiri. [mi
dispiace] Diarerusu!
[Davvero]
Sembri una…», prese una breve pausa, squadrandola
da capo a piedi,
mentre lei scuoteva la testa sempre più forte e irrigidiva i
denti,
«Una… Sa bruxa [La
bruxa]».
Le
altre due concordarono e, iniziando a chiamarla in quel modo con
urla, finirono per farla scappare via. Lei e Assunta si scambiarono
un ultimo e lungo sguardo prima che la seconda venne spinta dalle
amiche verso Via Nuova per vedere quella ragazza fuggire e gridarle,
con tutta Iglesias presente, della sua natura di strega. Tale Mario e
il suo gruppo di amici le sbatterono contro e, mentre le tre ragazze
si allontanavano, la seguirono.
Assunta
si era sempre sentita un po' in colpa per ciò che era
successo con
quella ragazza ma, quando le ritornava alla mente quel giorno,
pensava di aver fatto la cosa giusta: sapeva che le bruxa amavano
nascondere la loro vera indole e giunse alla conclusione che quella
ragazza mite era solo finzione. La bruxa aveva tentato di ingannarla
e si era mostrata in parte per ciò che era con quel
trucchetto di
stregoneria nera, per convertirla alla sua fede religiosa, qualunque
essa fosse. Dopotutto, nessuna delle tre l'aveva mai vista andare a
pregare, e men che mai parlava di messe. Giunsero facilmente alla
conclusione che era una figlia del diavolo.
Speravano che, per la vergogna
di
essere stata scoperta, la bruxa avesse abbandonato la loro amata
città, ma quando la rividero quasi un anno più
tardi con in braccio
una neonata, pensarono di intervenire.
Erano
comparsi altri mamuthones: tre erano sui tetti e due sulle strade. La
seguivano come un'ombra e lei, per quanto corresse, non trovava modo
di lasciarseli alle spalle. La gente che dapprima la guardava con
interesse poiché pareva scappando da un nemico invisibile,
aveva
cominciato a ignorarla sempre più, stimolandola a capire di
stare
diventando lei quella invisibile: pensò che la stavano
trascinando
in un'altra dimensione. Si fermò, guardandosi attorno, e le
macchine
e i pedoni scomparvero a poco, lasciando una città vuota e
senza
rumori, se non quelli dei campanacci che si diffondevano rapidamente
nell'aria. Lei deglutì e, stringendo i pugni,
tentò di infondersi
coraggio, camminando sull'asfalto deserto.
«Va
bene», sbatté le mani contro ai fianchi,
«Mi arrendo. Sono la
prossima?», sbraitò. «Avete ammazzato
quelle signore e adesso è
il mio turno?», ringhiò con rabbia ed
esasperazione, «Si può
sapere cosa vi ho fatto da meritarmi questo?».
I mamuthones scesero per la
strada e la circondarono come una preda, iniziando a canticchiare,
ballando con cadenza ritmica intorno a lei, facendo in modo che i
campanacci suonassero sempre più forte. La danza
terminò solo
quando apparvero gli issohadores. Erano in quattro e giunsero dal
nulla, disponendosi a poco dai mamuthones; svolsero dal cinturino in
vita la loro arma, il lazo, e presero a picchiettarlo per terra,
richiamando all'ordine il loro gregge. Uno di loro si fece spazio fra
i mamuthones e avanzò dei passi verso di lei, schiarendosi
la voce
roca.
«Sai bene
perché sei qui»,
enunciò, intanto che gli altri tre picchiettavano ancora il
lazo
sull'asfalto freddo. «Non abbiamo ucciso noi quelle
donne», strinse
con forza il lazo, come colto da un impeto di rabbia, sotto la sua
anonima maschera bianca, «ma
tu».
Lei ansimò,
cambiando
improvvisamente espressione, facendosi fredda e scostante. Lo
fissò
per un breve attimo, riconoscendolo: l'issohadores era lo stesso che
l'aveva presa con il lazo quel giorno, a carnevale; per poco non le
scappò una risata, al pensiero che fin dal suo ritorno in
patria
l'avevano inquadrata, senza eppure riuscire a fermarla.
