Ringraziamenti:
- a Beab per la recensione al Cap.
II;
- a Caterozza per la recensione al Cap.
II;
- a Emily
Doyle
per la recensione al Cap. II, per aver inserito la storia fra i
preferiti e per avermi inserito fra i suoi autori preferiti (e chi
più ne ha più ne metta! Grazie di cuore, Emily
Doyle!)
- a Fujiima per la recensione al Cap.
II;
- a Luisina per le recensioni ai Capp.
I e II;
- a Pigna per aver inserito la
storia tra i preferiti;
- a tutti quelli
che commenteranno quest'ultimo capitolo.
Cap.
III
Le indagini andavano avanti in modo febbrile: si trattava
però di una febbre assai alta, comportante deliri notturni.
Dunque, per farla breve, si brancolava nel buio.
Né la polizia né il nostro infallibile detective,
Alberto Gervasoni, avevano trovato anche la più piccola
traccia che potesse aprire almeno uno spiraglio nella fumosa
oscurità che contornava il caso.
Di persone ne erano state interrogate a centinaia, eppure nessuno era
in grado di spiegare l’accaduto. Si erano battute le piste
più disparate, concentrando una certa attenzione attorno
alle sette sataniche ed alle messe nere. Alberto Gervasioni, da par
suo, si era letto tomi su tomi a proposito di queste così
oscure tradizioni, che sono radicate da secoli e forse pure da millenni
in qualsiasi società del mondo, ma che emergono solo in
maniera subdola e meschina, senza volersi far notare in alcun modo.
Comunque a qualche risultato le indagini avevano pur condotto: infatti,
con infiltrati e appostamenti di non facile realizzazione, la polizia
era riuscita a scoprire e smantellare due grosse sette sataniche che
avevano animato per anni le convulse e misteriose notti toscane.
Tutto questo, se da un lato riempiva alcuni titoli di importanti
quotidiani, dall’altro non aveva però condotto a
nulla per il caso che ci interessava.
La milady, nel frattempo, era diventata personaggio pubblico di spicco:
non riusciva a darsi pace per la scomparsa del marito, e
così non perdeva occasione di comparire in televisione o sui
giornali per esibirsi in drammatici e commoventi appelli rivolti a
chiunque poteva essere d’aiuto alle indagini. Pregava,
implorava chiunque avesse saputo qualcosa di farsi avanti, di andare
dalla polizia o di farsi vivo direttamente con lei. Alla fine decise
perfino di porre una ricompensa in favore di chi avesse saputo fornire
indicazioni inerenti al caso.
Appena la ricompensa fu pubblicizzata dalle maggiori testate
giornalistiche, furono tantissimi i millantatori che si fecero avanti:
megalomani, scriteriati o morti di fame che cercavano solo i soldi
promessi, inventavano storie favoleggianti ed incredibili che gettavano
la polizia e soprattutto la vedova nel più completo
sconforto. Ma non nella rassegnazione. Almeno per ciò che
concerne la milady. Infatti, dopo più di un anno di
indagini, la polizia, con un pugno di sabbia tra le mani, fu costretta
ad archiviare il caso. La vedova non accettò mai questo
frequente meccanismo che investe le attività giudiziarie, e
continuò dritta per la sua strada. E la sua strada aveva un
nome: Alberto Gervasoni.
In questo anno che cosa era riuscito a scoprire il nostro detective?
Niente. E lo dico mestamente, ma anche con estrema onestà.
Il caso era davvero impossibile da risolvere: non un indizio, non una
traccia, non un testimone, non una prova. Alberto Gervasoni, data
l’assurdità dell’inchiesta, aveva
battuto le piste più assurde, quelle che la polizia aveva
trascurato a priori. Eppure, nonostante che le strade più
impensabili portino spesso ad incredibili verità, queste
tracce seguite si rivelarono sempre troppo labili, sconfinanti a volte
nel patetico e nell’illusorio.
