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Masyaf,
1228 (625)
Raggiunse
velocemente la sommità della torretta, scalando le mura con
tutta la tenacia e l’agilità che aveva da
ragazzina. Si compiacque di quanto ancora riuscisse ad essere veloce,
nonostante l’età, lo scarso allenamento e la paura
che le scorreva nelle vene.
“Non farti
prendere”, si era raccomandato il Rafiq.
“Se lascerai
che ti prendano, ti tortureranno fino a che il tuo corpo
avrà vita”.
Il Rafiq poteva stare tranquillo, allora.
Non aveva nessuna intenzione di lasciare che le guardie le torcessero
un solo capello. Se avrebbe perso la vita, sarebbe stata lei stessa a
togliersela con la lama celata di Sef.
Strinse a sé il bambino che piangeva contro il suo petto e
si chinò appena per lasciargli un lieve bacio sulla fronte.
Avrebbe tanto voluto cullarlo, farlo sentire amato come una creatura
tanto piccola avrebbe meritato, ma non ne aveva il tempo.
‘Sii forte’,
gli disse, mentre lo nascondeva sotto le pieghe del mantello.
Attese che un paio di Assassini le saltassero addosso per buttarsi a
terra ed evitare i loro fendenti, voltandosi appena in tempo per
conficcare la lama celata nelle loro ginocchia.
Non avrebbero mai più camminato.
Sorrise, rotolando a terra mentre il colpo di una delle guardie provava
a trapassarle il cranio con un coltello. Evitò un secondo
affondo e si buttò all’attacco, trafiggendo il suo
aggressore in pieno petto. Attese che la lama affondasse abbastanza
nelle vesti immacolate dell’Assassino e si ritrasse,
preparandosi a respingere tutte le spade che l’avrebbero
raggiunta fin lì.
Di certo aveva messo la fortezza in allarme.
“Se davvero
vuoi fare l’Assassino, impara a essere discreta”,
le aveva detto una volta il Rafiq. “Poggia il piede sulla sabbia e
scostati: del tuo passaggio, sulla banchina non deve esserci traccia”.
E lei ci aveva provato, a camminare sulla spiaggia di Acri senza
lasciare le sue impronte nella sabbia, ma non c’era mai
riuscita.
Sorrise, pensando a quelle giornate passate con i piedi
nell’acqua salata, mentre con foga affondava il coltello
nelle gole di due guardie.
Avrebbe volentieri raccontato quella storia al piccolo, se mai fosse
sopravvissuta. Cominciava a sentire la stanchezza rendere le sue mani
pesanti e il respiro farsi pesante sotto le vesti sporche di terra.
Si chiese quante vite si sarebbe presa ancora, quella notte, e in un
attimo di distrazione una spada calò solenne sulla sua
spalla, strappandole il vestito in uno schizzo di sangue che
però non la mise esageratamente in allarme.
Si sarebbe curata una volta al sicuro.
Si voltò verso il cornicione, sporgendosi sulla torre alla
ricerca di un mucchio di fieno in cui atterrare.
Di fronte a sé, non aveva che gli strapiombi delle montagne.
Le servì soltanto un secondo per calcolare la sua posizione.
A destra le guardie, a sinistra le guardie, dietro la morte e davanti
il vuoto.
Nonostante il piccolo piangesse e strillasse, saltare fu la scelta
più facile della sua intera esistenza.
Il Rafiq la guardò,
così tremante e malferma sull’asse goffamente
sistemata in cima alla moschea di Gerusalemme, e le sorrise con fare
incoraggiante.
« Non ti farai del
male », le promise, accennando al cumulo di fieno che la
aspettava a terra. « Devi solo avere fede ».
Lei lo guardò con
fare crucciato.
‘Rafiq,
ma i gatti non volano’,
si lamentò.
Lui annuì,
raggiungendola sull’asse per poggiarle una mano sulla spalla.
Le indicò il vuoto che si stagliava dinanzi ai suoi piedi.
