La città
aveva sempre rappresentato un mistero per quelli come lui; uno di quei
misteri affascinanti proprio perchè se ne aveva la piena
coscienza del pericolo,
il gusto ricco e eccitante del proibito.
Quando ci si recava percepiva addosso la pesante sensazione di sentirsi
fuori luogo,
un estraneo in quel mondo di luci ed ombre dove nulla è come
appare. Eppure, proprio come le emozioni più eccitanti e
ambivalenti, Fernando non poteva fare a meno di immaginarsi camminare
tra i viali acciottolati, bere un amaro nel caffè degli
Artisti
in piazza del Duomo, discorrendo di libri che non avrebbe mai letto, di
donne che non avrebbe mai avuto.
Lo affascinava la vita scandita dai ritmi della città:
nessun
cigolare di catene all'alba, nè sudore acre sulla pelle fino
a
sera, ne' l'indolenzimento doloroso provocato dalla fatica.
Ma dopotutto quelli erano solamente sogni e l'unico piacere che avesse
era quello di poter contemplare il profilo evanescente e fumoso della
città, lontana, quasi un miraggio tra la nebbia della Bassa.
Quando era poco più che un bambino era solito venir
innalzato al
ruolo di mascotte dai cugini e parenti più grandi che,
appena
era loro consentito, fuggivano in città nella spasmodica
ricerca
dei suoi piaceri.
Era un susseguirsi di taverne, bettole e osterie di infimo ordine; le
serate scandite dalle risse, gli insulti, le bravate in mezzo alla
strada e ovviamente le visite ai bordelli. C'erano giovani che
risparmiavano da mesi per poter usufruire del servizio che offrivano le
case del piacere, malamente celate in vecchi palazzi scalcinati. La
mercanzia che vi era esposta all'interno poteva assecondare i gusti di
tutti: magre, in carne, bionde o brune, innocenti o sensuali fanciulle
che per poche lire soddisfavano ogni desiderio maschile (tranne i baci,
quelli erano esclusi).
Fernando ricordava con una vena di agrodolce quelle visite alla casa
della Siora Flora, tappa affezionata e ormai inevitabile di ogni
viaggio in città.
La signora Flora era una donna che aveva passato i sessanta, con lo
sguardo furbesco e le labbra costantemente pitturate di rosso. Quando
lui e i suoi cugini entravano dalla porta d'ingresso, anonima e
scheggiata come tutte le altre, lei gli andava incontro stampandogli
sulla fronte un grosso bacio scarlatto. Così marchiato
Fernandino prendeva posto su una poltrona sfondata, unico mobilio del
minuscolo ingresso male illuminato, mentre i ragazzi più
grandi
oltrepassavano un corridoio strettissimo, per poi ritrovarsi nella
stanza della scelta. In linea di massima c'erano sempre le solite
ragazze, apparte qualche raro caso in cui una nuova prendeva il posto
di una qualche d'un altra che era riuscita a maritarsi o a trovare
fortuna in qualche altro paese.
Suo cugino Maurizio sceglieva sempre
una ragazza minuta, dai tratti gentili e innocenti, con grandi occhi
azzurri e il nasino delicato all'insù, ne era probabilmente
innamorato perchè, quando lei se ne andò dal
bordello per
sposare un carabiniere, lui pianse ogni giorno e non volle mai
più tornare in quel posto.
Mentre i ragazzi si davano da fare con le loro rispettive scelte,
Fernando se ne stava comodamente seduto, le scarpe che nemmeno gli
toccavano terra e almeno una o due ragazze in pausa attorno. Lo
coccolavano come fosse un figlio o un fratellino più
piccolo,
gli accarezzavano i capelli e gli davano da mangiare un sacco di
cioccolata.
Una volta arrivarono persino a scommettere su quale di loro avrebbe
preso la sua verginità, una volta che fosse cresciuto.
Fernando
le osservava come fossero creature extraterrene, che vivevano in quel
mondo parallelo, dove la realtà sembrava non tangerle
minimamente, quasi come se le loro esistenze iniziassero e terminassero
nello spazio di quelle due stanze, come se, una volta oltrepassata la
soglia non esistessero più, come in un sogno.