Io su tutto ciò mi ero fatto un’idea che a
distanza di tempo ancor oggi non me la sento di confutare: Alberto
Gervasoni non era più lo stesso. Aveva accantonato la
propria proverbiale sagacia intellettiva, il proprio fiuto di cane da
tartufi, per assecondare infelicemente il proprio cuore. Eppure la
milady non mostrava nei suoi confronti alcun interesse, se non
un’imprescindibile ansia legata all’esito delle
indagini. Più di una volta mi era capitato di spiare,
origliando da dietro la porta, i colloqui che periodicamente aveva
Alberto Gervasoni con la milady: a volte avevo udito la vedova
sconfortata concedersi ad un sonoro pianto che a fatica il nostro
detective riusciva a sedare; altre volte invece erano perfino volate
parole accese, in cui la milady rimproverava Alberto Gervasoni di non
essere stato produttivo nelle proprie investigazioni.
La vedova, in fondo, confidava molto in Alberto Gervasoni, ma il caso
da risolvere era davvero impervio ed inestricabile, e come minimo
sarebbe servito perseverare nelle indagini, e tutto ciò
richiedeva inevitabilmente del tempo. Ma il tempo è sempre
troppo crudele con tutti noi: quasi sempre, oltre alle persone, uccide
anche il loro ricordo. E la milady sembrava avere troppa paura di
scordare suo marito, così da non riuscire a concepire in
alcun modo il tempo che passava arido e sterile senza portare i frutti
sperati per le indagini.
Poi arrivò un pomeriggio d’ottobre: la quadratura
del cerchio.
Alberto Gervasoni era ospite al castello della milady: era ormai
consuetudine che, almeno una volta alla settimana, il nostro detective
e la ricca vedova si vedessero per discutere delle indagini e delle
piste ancora da battere. Così, se di solito era lei a
recarsi nella più modesta abitazione di lui, a volte, dati
improcrastinabili impegni di lei, succedeva che dovesse essere lui a
recarsi al castello di lei. E così avvenne quel pomeriggio.
La milady doveva sbrigare delle impellenti pratiche col suo
commercialista, che era la persona che le era stata più
vicino da quando il marito era defunto. Nell’attesa Alberto
Gervasoni, ricevuto sempre con notevole garbo dal personale di servizio
della milady, si comportava come se fosse stato in casa propria: girava
per le infinite stanze del castello, cercando di ammazzare il tempo. Il
suo sguardo, impigrito dalla prolungata aridità delle
indagini che stava seguendo, si soffermava volentieri a rimirare le
bellissime (e costosissime…) tele che adornavano il
castello: gli splendidi arazzi colorati lo incuriosivano, le antiche
armature erette a statue gli trasmettevano un certo senso di arcaica
tensione verso l’ignoto, e le mille e altre
preziosità che si trovavano sparse in tutte le stanze
attiravano il suo vivace interesse da amante di antiquariato.
C’era poi una stanza in cui era dato sfoggio a tutte le
preziosissime collane della milady: ce n’erano di tutti i
tipi, ma una in particolare colpì il nostro detective. Era
una collana con uno strano ciondolo a forma di pipistrello, tutta
dorata e con incastonato un topazio. Senza dubbio una collana alquanto
particolare. Ma, se la memoria non lo ingannava, Alberto Gervasoni era
convinto di averla veduta già da qualche altra parte. Ma
dove?
Così con la propria mente si buttò a capofitto
nel ricordo, cercando affannosamente il posto o la circostanza in cui
in precedenza aveva già visto quella stranissima collana. E
proprio mentre era catturato da simili pensieri (così
pruriginosi per certi versi…), la voce della milady
interruppe d’improvviso tali ragionamenti invitando il
detective al suo colloquio. Così Alberto Gervasoni, come un
bambino svegliato al mattino dalla madre mentre stava facendo un sogno,
ritornò in sé ritornando al presente, e si
diresse celere nella stanza in cui l’attendeva la milady. Il
commercialista stava abbandonando la sala con la sua valigetta
sottobraccio quando il nostro detective giunse sulla soglia, e proprio
in quell’istante si ricompose in qualche modo un puzzle nella
sua mente: mentre lui stava entrando nel salone il commercialista stava
uscendo, ed inevitabilmente gli sguardi dei due si incrociarono, ed un
fugace saluto per parte ruppe il silenzio reciproco. Alberto Gervasoni
ora si ricordava in quale precedente occasione aveva già
avuto modo di vedere una collana come quella prima ammirata: un giorno,
recatosi nello studio del commercialista per sbrigare alcune pratiche
relative all’onorario che gli spettava per i servigi da
detective prestati alla milady, Alberto Gervasoni aveva nitidamente
scorto quella collana nella valigetta aperta sul tavolo del
commercialista. Una semplice coincidenza? Difficile da credersi. Molto
più probabilmente quella collana c’era finita per
sbaglio là dentro, e difatti ora si trovava nuovamente al
suo posto nel castello della milady. C’era qualcosa sotto, ed
anche la mente meno ingegnosa di questo mondo non ci avrebbe messo
ancora molto a formulare una maliziosa congettura al proposito.