« Volare è
il dono più grande che ci viene concesso », le
spiegò, pacato. « Non devi essere gatto. Devi
essere aquila, falco, spirito. Sii tutt’uno con
l’aria che respiri e sarà lei, a guidare la tua
caduta ».
Lei guardò
giù ed esitò, di nuovo.
Non si sentiva ancora sicura.
Il Rafiq le carezzò
il capo, avvicinandosi ulteriormente alle sue spalle contratte dalla
paura.
« Se non ti fidi
dell’aria, questa volta fidati di me », propose.
« Ti guiderò io ».
Non seppe mai perché
saltò.
Accompagnati dal verso di
un’aquila, i suoi piedi si staccarono da soli
dall’asse su cui si erano instabilmente piazzati e per un
istante caddero nel vuoto dei cieli di Gerusalemme.
Dopodiché, ebbe quasi
la sensazione di prendere il volo.
Nella luce accecante
dell’alba, intravide le ali scure dell’aquila
inseguirla in quella planata verso terra, quasi fossero una cosa unica,
lei e quel rapace, quasi l’animale volesse proteggerla con le
sue piume più brillanti dell’argento.
Un istante dopo, al posto
dell’aquila dal becco dorato c’era il Rafiq,
avvolto nella sua tunica color della notte che si gonfiava sotto la
forza dell’aria. Si lasciava cadere con gli occhi chiusi, il
pugno serrato e un leggero tremore di labbra.
Improvvisamente, la prese per il
cappuccio e la trasse a sé, facendole affondare il volto
nella cappa chiara.
Non durò che un
istante.
Raggiunsero terra assieme e
vennero coperti dal fieno che lei ancora era convinta di volare.
Mai come in quel momento avrebbe
voluto poter ridere.
Nessun mucchio di fieno, nessun’aquila a gridare al suo
maestoso volo.
Cadde a terra con così tanta violenza che temette di vedere
il suo corpo distrutto dall’impatto con il fango del giardino.
Fortunatamente, riuscì a restare cosciente con la sola
sensazione di essersi spezzata le gambe.
Gridando a ogni sforzo che compì nel trascinarsi lontano dal
luogo della caduta, si tirò fino a un cespuglio di erba
gatta che cresceva lungo la montagna e lì si
lasciò andare, concedendosi un istante di riposo.
Non l’avevano presa, alla fine.
Lei era stata più brava.
Si chiese se il Rafiq sarebbe stato fiero di lei, sapendo quali gesta
aveva compiuto per non lasciare che la sua vita le venisse strappata.
‘Io
l’avevo detto, Rafiq, che i gatti non volano’.
Aggrappato al suo petto ansimante, il bambino piangeva. Si dimenava in
quel mucchio di coperte che gli impedivano di muoversi, ma sembrava
stare bene.
Lo aveva salvato alla caduta con il suo corpo, stringendolo a
sé in quel salto della fede che per lui era stato il primo e
per lei l’ultimo.
Sorridendo, chiuse gli occhi.
Il profumo di menta che le aveva pervaso le narici quando, molti anni
prima, aveva visto il Rafiq leggere, tornò a cullarla in un
improvviso sonno.
Ebbe l’impressione di essere osservata da qualcuno,
lì intorno, eppure era certa di essere sola. Si chiese se il
colpo che aveva preso alla testa non fosse stato così forte
da causarle allucinazioni.
Debolmente, si passò una mano sulla tempia. Era grondante di
sangue.
Forse, era tempo di concedersi un po’ di riposo.
Il pianto insistente del bambino tra le sue braccia fu
l’ultimo suono di cui riuscì a serbare memoria.
Fu il suo maestro a svegliarla,
scrollandole leggermente la spalla per indicarle la folla del mercato
che si stava accalcando addosso alla bancarella delle spezie.
Sentì Imaad ridere
con il viso nascosto nella sciarpa.
Imaad …
così giovane e con i capelli color della sabbia lasciati
crescere in un ammasso di morbidi riccioli che gli ricadevano sulle
guance paffute. Le mostrò la lingua e lei fece lo stesso di
rimando, scoprendosi seduta su una panchina nella piazza del mercato di
Gerusalemme.