Il pullman diretto a Carbonia
non
rallentò verso la fermata, poiché non c'era
nessuno ad aspettarlo:
Daniele se n'era già andato. Vedendo scendere la notte, i
genitori
di Laura provarono a telefonare a lei e il ragazzo, immaginandoli
insieme dalla madre di lui, ma non rispondendo iniziarono a
preoccuparsi, guardando con velata nostalgia la pioggia che aveva
cominciato a battere sui vetri della casa. Assunta era morta e la
loro figlia e il suo amico non rispondevano. Quando udirono il
telefono fisso squillare accorsero entrambi in preda all'ansia,
rispondendo con il cuore in gola che era tardi, che doveva farsi
sentire prima, ma al telefono non era Laura. I carabinieri
comunicarono ai coniugi di aver trovato la loro bambina, anche se non
dove se l'aspettavano: il suo corpo senza vita giaceva nascosto sotto
ai tubi dell'acqua nei bagni delle signore in una stazione. A
trovarlo, fu una donna quel pomeriggio, scendendo dal treno. Era in
bella vista, sotto ai lavelli. Sembrava essere lì da giorni,
eppure
nessuno l'aveva mai vista o sentito l'odore. I due si accasciarono al
pavimento una dopo l'altro; terrorizzati, disperati, dal dolore,
faticavano a respirare.
«Non è
mai stato nei miei
piani, sapete?», dichiarò lei, reggendosi il
petto. Il cielo si era
annuvolato e la pioggia aveva inondato la strada in fretta, rendendo
i movimenti dei mamuthones più lenti, impediti dalle pelli
zuppe.
«Non parlo di loro tre… Ma di Laura», le
si strinse un nodo in
gola a pronunciare quel nome, deglutendo con fatica. «Lei era
diventata molto per me… Le volevo bene»,
confessò, riaffiorando
il ricordo di quando l'aveva rivista, in quella stazione. Aveva uno
sguardo smarrito, lei. E un sorriso innocente. Aveva deciso di
ritornare a casa, nella sua terra, che, anche se non lo sapeva, era
quella di entrambe. Si erano conosciute per caso, o così
pensava
Laura. Lei l'aveva notata per quel suo sguardo perso e meravigliato
da turista e, scoprendo le sue origini, aveva fatto in modo di
incontrarsi con quella ragazza. Una ragazza sarda era un colpo di
fortuna, per lei; soprattutto se era insicura e aveva bisogno di una
figura di riferimento. Lei era stata per Laura quella figura e
qualcosa di più. «Laura non doveva scegliere di
tornare», gridò,
mentre il suo corpo prendeva lentamente un'altra forma, squagliandosi
al contatto dell'acqua piovana come fosse stato acido, riportandole a
galla i capelli corvini e lo sguardo severo. «Mi ha
deluso»,
chiosò.
«Mi…
aspettavi?», aveva
provato a ridere. «In che senso? Mi prendi in giro? Mi hai
seguito?
Perché non mi hai detto che-».
Lei l'aveva interrotta,
tenendo
un sorriso malinconico. «Non sono stata del tutto sincera con
te,
tesoro».
Laura si era girata e aveva
sbuffato, reggendosi al lavello. «Ci mancava
questa…», aveva
sussurrato poco dopo. «Allora, dimmi».
«Ti ho amata
davvero».
Laura si era stretta le labbra
con i denti, finendo per ridere. «Mi hai seguito per dirmi
che mi
hai amata? Beh, wow, grazie… Andava bene così,
Diane, ci siamo
lasciate, mi pare… Tu non stai bene». Era tornata
un po' indietro,
quando l'altra aveva provato a fare dei passi verso di lei.
«No»,
aveva scosso la testa,
«Tu non stai bene».
Laura si era sentita
improvvisamente mancare e Diane le era corsa incontro per un ultimo
abbraccio, proprio poco prima che le ginocchia le cedessero.
«Sst…
I'm so sorry,
my dear».