Alberto Gervasoni aveva un fortissimo sospetto: tra il commercialista e
la vedova esisteva qualcosa.
Una pruriginosa complicità avrebbe dunque avvolto i due, che
dopo la morte del marito di lei, erano stati a contatto continuo,
vicini costantemente l’uno all’altro.
Dentro di sé, però, Alberto Gervasoni faceva di
tutto per scacciare questa supposizione: troppo forte era
l’amore che provava per la milady, e avrebbe dato qualsiasi
cosa perché non fosse stato vero quanto aveva immaginato.
Però un detective e pur sempre un detective, ed
un’indole investigativa non potrà mai essere del
tutto assecondata dai dettami del cuore.
Così il nostro investigatore iniziò a battere la
pista che fino a quel punto aveva volontariamente evitato: il
commercialista era uomo assai grosso e robusto, ancor più
del defunto; perciò non ci sarebbe stato niente di
sconvolgente nello scoprire che il cadavere fosse stato trasportato
giù al fiume proprio dal commercialista stesso. Ma questa di
certo non è una prova. E per il nostro Alberto Gervasoni non
vale neppure il postulato della Christie secondo cui tre indizi fanno
una prova: bisogna essere esigenti nella vita.
Labirintiche ricerche portarono però qualche
novità utile alla risoluzione del caso: Alberto Gervasoni,
tramite un amico che lavorava nella biblioteca di Firenze,
scoprì che il commercialista aveva preso in prestito alcuni
libri di stregoneria in tempi addietro. Tutto questo, forse, avrebbe
potuto spiegare lo stato in cui fu ritrovato il cadavere, che fin da
subito aveva fatto pensare a dei riti di messa nera.
Arrivati a questo punto, entrai in gioco io: Alberto Gervasoni mi
mandò come al solito in avanscoperta, nei miei consueti
appostamenti. Dovevo seguire, spiare e fotografare nella vita privata
gli incontri dei due sospetti, cercando di scoprire che fra la milady
ed il commercialista vi fosse una relazione sentimentale. Devo dire che
i due erano assai discreti, e dunque di materiale compromettente non ne
ricavai proprio nulla.
Ma se da un lato il mio intervento era stato vano, dall’altro
Alberto Gervasoni aveva un piano di riserva: il nostro detective aveva
assoldato Carrugia. Carrugia era il soprannome di un abitante di
Poggibonsi che aveva una fedina penale assai poco pulita: precedenti di
poco conto, ma pur sempre una personalità iraconda e
violenta. Così Carrugia aveva ricevuto il preciso compito di
spaventare e minacciare uno dei domestici della milady (precisamente
quello che Alberto Gervasoni aveva ritenuto essere il più
volubile, in base alla sua frequentazione del castello)
affinché questo gli potesse confessare la presunta relazione
tra la vedova ed il commercialista.
Alberto Gervasoni non è mai stato avvezzo a tali metodi
così poco ortodossi, però il caso (e
l’ira che covava dentro) lo avevano portato a percorrere
anche questa strada forse un po’ meno professionale ma
senz’altro efficace. Infatti quella che poc’anzi ho
definito presunta, si rivelò a tutti gli effetti
un’autentica relazione: del resto certe cose non sfuggono mai
ad un domestico…
Ora serviva il movente: l’allettante eredità
poteva bastare? Questa è una domanda retorica, lo sappiamo
tutti. Ma perché allora la milady avrebbe assoldato a sue
spese un detective? Alberto Gervasoni conosceva la risposta a questo
quesito, e si trattava di una risposta amara, che lo feriva
nell’orgoglio. Infatti la milady dal giorno del ritrovamento
del cadavere aveva fatto di tutto per depistare da sé le
indagini, recitando ottimamente la parte della vedova inconsolabile:
aveva organizzato l’omicidio come se si fosse trattato di una
messa nera; aveva prepotentemente fornito di sé ai mass
media l’immagine di una donna derubata del proprio amore (e
l’istituzione della ricompensa era la ciliegina sulla torta
di siffatto piano); ed infine aveva assoldato per confutare qualsiasi
illazione sul suo conto perfino un investigatore privato. Ma con i
soldi di cui disponeva, e tenuto conto del fittissimo alone di mistero
che circondava il caso, perché affidare l’incarico
ad un anonimo detective di provincia? Un detective che in questo campo
non aveva esperienza alcuna. Ed inoltre, perché nonostante
il perdurare dell’infruttuosità delle indagini non
l’aveva ancora sostituito con un più rinomato
investigatore, magari di fama internazionale anziché
limitata alla sola cittadina di Poggibonsi? Ovviamente tutto questo
serviva da diversivo: la milady era convinta che Alberto Gervasoni non
sarebbe mai stato in grado di risolvere il caso. E si sbagliava.