In una pozzanghera, vide il suo
volto coperto dal cappuccio.
Era tornata ragazzina.
Provò a parlare e si
stupì di sentire quanta dolcezza vi fosse nella sua voce.
Con gli anni, si era dimenticata che suono avesse.
« Maestro, siete
tornato per restare? », chiese, osservando l’uomo
che per primo le aveva messo in mano una spada.
Lui sorrise appena,
sciogliendosi nei suoi lineamenti occidentali così morbidi e
aggraziati. Alzò una mano e gliela posò sul capo,
accarezzandolo con dolcezza.
« Non sono mai andato
via, habibti
», rispose.
Imaad la prese per il cappuccio.
« Già!
», esclamò, ridendo. « Siamo sempre
stati qui! »
Li guardò entrambi,
cacciando a stento le lacrime mentre la folla del mercato si faceva
più rada.
« Che fai, piangi?
», la schernì Imaad.
Il maestro la guardò
e sospirò, spiegando le labbra in un’espressione
intenerita. Tornò serio non appena un frusciare di vesti
più rapido del solito non catturò la sua
attenzione in fondo alla piazza.
« Laggiù
», disse, indicando il bersaglio muoversi verso il Muro del
Pianto. « Ragazzi, state pronti ».
Sentì la lama celata
di Imaad scattare con quel suo suono stridulo mentre si alzavano per
avvicinarsi con discrezione.
In un istante, tutti gli odori e
le voci di Gerusalemme le si frantumarono addosso come
un’onda si infrange sullo scoglio. Il profumo dolce dei
datteri, quello stomachevole della carne marcia; il belare delle
pecore, il vociare dei bambini; il rumore di un vaso che andava in
frantumi e il grido della donna che rimproverava Imaad per la rude
maniera con la quale l’aveva urtata.
D’istinto sorrise,
attaccandosi alla veste di un erudito per seguirlo attraverso il
mercato.
Sentiva su di sé lo
sguardo attento del maestro e gli occhi pieni d’amore di
Imaad.
Era tornata a casa.
Masyaf,
1228 (625)
Soffocando
un debole sospiro, il vecchio passò le dita raggrinzite tra
il pelo nero del gatto.
L’animale aprì la bocca per miagolare, ma non
uscì alcun suono. Con un balzo, si portò a terra
e sgusciò tra le sbarre della cella, probabilmente alla
ricerca di un ratto a cui spezzare il collo.
Tornò poco dopo con il suo bottino stretto tra i denti e si
accoccolò sulle ginocchia del vecchio, pronto ad ascoltare
un nuovo racconto.
« Mi dispiace, Qutaita », rispose l’uomo,
accarezzandogli il capo. « Ma non ho altro da raccontare. Non
l’ho più vista, da quel giorno ».
Il gatto nero spalancò gli occhi color dell’erba,
senza mascherare una certa delusione. Forse anche lui, come il vecchio,
avrebbe voluto conoscere la vera fine della donna che tanto gli
somigliava e da cui aveva preso il nome.
Con disappunto, aprì la bocca e lasciò cadere a
terra il suo ratto morto.
Stava per andarsene, quando un rumore di passi lo bloccò.
Il vecchio tentò di coprirlo con il suo mantello sgualcito,
ma il gatto sgusciò via talmente veloce da sparire nel buio
della prigione in un effimero battito di ciglia.
Riapparve con l’arrivo di un paio di stivali di cuoio sui
quali si strusciò a lungo, iniziando a fare le fusa.
Il vecchio assottigliò la vista debole a causa del buio e
dell’età.
La porta della cella si aprì e, scortato dal gatto nero,
l’uomo degli stivali di cuoio entrò in quel
piccolo ambiente che puzzava di morte.
Si chinò sul vecchio e gli tese la mano.
« Ce la fai a camminare, amico mio? », chiese con
voce profonda, guardandolo con gli occhi chiari che brillavano di
dolore.
In quegli occhi, il vecchio riconobbe Altaïr.