Le aveva appoggiato la mano
destra al petto e, lentamente, il corpo di Laura aveva iniziato a
vibrare insieme al suo, che stava delicatamente cambiando aspetto,
prendendo quello di lei, diventando presto indistinguibili. Gli occhi
di Diane si erano spalancati e sul loro specchio si stavano
depositando le immagini di alcuni ricordi di Laura, dalla bambina
alla ragazza insicura che era diventata.
Aveva pianto. Aveva deciso di
lasciare lì il corpo vuoto, sotto ai lavelli, nascosto solo
dalla
sua magia, quella che le concedeva di poter vivere con il suo
aspetto. Si era guardata allo specchio un'ultima volta, passandosi
l'indice sugli occhi rossi, prima di prendere il trolley e ripartire.
Sapeva che il cambiamento le avrebbe riservato qualche effetto
collaterale, così si assicurò di chiudere un po'
gli occhi una
volta di nuovo sul treno per Iglesias e, soprattutto, di chiudere le
finestre con le tendine.
«Ti ha
deluso?», le fece eco
quell'issohadores, tenendo un tono accusatorio.
Lei annuì.
«Potevamo essere
felici, insieme. Avevo accantonato la mia vendetta, per lei. Ma non
è
stata abbastanza forte e io, se perdevo lei, potevo almeno riprendere
la mia vendetta», ringhiò, stringendo i pugni.
L'acqua che le scivolava sulla
pelle e sui vestiti stava continuando a scavare, mostrando altri
aspetti, altri volti, sotto quello che appariva. Visi di donne
più
grandi, dagli sguardi stressati, fino alla comparsa delle prime
rughe. Gli altri la fissavano senza intervenire, come se quell'unico
issohadores che le stava davanti le facesse da giudice e giuria.
«L'hai
uccisa», tuonò con
rabbia, pestando il lazo a terra così forte da far
spaventare alcuni
mamuthones a lui vicini.
«Dovevo»,
gridò a sua volta,
versando qualche lacrima che le scorreva lenta sul suo volto da
anziana. «Era l'unico modo… L'unica cosa che mi
avrebbe permesso
di rimettere piede qui, nella mia terra, a Iglesias. La Sardegna mi
aveva concesso di tornare, sono passati anni e la forza che mi ha
spinto via si è indebolita, ma non mi avrebbe mai permesso
di
recarmi qui, senza essere un'altra, una residente. Io dovevo essere
Laura per passare», prese respiro.
«Ti avevano
bandito», rispose
l'issohadores, «Gavina, Efisia e Assunta. Ti sei vendicata
dell'esilio con la loro morte?».
Lei mostrò un
sorriso
sconsolato, scuotendo la testa, asciugandosi una lacrima depositata
sulla ruga di una guancia. «No, no… Loro non mi
hanno solo
esiliata, caro. Cussasa… m'anti pigau sa pipia! [Loro…
mi
hanno preso la bambina] Sa pipia 'e cosa mia [La
mia
bambina]», gridò più forte.
La pioggia iniziò a
battere più
violentemente e il vento a soffiare contro di loro e gli edifici come
mosso da un'incredibile forza, mentre il cielo si faceva scuro come
le tenebre.
Assunta era stata
indescrivibilmente crudele. Sapeva dell'ostilità
più che ostentata
di Gavina ed Efisia e non se ne stupiva, ma mai si sarebbe immaginata
una tale reazione da lei, che la considerava un'amica. Lei si fidava
di Assunta ed era stata così sciocca da pensare di farle
vedere cosa
sapeva fare, del suo gioco di luci.
Aveva corso e poi camminato
per
un po', nascondendosi nella fitta campagna sulla collina,
abbandonando le strade trafficate. Era giunta ai pressi di un albero
e si era appallottolata sulle sue radici, iniziando a piangere tanto
forte che quel ragazzo non fece fatica a trovarla.
«Mario?»,
domandò, alzando lo
sguardo appannato, cercando di asciugarsi gli occhi. «Giusto?
Sesi
rui? [Sei tu?]».