Ora, da bravo detective che aveva raccolto buoni indizi che potevano
anche assurgere al ruolo di prove, necessitava però della
prova principe: la confessione. Si sa che per ottenere certe cose non
bisogna andarci giù leggeri, ed i modi signorili non servono
granché. Dunque ritornò utile l’aiuto
di Carrugia, ma ovviamente Alberto Gervasoni non avrebbe mai permesso
che a venire spaventata e coartata fosse la milady, quindi la
“vittima” sarebbe stata il commercialista.
Così, una notte, il nostro investigatore e Carrugia, a bordo
della macchina di quest’ultimo, pedinarono il commercialista.
Dopo aver lasciato il castello della vedova per il consueto e
quotidiano incontro con la bella femme fatale, il commercialista si
diresse con la propria automobile verso casa, percorrendo le tortuose e
solitarie strade di collina che disegnano la mappa stradale della
nostra regione. Ovviamente, vista l’assoluta assenza di altre
automobili, il pedinato non ci mise poi molto a capire di essere
seguito: inoltre l’auto di Carrugia procedeva costantemente
con gli abbaglianti accesi, in modo da dare ancor più
fastidio al commercialista, e certamente in questo modo non poteva
passare inosservata. Poi, quanto furono su una strada rinomata per non
essere mai attraversata da anima viva, l’auto di Carrugia
accelerò bruscamente, invase la corsia opposta e, dopo aver
sorpassato l’auto del commercialista, sterzò
d’improvviso, costringendo l’auto
dell’inseguito a finire fuori strada. L’urto contro
il guarderail non fu indolore, ed il commercialista perse i sensi.
Carrugia scese dalla sua auto assieme al nostro detective, e accorse il
ferito: due belle sberle lo fecero rinvenire, e poi, con modi alquanto
triviali, lo spinse in terra. La scena, dunque, si presentava in questo
modo: il commercialista contuso (e confuso) aveva puntato in volto la
luce abbagliante di uno dei fari dell’auto di Carrugia, che
gli impediva di distinguere Alberto Gervasoni (che stava in piedi
accanto all’auto), attento ad ogni parola, in febbrile attesa
della tanto agognata confessione. Ed a confessare con ci mise molto il
commercialista, dati i modi ruvidi ma efficacissimi di Carrugia.
Alberto Gervasoni, sentendo il commercialista disperato che ammetteva
ogni colpa, che confessava il complotto con la milady ai danni del
marito, non poté restare impassibile: una lacrima gli
rigò furtiva il volto teso ed indurito dal tempo. Sentiva
dentro di sé l’odio più profondo per
quella donna falsa e traditrice. Eppure sentiva ancora un barlume
d’amore. Forse certe cose non si posso spiegare a parole, e
si capiscono solo mentre vengono vissute in prima persona: ed Alberto
Gervasoni, in quel preciso momento, si trovava in questo stato di
confusione. Lui odiava quell’assassina, ma al contempo
l’amava ancora.
Tornato a casa dopo aver lasciato andare il commercialista come un
coniglio, Alberto Gervasoni non riuscì a dormire ripensando
di continuo a tutta la losca faccenda. Ed al suo mal di cuore.
La donna che amava l’aveva sfruttato, l’aveva
utilizzato come pezza da piedi puntando sulla sua (presunta)
incapacità. Lui era stato uno dei tanti ingranaggi ben
oliati che avevano permesso al meccanismo criminale architettato dalla
vedova di poter funzionare senza incepparsi. Almeno fino ad allora.
Ora non restava altro che avvisare la polizia: ma questo Alberto
Gervasoni non lo fece mai.