Dal canto suo Fernando aveva preso una grossa cotta per Gilda, una
straordinaria bellezza meridionale con la pelle liscia e scura, gli
occhi penetranti e il sorriso sensuale. Si ripromise che un giorno
l'avrebbe avuta, ma lei smise di lavorare proprio quando lui aveva
racimolato abbastanza denaro per poterle far visita. Fu anche per
questo che nella sua mente di adolescente la bella Gilda dai capelli
corvini rimase per sempre una fantasia con cui, ogni tanto, gli piaceva
stuzzicare la sua mente.
Era probabilmente in quel preciso momento che Fernando capì
cosa
volesse dire provare qualcosa per una donna e fu senza dubbio in quella
stanza che sperimentò le prime imbarazzanti e acerbe
erezioni.
Ma la visita di quel giorno, come ebbe modo di scoprire più
tardi Fernando, non era una visita di piacere.
Iniziava a pentirsi di aver accettato l'invito insistente di Labriola,
vestito e improfumato di tutto punto nel suo abito migliore, quello
della domenica, i baffetti lisciati e i capelli impomatati.
- Dì, Labriola, che siam venuti a fare in città?-
Gli camminava davanti, nervosamente, con un fare circospetto che a
Fernando sembrò solo buffo e... Ancora più
sospetto.
Il piccoletto lo zittì con un cenno della mano, per poi
continuare a camminare, calpestando la strada acciottolata sotto i
portici, che correvano attorno a tutto il centro storico.
Fernando osservava la gente che gli passava accanto, i vestiti che
indossavano, il loro modo di parlare, gli atteggiamenti e i gesti; le
cose che vedeva erano per lui quasi sempre una novità.
Persino
le foglie staccate dagli alberi sembravan diverse da quelle che c'erano
in campagna, l'acqua doveva avere un sapore diverso e anche l'aria, la
stessa aria che respirava gli sembrava in qualche modo unica, speciale.
Non era difficile star dietro al passo di Vittorio Grossi, detto
Labriola, anche perchè Fernando aveva due gambe che forse
eran
più del doppio di quelle del cugino, ma iniziava a
spazientirsi
di quella marcia forzata diretti chissà dove.
Non gli piaceva
non sapere cosa stesse facendo e dove stesse andando. Rimanere
all'oscuro lo faceva stare a disagio.
Camminarono ancora un po', illuminati dal fioco chiarore del tramonto.
Il cielo aveva preso un colore sanguigno, quasi di presagio e
Ferdinando non riusciva a stare tranquillo. I suoi piedi enormi
continuavano a pestare il suolo passo dopo passo verso una direzione a
lui ignota.
Labriola col suo passo nervoso procedeva di gran carriera, di tanto in
tanto continuando ad osservarsi attorno circospetto.
Stanco di tutto quel trottare, senza nemmeno una spiegazione,
Ferdinando colmò la distanza con un balzo e
agguantò per
il colletto il cugino.
- Che accidenti fai, eh?-
Strillò quello, la voce acuta e strozzata di chi ha i nervi
a fior di pelle.
- Stammi ben a sentire... Io mi son rotto di correrti dietro per mezza
città, intesi? Ora tu me disi dove si sta andando o te faso
passar la voglia di zampettare...-
Con una mano che teneva il colletto della camicia, sollevò
l'altra proprio davanti al viso di Labriola, pugno serrato. Lo
sentì deglutire con gli occhi sbarrati e la bocca semi
aperta.
Fu lesto nell'alzare le mani, i palmi ben visibili.
- Ehi, Fernandin mica scherzerai? Sta calmo devi fidarti di me!-
Il sudore gli scendeva ancor più copioso dalla fronte, se
possibile. No, Fernando non avrebbe mai menato le mani contro un
parente, a patto che non fosse stato necessario, però
confidava sempre
nel terrore che incutevano la sua stazza e quelle mani, simili a pale,
che si ritrovava.
Decise di mollare la presa, riservando al cugino uno sguardo truce come
per dire ''Se non arrivi subito al succo, vedrai che questo pugno lo
assaggi''.