Lui si abbassò il
tanto di
vederle bene il viso, tirando fuori, poi, un fazzoletto di stoffa da
una tasca dei suoi pantaloni, porgendoglielo. «Una ragazza
bella
come non dovrebbe piangere», disse lui. Vedendo che lei non
si era
mossa, il ragazzo decise di prendere l'iniziativa, raggomitolando il
fazzoletto su una mano e asciugandole il viso dalle lacrime, con
accortezza e delicatezza.
Lei restò immobile,
forse
sorpresa, tirando su con il naso.
«Ti ho vista
scappare, prima. Tu
e quelle tre non siete più amiche?».
«Io e
Assunta», rispose, «Non
siamo più amiche, no», scosse la testa,
«Efisia e Gavina non sono
mai state mie amiche».
«Capisco»,
sussurrò. Sembrò
guardarsi attorno, come alla ricerca di qualcosa, ma lei non pareva
essersene resa conto.
«T'arricheriri 'i
scusasa [Ti
servono delle scuse]», ansimò, tirando
ancora una volta su con
il naso. «Non ti ho mai dato la possibilità
di… sai, farti
aconoscere».
«Non
importa», rispose dopo un
attimo, stringendo le labbra. «Adesso mi
aconoscerai», aggiunse,
vedendo finalmente arrivare i suoi amici. «Ci aconoscerai
tutti».
Quando il gruppo se n'era
andato,
lei era ancora lì, con alcuni vestiti stracciati e mezza
nuda, fra
l'erba alta e le radici dell'albero. Anche se avesse potuto gridare e
a turno non le avessero coperto la bocca, non l'avrebbe sentita
nessuno. Si era sentita umiliata, sporca, tradita e ferita. Si era
sentita finita.
L'anziana strinse i pugni con
più
forza di quanta sembrasse dimostrarne e il vento iniziò a
girare
attorno a loro con sospetto, mentre una campanella dal suono fine e
delicato aveva iniziato a risuonare nell'aria, tanto da rendere
irrequieti i mamuthones.
«Hanno preferito
assecondare i
detti popolari a me…», ringhiò,
prendendo un pesante respiro,
«Hanno preferito togliere una bambina dalle braccia della sua
mamma…
Hanno preferito la bruxa a me. E la bruxa
hanno ottenuto»,
recitò infine con una voce metallica forte e disturbata. I
suoi
occhi si tinsero di rosso e il vento si fece ancora più
forte,
stringendo i mamuthones, che stavano per perdere il loro ordine. Gli
issohadores sbatterono il lazo a terra ma non sembrava avere un
grande effetto su quell'antico potere.
Non si era più
fatta rivedere in
giro. Aveva paura di uscire, di incontrare ancora uno di quei ragazzi
o Assunta e le sue amiche e che loro potessero leggerle la vergogna
negli occhi. Si era immersa nei libri nuovamente e più
spesso di
prima, abbandonando gli studi. Lei aveva desiderato così
tanto di
sparire da aver paura di guardarsi allo specchio, di scoprire cos'era
diventata, di capire quanto odio provasse per se stessa e la sua
debolezza. Era disgustata e infastidita. Eppure qualcosa
cambiò il
suo modo di vedere il mondo: aveva iniziato a stare male, a non
capire la ragione secondo cui il suo corpo si comportava in modo
così
dispettoso con lei da non lasciarle più il tempo di finire
un libro
in un giorno, finché non notò la sua pancia
arrotondarsi. Il
destino era stato crudele con lei, tuttavia, secondo la ragazza, gli
spiacevoli episodi che le erano capitati le avevano allo stesso tempo
fatto dono di qualcosa di infinitamente buono. Era un regalo.
Appuntava i cambiamenti
giornalieri su un blocco e, invece di leggere un libro, si rileggeva
gli appunti scritti precedentemente. Era felice e, per la creatura
che portava in grembo, era arrivata a prendere una decisione molto
importante: poiché non era sano per un piccino crescere in
una casa
nella solitudine, pensò che lo avrebbe portato a girare il
mondo,
alla scoperta delle bellezze e delle cattiverie, per non avere paura
di affrontarle come ne aveva avuto lei. Con il suo bimbo al suo
fianco, lei per prima pensava che avrebbe vinto le sue paure.