Afferrò la sua mano e si fece tirare in piedi.
« Per te, posso anche camminare ».
Rivolse un’occhiata di scuse al gatto nero,
perché, dopo tutta quella storia senza finale, lo avrebbe
abbandonato nel buio di una cella.
L’animale ricambiò aprendo la bocca e spalancando
gli occhi verdi.
Nonostante tutto, si ostinava a non miagolare.
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Note di un autore che si è ridotto così
Prima
o poi questo momento doveva arrivare: la fine.
Coriandoli, stelle filanti, champagne che cade a cascata dai balconi!
Quando ho iniziato questa storia, ormai due (tre?)
anni fa,
questo non era il finale che volevo. Ma, se avete seguito anche un po'
queste note di fine capitolo, avrete capito che io sono una persona
incapace di prendere decisioni per i propri personaggi, per cui alla
fine tutti hanno fatto quello che hanno voluto, si sono sposati con chi
hanno voluto, si sono uccisi come hanno voluto. Questo non vuol dire
che io non mi stia prendendo la responsabilità per il
finale,
sia chiaro. Vuol dire semplicemente che mentre scrivevo, sono cresciuta
un pochino io e sono cresciuti un pochino loro, e questo è
ciò che maggiormente mi piace delle storie.
Avrei tante, tantissime
cose da dire circa Qitt. Da dove è sbucata l'idea, per
esempio. Oppure cosa ne volessi fare all'inizio.
Tuttavia, penso che questo spazio sia meglio impiegato ringraziando chi
c'è stato per poco o per tanto e chi ha continuato a
esserci,
perché non penso sarei mai giunta a una conclusione (neanche
dopo un anno!) se non fosse stato per tutti gli apprezzamenti che ho
ricevuto. Certo, non si scrive solo per quelli, ma sarebbe falsa
modestia non ammettere quanto faccia piacere trovare un nuovo preferito
o una nuova recensione.
Quindi.
Il grazie più grande va di certo a chi c'è stato
da subito, ossia Illiana e O n i c e.
Sono assolutamente certa che senza il vostro prezioso e assiduo
supporto non avrei mai raggiunto neanche la metà di questa
storia, perciò vi devo tonnellate e tonnellate di biscotti
fatti
in casa!
A Illiana, soprattutto, con cui in privato ho scambiato dei bellissimi
messaggi e con cui ho fatto delle piacevoli conversazioni che anche nel
mio anno di pausa ho ricordato con piacere.
Poi è arrivata _volpina_,
che mi ha fatto notare i miei errori e che mi ha aiutata a migliorare.
Confesso che ogni tanto la stalkero su Facebook, soprattutto nei post
in cui appoggia il mio sogno politico: Feudalesimo e
Libertà.
Alla pugna!
A Natale, invece, si è palesata anche didi93,
con cui ho smattato un po' circa le reciproche vicende universitarie.
E' stato divertentissimo, eheh! Spero di riprendere, un giorno.
Per poco c'è stata anche Littlestar1990,
che è sparita poco dopo ma che comunque voglio abbracciare.
Infine, ultima arrivata, Benez,
con cui ho parlato poco e niente ma che voglio comunque ringraziare,
visto che ha avuto la pazienza di recuperarsi venti capitoli in una
giornata!
Ovviamente, mando biscottini anche a tutte queste persone, che sono
coloro che hanno aggiunto la storia ai preferiti/seguiti (alcuni anche
recentemente ... wow!): Apeiron_
, Boss_Pride, carmen666, GoldenGorian, ladyjessy, make_me_happy,
Miao93, Silently, _J,
hola1994, FhRVancent, ice___, LindonaNazionale, schizophrenos,
xTrinkyWinky,_Fiore di Loto_.
Non so davvero cosa dire: per me siete tantissimi e non ho parole per
ringraziarvi e per dirvi quanto mi stupiscano questi numeri!
Perciò, grazie mille a tutti, è stato bellissimo.
❤
... a questo punto credo di essere stata anche troppo logorroica,
perciò mi ritiro.
Un bacio a tutti,
Lechatvert
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