Vittorio gli sorrise tirato, assicurando il cugino che stavano quasi
per arrivare. Fernando sbuffò, sentendo aria di politica, di
discussioni e di argomenti a lui totalmente oscuri.
Aveva acconsentito ad accompagnarlo in città
perchè anche
se ormai un abituè, il cugino rappresentava comunque una
categoria di uomo che tutti consideravano un debole, almeno
nell'ambiente di campagna.
Era smilzo, bassino e aveva l'aria nervosa e schiva, sempre sul punto
di scattare come una molla. Aveva sempre preferito i libri al lavoro
manuale, ma quello che aveva imparato lo aveva fatto da solo; non erano
certo signori che potevano permettersi un maestro o addirittura una
scuola. Più che per un moto d'animo suo personale, Fernando
aveva voluto quietare le ansie della zia, madre di Vittorio, ogni volta
in apprensione sulle visite del figlio in città.
Una sorta di guardia del corpo, insomma. Le paure della donna non erano
del tutto irragionevoli. Il fermento delle riunioni socialiste e
comuniste stava iniziando a preoccupare seriamente le forze
dell'ordine, nonchè quei proprietari terrieri a cui le
sommosse
e l'ideologica Rivoluzione (ormai tutt'altro che utopistica) miravano.
Non era raro che le manifestazioni organizzate pubblicamente o in
luoghi debitamente nascosti finissero in malo modo.
Ma Labriola, da piccolo così preso in giro e maltrattato per
la
sua codardia, sembrava aver trovato uno slancio di coraggio indomabile.
Non c'era comizio che si perdesse o riunione a cui evitasse di
partecipare. Era diventata una missione vitale, un obiettivo primario.
Fernando non capiva appieno i motivi che spingessero a questo
cambiamento, ma a volte si fermava a riflettere su quanto un'idea
potesse cambiare la natura umana, su quanto quel fervore politico
sembrava impossessarsi della mente e delle membra di coloro che ci
credevano fermamente.
Sbuffò di nuovo, il rumore delle suole delle loro scarpe sul
selciato.
Oltrepassarono il ponte sul fiume, per poi addentrarsi in un labirinto
di viuzze strette, dentro le quali Labriola sembrava orientarsi agile e
veloce come un topolino. C'era una puzza incredibile e una
sensazione di oppressione che non aveva mai provato in aperta campagna.
Svoltarono un angolo, ritrovandosi in una piazza chiusa da alti muri
che la costeggiavano. Sembrava più un cortiletto interno o
una
corte a dire il vero. Nemmeno una luce che rendesse chiari i loro
movimenti, ma questo sembrò non importare a Labriola che
camminava sicuro come se fosse pieno giorno.
Dalla parte opposta dalla quale erano giunti, se ne stava un gruppo di
5 o 6 persone, totalmente immerse nell'ombra e le cui sagome erano
appena visibili.
Al rumore di passi si voltarono tutti a guardarli.
Non aveva propriamente paura, ma un grosso nodo iniziò a
stringere la gola di Fernando. Non avrebbe avuto problemi a riempirli
di botte, anche così nella semi oscurità, se le
cose si
fossero messe male, ma avrebbe comunque preferito che non ci fosse
bisogno. Avvicinandosi ulteriormente notò che erano tutti
vestiti in maniera elegante, con giacca di panno e scarpe pulite. Molti
indossavano un cappello e quasi tutti portavano i baffi lunghi, come
Labriola.
- Te sei degnato di venir, allora...-
Una voce parlò, ma non apparteneva a quelli che se ne
stavano in semicerchio.
Sia Fernando che Vittorio si voltarono. Alla loro sinistra avanzava un
tipo magro, con le spalle larghe e la mascella ben pronunciata, sebbene
in armonia col resto del volto spigoloso.
Un uomo accanto a lui, più tarchiato, portava un lume,
così che almeno mezza figura fosse visibile.
Fernando corrugò la fronte, interrogativo.
Per tutta risposta l'uomo sorrise, un sorriso furbesco e aperto, che
sembrava appartenere a chi conosce i segreti dell'universo e non
è poi così propenso a svelarli.
Arrivò a pochi metri da loro, per poi fermarsi ad osservarli
di nuovo, con quel sorriso che non accennava a scomparire.