Aveva chiamato Diana la sua
bambina. Era piccola e rosa come una bambolina, le manine strette in
un pugno, il naso tondo e le labbra fini. Era per lei tutta la forza
di cui aveva bisogno.
Ogni pomeriggio aveva preso
l'abitudine di prendere la piccola e uscire di casa. Aveva iniziato
con il giardino e le vie accanto a casa sua, prendendo grandi boccate
d'aria per ogni volta che pensava di allargare un po' le zone sicure
del suo giro pomeridiano. Quando riusciva nel suo intento non faceva
che guardarsi avanti e indietro, in preda all'ansia, ma era una
vittoria a dispetto di quando la sua paura la forzava a fare un passo
indietro, stringere forte al petto la sua bambina e tornare a casa
con le gambe che tremavano. Non voleva essere debole per Diana e
darle un cattivo esempio, così tornava fuori e sfidava a
testa alta
le strade nuove che le facevano tanta paura. Lei voleva cambiare.
Fu percorrendo una strada
nuova
del suo giro pomeridiano che incontrò di nuovo Assunta,
Efisia e
Gavina. Diana aveva iniziato a piangere e lei, credendo che la
piccola avesse captato la paura della sua mamma, decise di
affrontarle.
In principio, voleva solo
salutarle. Ricordava ancora bene i pensieri che le avevano affollato
la mente: salutarle a testa alta, sorridere come mai aveva fatto,
esibire la sua bellissima bimba per dimostrare di essersi realizzata.
Temeva avrebbero scoperto che non era sposata né aveva un
padre da
dare a sua figlia, ma era talmente fiera della piccola da sfidare i
suoi timori per lei. La vergogna faceva parte del passato.
Quando incrociò i
loro sguardi,
Efisia aveva già preso Gavina sottobraccio per indicarla.
Avevano
riso come al loro solito, ma non Assunta. Quest'ultima aveva
adocchiato Diana per prima, fra le sue braccia, mentre piangeva
forte. Lei aveva cominciato a cullarla, camminando verso le tre, ma
non riusciva a calmarla.
«Ora 'e prandi? [Ora
di
pranzare?]». Assunta aveva quasi urlato e nella
vietta deserta
la voce aveva riecheggiato. Le due ragazze smisero a breve di ridere
e fissarono la bimba come cogliendo solo in un secondo momento il
nesso con il commento dell'amica. Al contrario, lei non aveva capito
e salutò le tre con un gesto rapido di una sola mano, con
innocenza,
spostando la piccina per reggerla meglio. «Dove hai preso
quel
neonato?», le chiese con vigore, mettendola in serio
imbarazzo.
«Esti filla mia [È
mia
figlia]», rispose lei, abbassando lievemente il
capo. «Diana»,
aggiunse poco dopo.
«Ti chiedo di nuovo
dove hai
preso il neonato».
«Esti filla mia [È
mia
figlia]», insisté lei.
Ma Assunta, Gavina ed Efisia
che
sapevano bene quanto quella ragazza strana non riuscisse neppure a
parlare con un ragazzo, faticavano realmente a credere alle sue
parole. Lei era una creatura di Satana, una strega il cui scopo era
quello di stravolgere le menti altrui e, le credenza popolari,
raccontavano fin troppo bene di come le bruxa si spostavano di culla
in culla per rapire bambini e divorarli. Le tre erano donne di chiesa
e fede: dovevano sapere tutto su di loro e anche come combatterle.
«Tè bedda
[Che bella]»,
dichiarò Efisia a un certo punto, mostrandole un raggiante
sorriso.
«'E berusu [È
vero]»,
aggiunse Gavina, congiungendo le mani.
Assunta
scrutò le due per un attimo e dopo annuì,
mostrando alla giovane
madre un felice sorriso. «Parriri propriu una
bedda pipia!