Il grande detective che aveva saputo risolvere un caso praticamente
impossibile preferì assecondare il proprio cuore. Questo gli
sarebbe costato caro: in primis l’orgoglio.
Decise così di andare al castello per parlare con la milady:
quell’ultima volta che la vide non la guardò mai
in volto per tutto il tempo del brevissimo incontro, nel quale
rassegnò le proprie dimissioni dal caso dicendo che non era
stato in grado di risolverlo. La milady cercò invano di
farlo tornare sui suoi passi. Lui non le concesse neanche uno sguardo,
neanche una parola di conforto: sapeva tutto quello che era accaduto ma
non lasciò trapelare nulla. Preferì fingersi un
incapace, un detective che aveva fallito nella propria missione. E
tutto questo per assecondare il proprio cuore, per non tradire
l’amore che aveva provato (e forse provava ancora) per la
milady. Mai e poi mai avrebbe voluto far marcire in cella
l’unica donna che in tutta la propria vita aveva saputo
amare, anche se sarebbe stato giusto il contrario. Ma al cuor non si
comanda…
Questa che ci diede Alberto Gervasoni fu una lezione immensa, una
dimostrazione unica di che cosa vuol dire avere un’anima: ci
rimise forse il nome (o quel poco che aveva guadagnato in quegli anni a
Poggibonsi…), ma face vincere il suo essere uomo sul suo
essere detective.
Qualche mese più tardi arrivò un nuovo caso, il
primo dopo l’inchiesta svolta per conto della milady: doveva
ritrovare Augello, il mulo della signora Pallotti. Alberto Gervasoni si
sentì rinato, e affinò nuovamente il suo grande
fiuto da segugio infallibile. Gli occhi tornarono ad illuminarsi di
quella luce che era andata scomparendo: Alberto Gervasoni era tornato!
In men che non si dica ritrovò il cocciuto mulo: il
quadrupede si era imboscato nella fitta macchia che circonda
Poggibonsi, e fu ritrovato mentre cercava di accoppiarsi con Buretta,
l’asina del signor Ponchielli (che però aveva
preferito non denunciarne la scomparsa).
Del resto la vita va così: da una parte
c’è chi fa l’amore, e
dall’altra c’è chi investiga. E non
è forse vero che l’amore è il
più grande mistero al mondo?
NOTA
DELL’AUTORE:
questa
storia è stata suddivisa non a caso in tre capitoli: tutto
ciò perché si tratta di un’operazione
complessa e dinamica, in cui progressivamente il racconto muta. Il
primo capitolo è il più parodistico e comico; nel
secondo il tono ilare si allenta; nel terzo si ribalta il tutto, con un
tono drammatico e fortemente introspettivo. Basti pensare, ad esempio,
all’espediente utilizzato per la voce narrante:
all’inizio è molto forte la presenza narrativa del
ragazzino che racconta la storia, ed addirittura si fanno accenni anche
a fatti e cose che concernono la sua vita privata (e non quella del
detective); poi, però, progressivamente è come se
scomparisse il personaggio del ragazzino, e la voce al contempo diviene
sempre più onnisciente. Nonostante questi mutamenti
stilistici continui (che Beab
aveva già denotato dal secondo capitolo) che rappresentano
una cifra stilistica costante nell’opera del sottoscritto
autore (fondata sulla contaminatio di generi), vi sono comunque aspetti
costanti nella narrazione, a partire dall’ironia che anche
nei momenti drammatici stempera un po’ la tensione narrativa.
Ho voluto poi scrivere sempre “Alberto Gervasoni”,
senza mai scindere prenome e cognome, per creare un effetto parodistico
e capace di riprodurre un ricorso onomastico diffuso tuttora in certe
realtà rurali.
Questa
storia, che soprattutto nell’ultimo capitolo svela il
ragionamento investigativo del protagonista in un modo anomalo per una
detective story, vuole essere una riflessione sull’amore in
fondo, e sulla contrapposizione fra cuore e mente, istinto e
razionalità: due cose che per il sottoscritto sono un
tutt’uno, con differenti “tempi di
reazione” però.
Ringrazio
chi ha seguito questa storia così particolare e mutevole
nello stile (per dirla alla Queneau, è una sorta di
“esercizio di stile”…), e ringrazio Harriet per avermela
ispirata con il suo contest.
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