Fernando si fece ancor più vicino a Labriola.
- E questo chi s'è, lo conosci?-
Gli chiese, senza temere di essere sentito dall'altro.
- Semmai dovrei chiederti chi sei tu...-
Ribattè il tipo con un tono saccente di
superiorità, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni.
Un altro sguardo interrogativo di Fernando, che iniziava a spazientirsi
per quella situazione paradossale. Odiava i giochi di parole e le
situazioni che si protraevano all'infinito come brodo annacquato.
- S'è mio cugino, un tipo apposto, si può star
tranquilli!-
Labriola aveva parlato, la voce più flebile di uno
squittìo da topolino.
- Questo lo decido io...-
L'uomo sorrise di nuovo, un angolo della bocca leggermente sollevato.
Fernando sentiva bollire il sangue, ma cercò di mantenere la
calma. Poi, l'uomo si accostò alla parete, spostò
quella
che sembrava una cassa per consegne da fattorino, scoprendo un
passaggio nella muratura. Fece segno ai due di entrare, poi, sempre con
l'uomo con il lume dietro di sè, li seguì.
All'Olga non era mai importato delle visite di Fernando in
città.
Gli uomini lo facevano, tutti. E non era una novità. E poi
lei si fidava del suo uomo, anche se l'idea che visitasse quelle case
non le andava giù del tutto, ma comunque... Lo facevano
tutti.
Era un modo per evadere dalle fatiche quotidiane, dai figli, le mogli,
la dura vita del contadino.
Lui le assicurava ogni volta che tutto quello che faceva era stordirsi
in qualche taverna e che non visitava ''quei posti'' da quando l'aveva
conosciuta.
Lei si limitava a sollevare le spalle, mimando un'ostinata indifferenza
che, apparte un leggero velo di fastidio e gelosia, era autentica.
Fernando la amava, anzi... Amare sarebbe troppo poco per definire
ciò che quell'uomo grande e grosso provava per la sua donna.
Non aveva occhi che per lei, quando la osservava dormiente accanto a
se', ancora stentava a credere di possederla.
Ma la sua non era una possessione animalesca, no, lui la desiderava e
la rispettava, spaziando quasi nell'idolatria, ma senza stucchevolezze.
Olga lo amava, di rimando, proprio per questo. Il suo gigante buono non
era il suo padrone, ne' il suo zerbino... Era il compagno ideale di una
donna forte, cocciuta e tremendamente attraente. Una donna che in mezzo
a quelle campagne stonava come un fiore esotico tra anonime piante di
campo. Una donna che teneva testa ad un uomo un po' fumino, ma dal
cuore grande come un bue e che era riuscita a cambiarlo in meglio,
già con la sua sola presenza.
Olga era arrivata nelle terre dei Catellani con una manciata di
parenti, gran parte cugini e zii, sola e orfana, i genitori spazzati
via dal colera appena un anno addietro. Aveva 14 anni, i capelli lunghi
corvini le arrivavano fino a metà schiena, aveva un paio
d'occhi come tizzoni, vigili, scuri come pozzi e tristi, tremendamente
tristi. Ma dentro a quelle due voragini ardenti, fiammeggiava uno
sguardo fiero, forte... Non era una ragazzina come tutte le altre.
Era schiva, ma tremendamente ostinata.
I ragazzi ne erano attratti, ma era un'attrazione spaventosa, potente e
inquietante... Quella creatura era difficile, impossibile da
avvicinare. Se gli uomini la guardavano con desiderio, le donne ne
avevano timore.
D'estate, quando era tempo di mietitura e il caldo sembrava serpeggiare
e pulsare nei campi, Olga sembrava una visione: una dea bellissima e
madida di sudore, la pelle cotta sotto i raggi che splendeva di rugiada
salata. Tirava su il vestito, scoprendo le gambe magre e toniche, il
muscolo che pulsava ad ogni passo. Era impossibile non ammirarla, era
come se rilucesse di un'aura tutta sua. Era una creatura unica,
magnetica e pericolosa.