[Sembra proprio una bella bambina!] Da pozzu biri? [La
posso vedere?]».
Lei si accostò a
loro con
titubanza poiché la piccola non smetteva di piangere, ma i
complimenti ricevuti le avevano fatto così piacere,
soprattutto da
parte loro, che non riuscì a fermarsi. Doveva solo
avvicinarsi,
aveva pensato, e poi l'avrebbe riportata a casa. Forse aveva mal di
pancia o fame. Assunta la raggiunse e nel vedere la piccola non
riuscì a non sorridere, allungando d'istinto le mani verso
di lei e
afferrandola. Lei stava per tirarsi indietro quando era ormai troppo
tardi e, per non sembrare maleducata, lasciò che la
prendesse.
«Conosco un
qualchecosa per
farla smettere di piangere», affermò, iniziando a
cullarla. Diana
in verità continuava a strillare e probabilmente lo stare
con una
sconosciuta non faceva che aumentare il suo fastidio, ma lei non
riusciva a contraddirla.
Avvertiva il vuoto della bimba
sulle sue braccia e, per un attimo, uno strano sentore che sapeva di
nostalgia. Allungò le mani verso Assunta per riprendersela
ma lei si
spinse via facendo due passi indietro e Gavina ed Efisia le si
pararono davanti. Non capiva cosa stava succedendo ma iniziò
a
mancarle l'aria, sentendosi inerme. La sua Diana era lì a
poco da
lei ma non riusciva a raggiungerla, la stavano spingendo via, le
stavano separando. Lei piangeva e non poteva raggiungerla, non poteva
cullarla, non poteva darle un bacio. L'ansia prestò
generò terrore
che si propagò in un attacco di panico: il respiro pesante,
la testa
le girava e il corpo tremava.
«Diana»,
sussurrò, «Assunta,
sa pipia [la bambina]». Cercò
di fare due passi ma le due la
spinsero indietro e lei per poco non cadde, reggendosi a stento.
«Smettetela», quasi urlò, passandosi la
mano sulla fronte. «Sa
pipia».
«Smetterà
di piangere, ti dappu
nau [te l'ho detto]», disse a quel punto
Assunta, «Quando te
ne sarai andata».
«Bairindi [Vattene]»,
la
spinsero via.
Lei cadde. Tentò di
rialzarsi,
però il suo corpo era troppo pesante e la terra non stava
ferma.
Vedeva Gavina ed Efisia sorridere ma non ne era sicura, non riusciva
a fissarle troppo a lungo, la sua vista si stava appannando. L'unica
cosa di cui era certa era la sua bambina che piangeva, ancora e
sempre più forte, tenuta stretta da delle braccia che non
erano le
sue. Si sentiva fine, piccola, sola, incompleta. Alzava una mano per
tentare di raggiungerla ma era troppo distante e, poi, udì
ancora la
sua voce, quella di Assunta, con decisione.
«Allora non te ne
vai?», le
diceva, «Non te ne vai?». Le altre due parlavano ma
erano bisbigli
senza significato, per quanto si sforzasse non riusciva a
comprenderle, finché non le vide camminare e distanziarsi,
disponendosi in un cerchio intorno a lei. «Te ne andrai,
bruxa», le
aveva gridato dopo. «Te ne stai già
andando».
Silenzio. Il suono di una
campanella.
Il mondo che aveva iniziato a
girare si era finalmente fermato e non sentiva più Diana che
piangeva. Alzò lo sguardo lentamente come se potesse essere
accecata
dal sole e fissò le tre una dopo l'altra con gli occhi ben
strizzati, riconoscendo la sua piccola, vestita di bianco.
Capì in
quel momento che non l'avrebbe più rivista.
Le giovani donne presero per
mano
un rosario e, strisciando il pollice avanti e indietro su di esso,
cominciarono a pregare, rendendo le loro tre voci una sola forza. La
campanella sconosciuta si fece eco nell'aria mentre lei tentava di
rialzarsi; strinse così forte gli occhi che cambiarono
colore,
diventando rossi. Si alzò da terra e il vento si
rafforzò, mentre
il cielo si faceva grigio, ma era troppo tardi: sentì il suo
corpo
divenire più leggero e i suoi occhi persero lucentezza,
intanto che
l'immagine della sua piccola Diana fra le braccia di Assunta svaniva
con punti di luce.