Molti avevano cercato di avvicinarla, senza alcun successo. Lei si
limitava a sorridere di veleno, prendendoli in giro con la sua acuta
intelligenza, rideva di loro e dei loro approcci, non lasciava
avvicinarsi.
Sarebbe stato riduttivo ritenere che quel suo comportamento
scostante, da selvaggia fosse dovuto unicamente alla perdita dei
genitori, all'essersi trovata spiantata in un luogo nuovo, abbandonata
dagli affetti più cari, e i giovanotti insistenti
preferivano credere che si comportasse in quel modo proprio per questa
serie di motivi.
Col passare del tempo e collezionati una serie infinita di insuccessi,
l'Olga venne lasciata da parte e additata come una puledra impazzita,
una con non tutte le rotelle al posto giusto, una pazza imprevedibile
insomma.
C'era stato un ragazzo, qualche mese dopo il suo arrivo al podere, che
si era messo in testa di volerla sposare.
Era un bel toso: alto, muscoloso, con una gran massa di capelli di pece
e, come tanti altri, era caduto nella rete fascinosa di quella bellezza
sfuggente.
Tutti avevano cercato di metterlo in guardia sulla malìa
distruttiva dell'Olga, ma Pietro non si era lasciato abbattere e
insistente come quando caricava sacchi e sacchi di granaglie, aveva
cominciato a corteggiare la giovane.
Le ronzava intorno giorno e notte, si offriva di aiutarla quando la
vedeva in difficoltà, le faceva regali (per quanto potesse),
insomma... Le tentò tutte.
Ma lei niente. Rimaneva algida e austera, apparte qualche sorriso
cattivo, qualche sguardo di fuoco, che il poveretto nella sua cieca
ostinazione, scambiava per segni di cedimento.
La situazione durò per parecchio tempo, fin quando, ormai
accecato dalla passione, il ragazzo non tentò di baciarla.
Il giorno dopo, nei campi, tra le risate e gli sghignazzi degli altri,
Pietro portava sul collo quattro profondi segni purpurei, ancora
pulsanti di sangue. Era finita lì ed anche quell'occasione
non fece altro che accrescere la ''fama'' dell'Olga.
Le contadine sputavano quando la vedevano, sussurrando insulti a bassa
voce. Eran tutte calunnie, perchè si sa, l'invidia corrode
dentro e il rimedio più efficace si rivela essere l'infamia.
Olga dal canto suo non ci faceva caso, le bastava lavorare (e in questo
era instancabile, a dispetto del suo aspetto che rimaneva unico e raro
quanto il suo carattere), avere un tetto sopra la testa e sostentamento
per vivere.
Fu durante una calda sera di fine estate, che il destino di quella
puledra indomabile subì un' inaspettata svolta.
La terra sprigionava ancora tutto il bollore che l'aveva ingravidata
durante il giorno. Ogni cosa pareva immobile, sospesa nell'afa
incredibile che si sprigionava da ogni cosa, eppure, la vita era
lì a ricordare propotentemente della propria presenza.
Le cicale frinivano senza sosta, sprigionando nell'aria una nenia
monocorde, che intorpidiva le membra. Il disco incendiato del sole
scompariva sempre più dietro l'orizzonte piatto e liscio
della Pianura; le lucciole si accendevano a intermittenza giocando a
nascondino con i bambini, che correvano scalzi per l'aia.
Era uno degli ultimi giorni di mietitura, poi i campi, mutilati dai
loro steli dorati, sarebbero stati fatti riposare fino alla prossima
semina; gli uomini e le donne, stracchi di lavoro e di fatica, se ne
stavano in cerchio, bevendo, parlando e amandosi.
Una musica allegra e corale sferzava l'aria: erano canti popolari
emiliani, caldi e a tratti malinconici.
Era un momento magico, di stallo... Come se per un attimo il duro
lavoro dei campi potesse essere dimenticato, la mente immersa soltanto
in quel canto cadenzato, la musica avvolgente e ritmata, la gioia nel
cuore.
I più giovani ballavano attorno ai musicisti improvvisati,
cercando quel casto contatto fisico che li univa in un saltarello
indemoniato. Il tutto ovviamente sotto gli occhi scrutatori dei padri.
Dal canto suo Olga se ne stava sul bordo della finestra più
alta della cascina, dove si trovava una sorta di enorme mansarda, nella
quale venivano ammassati vecchi attrezzi e ogni genere di strumento
contadino.
Era il suo posto, la sua piccola evasione quotidiana. Amava passare il
tempo là sopra, osservare dalla grande finestra aperta la
città in lontananza, rimanere sola con i suoi pensieri.
Ed era così anche quella sera. Nulla importava se
più in basso tutti si stessero divertendo, ballando, bevendo
fino a tarda notte. Le sembrava che quella gioia fosse esagerata,
esasperata e fasulla... Come potevano zampettare, ridere a
squarciagola, fino a farsi venire gli occhi lucidi, quando a pochi
metri campeggiava la pesante inferriata con i cigolanti lucchetti che
scintillavano ai primi raggi di luna. Dopotutto erano in trappola, come
animali. Un circo coloratissimo e ingabbiato.
Non riusciva a non pensarci, certo, non odiava la sua condizione
perchè se non avesse avuto quella possibilità,
dopo la morte dei genitori sarebbe sicuramente finita peggio; ma
d'altro canto non si sentiva nemmeno in grado di poter dimenticare che
eran tutti una proprietà, così come lo erano le
bestie chiuse nelle stalle, i campi, nè più
nè meno del legno tarlato su cui stava seduta.
Strizzò gli occhi, rimanendo sdraiata e reggendosi il mento
con i palmi delle mani. C'era un fuoco scoppiettante, poco lontano al
divertimento generale. Le lingue di fuoco cercavano di raggiungere il
nero profondo della notte, senza riuscirci, ma il gioco di luci ed
ombre che avviluppavano le figure in movimento era meraviglioso. Olga
osservava i suoi coetanei ballare, saltare, ridere alla luna, mentre la
musica si faceva sempre più forsennata ed esagitata.
Non sentiva l'esigenza di scendere dabbasso e partecipare a quella
danza scalmanata, le bastava osservare la felicità altrui,
forse perchè non si sentiva del tutto partecipe o forse
perchè le piaceva convincersi di questo.
I suoi occhi si fermarono su ognuna di quelle facce, colorate d'arancio
per via del fuoco. C'erano una fila di ragazze sedute, che ciarlavano e
chiocciavano a voce alta; tra loro c'era anche Lina, una ragazza
bruttina e scialba che la odiava dal primo momento in cui aveva varcato
il cancello. Non aveva mai voluto sapere il motivo, non le interessava,
ma in fondo sapeva che non sarebbe mai stata benvoluta in quel posto,
come non lo era mai stata da nessuna parte. Le sembrava di allontanarsi
ogni giorno di più dalla realtà, di sentirsi
sempre più scollata dal resto del mondo. Si sentiva diversa,
era diversa, ma non ne soffriva, solo era abbastanza intelligente da
rendersene conto. Non era orgoglio il suo, ma semplicemente riconosceva
di essere migliore di tutta quella gente, sotto certi versi, speciale.
Poteva essere un bene, come no.
Sapeva già che se fosse scesa una quantità
indescrivibile di quegli uomini avrebbero tentato di ballare con lei,
di fare due passi nel buio, appena poco lontano dal fuoco. Non le
interessava neanche questo, ma col tempo sapeva che avrebbero smesso.
Già molti voltavano la faccia quando incontravano il suo
sguardo. Molti di quelli che avevano provato a conquistarla adesso
erano sposati, con qualche figlio, con un ripiego per moglie. E loro lo
sapevano bene, per questo il tacito odio che serpeggiava era ancora
più velenoso.
Olga osservava di nuovo le stelle, la musica stavolta un po'
più mesta e delicata. I ragazzi si tenevano stretti,
muovendosi lentamente di fianco, i padri che non staccavano di dosso
gli occhi dalle loro figlie ancora nubili.
L'aria era ancora pesante, sapeva di polvere e solleone, entrava nelle
narici di prepotenza e non voleva uscire.
Chiuse gli occhi e sorrise, felice di quel momento di pace.
Mentre se ne stava ancora con le palpebre abbassate, sentì
lo scricchiolare delle scale.