«No». A
quel punto, non le
restò che urlare. «Assunta, ti prego! Sa pipia! Ti
prego! No! Sa
pipia». La luce la accecò per troppo tempo e si
coprì gli occhi,
continuando a urlare, finché non udì qualcosa di
diverso, caos,
risate e tanti piedi che si muovevano verso varie direzioni,
confondendola, così li riaprì, lentamente,
scoprendo di ritrovarsi
in un luogo mai visto.
Il vento si faceva sempre
più
forte e alcuni mamuthones furono sbalzati via. Il cielo aveva
iniziato a tuonare e quella donna stringeva i pugni con più
forza e
rabbia. Gli issohadores si guardavano attorno con meraviglia,
preparandosi a contrattaccare, quando uno di loro, quello che fino a
quel punto aveva parlato da solo, non decise di fare loro un cenno
con la mano per calmarli, mettendo questa sulla maschera. Dotata di
grande curiosità, la signora lasciò che il vento
perdesse potenza
per permetterle di distrarsi e guardare oltre al viso anonimo e
bianco: lui se la sfilava lentamente, lasciando intravedere un
sorriso insoddisfatto e triste e un occhio pieno di lacrime sotto il
ciuffo castano chiaro.
«Daniele…»,
esclamò
in un sussurro.
La scoperta fece cessare il
vento
e la pioggia, e appena dopo i tuoni si ritirarono con le nuvole. Una
lacrima rigò il viso della donna una dopo l'altra ma si
sforzò di
sorridere. Aveva tolto a Daniele la ragazza di cui era innamorato e
sua nonna, quella che credeva tale. Le era stata portata via la
bambina ed era in ogni caso riuscita a rovinare la sua vita e quella
di suo nipote, pensò la signora. Gli allungò una
mano per
raggiungerlo, scorgendo per un attimo il ricordo di Diana vestita di
bianco, prima che gli issohadores la legarono con il loro lazo,
stringendola.
«Dobbiamo portarti
via»,
bisbigliò lui.
La donna non oppose resistenza
e
rise, e, mentre i mamuthones tutti suonavano i loro campanacci con i
salti di una danza sconosciuta intorno a lei, loro quattro si
voltarono e tesero bene la corda sopra la spalla, iniziando a tirare
ognuno verso il punto opposto all'altro che stava dietro. Lei si
sentì stringere appena e il dolore svanì presto.
Scomparve e con
lei gli issohadores e mamuthones, lasciando ad Iglesias il traffico
del mattino ancora nuovo, con le lunghe file di bambini e genitori
verso la scuola, l'odore dolce del pane appena sfornato che portava
nel Panificio all'angolo e, naturalmente, le campane della chiesa.
Terzo e
ultimo capitolo :) Mi piace come ho reso la vera protagonista della
storia l'ultima a presentarsi, perché Laura era una maschera
“potente”: la protagonista sembra lei, è
scontato, e invece no,
e la mostro solo all'ultimo capitolo. Spero solo di aver reso questa
cosa bene anche per i lettori :)
Piccola nota:
ci ho pensato solo adesso perché lo davo per scontato ma non
lo è: la "x"
in sardo non si dice come la si direbbe normalmente, non ha un suono
marcato e forte, ma leggero e sfumato, quindi "bruxa" si legge un po'
come "brusc[i]a". La i
non si legge ma ve la devo mettere per forza, per non leggere brusca XD Che
sembra più una bruschetta. Lo stessa regola quindi anche per
le altre parole con la x.
Ci
tengo a ringraziare nadine5
per aver messo questa storiella nella lista delle seguite ^^
E
così, questa breve storia si conclude
qui… Fatemi sapere cosa ne pensate!
Ci
rileggiamo in giro, a presto!
Chu!
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