Si voltò di scatto, cercando di abituare gli occhi al buio
pesto. Non vedeva la fine dello stanzone, aver guardato troppo fisso il
fuoco l'aveva resa cieca.
- C'è qualcuno?-
Chiese, rimanendo in posizione prona, il volto girato.
Scrollò le spalle, tornando a osservare in basso e a
dondolare i piedi, tirati su a mezz'aria, a tempo di musica.
Percepì dei passi dietro le spalle, stavolta si
girò completamente, portandosi a sedere.
C'era qualcuno veramente.
Non avrebbe avuto paura di solito, era impossibile avere più
di un attimo di solitudine in un posto dove le persone erano ammassate
molto più di quanto lo spazio potesse permettere. Ma sentiva
che c'era qualcosa di diverso: l'aria era diventata elettrica e
pesante, non era ancora venuto il momento di avere paura, ma si sentiva
a disagio.
- Chi s'è là??-
Chiese di nuovo, stavolta mettendosi in piedi.
Ancora passi e poi, il fascio di luce della finestra
illuminò un paio di piedi scalzi e dei calzoni sdruciti.
A torso nudo di fronte a lei c'era Carlo.
Era un Grossi, la famiglia che lavorava per i Catellani da sempre,
generazioni e generazioni di contadini instancabili e dalle spalle
larghe. Lo chiamavano Carletto, anche se di piccolo non aveva niente, a
partire da quel naso tuberoso e sproporzionato che gli campeggiava in
una faccia larga e cotta dal sole.
L'Olga non si sentì del tutto tranquilla, anche se con Carlo
non aveva mai avuto niente a che fare. Era un personaggio come altri,
un colosso che serviva bene da bestia da soma con poca materia
cerebrale.
Dire che lo disprezzava era esagerato, ma di certo non voleva averci
niente a che fare.
- Carlo, m'hai spaventato...-
Gli disse, senza però concedere alla voce quel brivido che
sentiva alla bocca dello stomaco.
- Che se fai qui, tutta sola?-
Chiese lui, la bocca come un grosso taglio lasciato lì per
errore. Il tono di voce in cui aveva parlato era basso e grave, poco
più di un sussurro vibrante.
- Fatti miei, no te sono certo tuoi...-
Ribattè lei, voltandogli le spalle e rimettendosi seduta.
- Vedo che 'sto caratterino non ge te sei decisa ancora a domarlo, ne?-
Il sibilo che gli era uscito dalla bocca era cattivo.
Olga si voltò di nuovo e scoprì sulla faccia, di
solito inespressiva e tonta come quella di un bue, una linea brutta e
inspiegabile.
- Son fatti miei anche quelli...-
Fece per alzarsi, ma Carlo le si parò davanti, a poche
spanne dal corpo. Il respiro le si mozzò per un attimo, ma
si riprese subito.
Svirgolò verso destra, agile, ma non abbastanza,
perchè lui la agguantò per un braccio, facendole
male.
- Ma lassameeee! Che diavolo vuoi da me?-
Gli urlò, incattivita, con le sopracciglia che si toccavano
e la bocca distorta in una smorfia di sorpresa e dolore.
Non voleva essere toccata da nessuno, voleva solamente andare via da
lì. Avrebbe pure ballato, forse, ma adesso voleva andare
via; non voleva quella manona stretta attorno al suo polso sottile, non
voleva sentire il peso di quel corpo gravoso sopra il suo, quel fiato
alcolico che le premeva contro l'orecchio.
Lui la tenne ferma, approfittando della differenza di stazza, lei si
divincolò, scalciando.
- Ora te fazo veder quello che voglio fare...-
Il ghigno di Carlo non era umano. Lo aveva visto qualche volta sulla
faccia dei bambini quando torturano gli animaletti, come le ranocchie
vicino al rigagnolo che passava dentro la proprietà. Era
pura cattiveria e anche piacere. Adesso aveva paura.
- Lasame! Brutto stronzo!-
Cercò di morderlo, ma quello che gli lasciò sulla
spalla non gli aveva fatto effetto più che un pizzico di
zanzara.
- Te convien star ferma, brutta puttana!-
Una delle grosse mani gli teneva ferme entrambe le mani, mentre l'altra
percorreva tutto il suo corpo, appena coperto da un vestito fino. Lo
sentì strappare con un gesto, lasciandola nuda ed esposta.
Non voleva piangere, ma più scalciava, più si
sentiva spossata e senza speranza. Gli assestò un calcio
allo stinco, ma finì per farsi più male lei che
altro.
Cercò di urlare, ma la musica era alta e nessuno avrebbe
sentito.
Carlo intanto cercava di baciarla, con quella pelle ruvida e la lingua
che le percorreva tutto il viso. Olga si scansava, dimenava senza
sosta, ma lui era più forte.
Sentì la sua mano che la cercava in mezzo alle gambe, con
insistenza. Cercò di stringersi, svincolarsi come poteva, ma
sentiva che non aveva più forza di stare in piedi, tutti i
muscoli in tensione e le lacrime che iniziavano a rigarle le guance; le
inzuppavano i capelli nerissimi come quella notte.
La musica gioiosa era così dolorosa da sentire adesso che il
pianto le aveva annebbiato gli occhi e il cervello. Non aveva
più forze, si accasciò come una marionetta usata
e sentì lui che si calava sopra di lei, i pantaloni
abbassati fino alle caviglie.
Chiuse gli occhi, con forza, mordendosi a sangue la lingua. Ma non
successe nulla. Aveva paura di aprire gli occhi e rivedere quegli occhi
iniettati. Rimase con le mani sulla faccia per quello che le
sembrò un'eternità prima di riaprirli.
Sentì uno schiocco potente, quasi come un colpo di pistola.
Poi lo vide.
Carlo era accasciato a qualche metro da lei, si teneva tra le mani quel
nasone tritato come carne macinata. Perdeva sangue come un fiume e si
lamentava, mugulando come le bestie al macello.
Non si era accorta di tremare fino a quando non aveva visto l'altra
figura, nell'ombra, grossa quasi quanto Carlo.
Indietreggiò verso la parete quasi senza accorgersene.
- Te convien scender subito...-
La voce era tagliente, non lasciava molto spazio al dubbio.
Carlo, le mani ancora piene di sangue si tirò su i calzoni
alla bell'e meglio e sparì nell'oscurità, facendo
le scale di corsa e facendo ondeggiare e scricchiolare tutto il legno.
- Chi-Chi sei?-
Olga non sapeva come riuscire a parlare, le parole le erano uscite
così, come se il corpo non fosse suo e lei stesse guardando
tutto da sopra la luna.
Quello non parlò, si limitò ad avanzare verso la
luce bianca.
La musica non era terminata, anzi, si faceva sempre più
incalzante e tutti sembravano divertirsi un mondo.
Il viso che le si parò davanti era quello di Fernando
Grossi. Carlo era uno dei suoi cugini.
Olga rimase a guardarlo negli occhi e lui fece lo stesso, ma per poco,
perchè poi lo abbassò.
Era bello, Olga lo sapeva, ma che fosse anche buono non ne aveva la
riprova. Di certo l'aveva aiutata e di questo poteva esserle solo che
riconoscente.
Lo vide avvicinarsi, ma stavolta non indietreggiò. Rimase
semplicemente ferma, non provò neppure a coprirsi dal suo
sguardo, perchè lui non la stava guardando con malizia.
Lo vide sbottonarsi la camicia che portava, gliela mise sulle spalle e
non parlò. Anche lui doveva sapere quello che dicevano su di
lei.
Ormai erano due anni che viveva lì eppure Fernando era uno
dei pochi che non aveva cercato di avvicinarla. Le sembrava un tipo
solitario anche lui, a modo suo.
Non parlò mai, neppure quando fece per andarsene e lei si
tirò su di scatto, cercando il suo polso.
Fernando si era girato di scatto, tra il sorpreso e l'interrogativo.
- Puoi restare se ti va...-
Gli disse l'Olga, rimettendosi a sedere di fronte al finestrone. Se ne
stettero l'uno vicino all'altro, le gambe nude di lei che sfioravano
quelle di lui, inconsapevoli del fatto che quella luna li stava facendo
innamorare.
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