Cap 1
Un
ringraziamento speciale a Lilith,
la mia beta,
che mi ha aiutata a
dare la forma migliore a questo capitolo.
Capitolo 1
Il
fruscio degli abiti che sfioravano il
pavimento si univa al tacchettio ripetitivo degli stivali dei
gentiluomini, al
battito ritmico delle mani, in un connubio di suoni e rumori che
denotavano
brio e serenità. Le risate soffocate provenienti dagli
angoli nascosti della
sala e le composizioni allegre dei musicisti facevano da sottofondo
alle danze
con cui i commensali erano soliti passare l’ora successiva al
pranzo. Quel
giorno il tempo dedicato a quest’attività sembrava
non dover finire mai: in attesa
dell’imminente arrivo del nuovo ambasciatore spagnolo, il
duca di Grifo non si
era ancora ritirato dalla Sala Grande del castello e tutta la sua corte
era
rimasta con lui, assecondando il suo momentaneo buon umore.
In
quest’atmosfera leggera e spensierata, Sibilla
si muoveva con grazia, impegnata nell’arte che più
amava, con un sorriso sulle
labbra sebbene il suo cavaliere non fosse di suo gradimento. Era un
discreto
ballerino, migliore di quello al suo fianco che aveva rischiato
più volte di
urtarla con i suoi movimenti impacciati, ma il suo sguardo tradiva le
sue vere
intenzioni e lei non avrebbe mai potuto sopportare un uomo simile per
più di un
paio di danze. Come la maggior parte degli uomini che aveva conosciuto
fino ad
allora, Domenico Busti era interessato solo a tre cose: potere, denaro
e sesso.
Se il padre di Sibilla avesse deciso di accettare la sua proposta di
matrimonio, lei sarebbe stata sua e lui si sarebbe preso tutto
ciò che avrebbe
voluto. Potere, perché nonostante non fosse di nobili
origini come lui, il
ruolo che aveva avuto suo padre nel consolidare il ducato di Grifo
l’aveva
fatto salire ai primi posti tra le grazie del duca Terenzio. Denaro,
perché
egli era stato ripagato abbondantemente per i suoi servigi. Sesso,
perché una
volta sposata Sibilla non avrebbe potuto opporsi a nessun desiderio del
marito.
Una volta sposata avrebbe perso anche la poca libertà di cui
godeva in quel
momento. Era il destino di ogni donna e la sua ricchezza non
l’avrebbe aiutata
a cambiarlo. Non aveva fratelli o sorelle, sua madre era morta dandola
alla
luce e i due matrimoni successivi di suo padre non avevano generato
altri
figli. Era l’unica erede di un grande patrimonio, ma non
avrebbe mai potuto
toccarlo. Lei era solo una donna, incapace di prendersi cura di se
stessa e
vivere un’esistenza indipendente dall’aiuto degli
uomini. Non aveva diritto di
parola nemmeno nella scelta del suo consorte perché, a
dispetto delle sue
preferenze, sarebbe stato suo padre a scegliere l’uomo
più adatto a lei e alla
sua fortuna. Se, Dio non voglia, egli fosse passato a miglior vita
prima di
aver preso la sua decisione, si sarebbe incaricato il duca in persona
di questo
compito. Così Sibilla doveva danzare con lui, donargli
sorrisi affabili, ridere
alle sue battute noiose e non infastidirlo mai. Tutto purché
egli non ritirasse
la sua offerta, che era ormai da settimane al vaglio di suo padre,
insieme a
quella di un altro uomo di pari qualità.
«Sibilla.»
La voce del suo compagno di danza la
richiamò e per un momento temette che lui avesse notato che
si era distratta,
intenta a riflettere sul suo futuro mentre avrebbe dovuto prestare
tutta la sua
attenzione a lui. Si rese conto però che lui non si era
accorto di nulla: la
stava ancora guardando con un sorriso orgoglioso quando si
chinò verso di lei
per sussurrarle all’orecchio.
«La
Duchessa Giacinta ci sta osservando» mormorò,
con sguardo complice. «Sembriamo piacerle molto
insieme.»
Sibilla
sorrise, senza guardare verso la sua
signora: sapeva che lei non apprezzava affatto l’uomo che
aveva davanti.
«Ne
sono certa, non c’è motivo per cui non
dovremmo piacerle insieme» mentì, approfittando
del movimento del ballo per
superarlo e non dovergli mostrare il suo volto.
Sarebbero
stati davvero una bella coppia, se non
si fossero considerati i loro
caratteri contrastanti, i loro pensieri diametralmente opposti e la
totale
mancanza di interessi comuni. Graziosi come due bamboline di pezza, con
un
finto sorriso cucito sul volto e il cuore di stoffa, incapaci di
provare un
sentimento di vero affetto l’uno per l’altra.
Fu
il suono di decine di passi rumorosi e
affrettati a interrompere le danze. Bastò che il duca
alzasse la mano, una
volta udito il rumore, perché i musicisti smettessero di
suonare i loro
strumenti e i ballerini si ritirassero ai lati della sala, pronti ad
accogliere
i nuovi arrivati. Sibilla recuperò il suo posto tra le dame
di compagnia della
duchessa, ai piedi dei tre gradini che rialzavano gli scanni dei
consorti
rispetto al resto della sala.
«Dicono
che sia molto affascinante» le sussurrò
Caterina, la sua compagna di stanza, tenendo gli occhi puntati
all’entrata
della stanza.
«Chi
lo dice?» domandò Sibilla, incuriosita. L’ambasciatore non era mai stato nel
ducato
di Grifo prima d’ora e pertanto nessuno degli abitanti del
luogo l’aveva mai
visto.
«Me
l’ha raccontato Helena quando abbiamo avuto
la notizia del suo incarico, prima di…» Non
concluse la frase, non ce n’era
bisogno. Tacquero entrambe, memori della terribile fine della ragazza.
Helena
era giunta dalla Spagna come accompagnatrice della duchessa sei anni
prima, le
era stata vicina nel primo periodo di matrimonio, il più
difficile. Il
temperamento di Jacinta Ribera non era affatto mansueto e docile come
avrebbe
desiderato suo marito. Nei primi mesi di convivenza si erano ripetuti
litigi e
discussioni: la donna non voleva accettare il posto sottomesso e
silenzioso che
era stato pensato per lei, era cresciuta in un ambiente in cui aveva
sempre
potuto esternare la sua opinione e prendere decisioni a riguardo della
propria
persona e di coloro che la circondavano. La sua battaglia per avere
maggior
peso negli affari del marito era andata persa: aveva dovuto arrendersi
e
relegarsi nel ruolo a lei prescritto. Era la duchessa di Grifo, la
figlia del
barone Ribera, era stata una delle prime dame del Regno di Spagna, ma
rimaneva
sempre una donna. Di fronte a suo marito era impotente: nessuno
l’avrebbe
salvata dalla sua furia se lui avesse deciso che non valeva la pena di
tenerla
con sé solo per salvaguardare i rapporti con il suo paese
natale. Così aveva
richiesto che la si chiamasse Giacinta ed era diventata la buona moglie
a cui
egli aveva aspirato: bella, giovane, servizievole, indifferente alle
questioni
politiche e sempre pronta ad accoglierlo tra le sue braccia quando lui
l’avesse
voluto. Non era mai riuscita a imporsi in nessun frangente: non aveva
nemmeno
potuto salvare la sua più fidata confidente quando Terenzio
Grifo aveva deciso
che quell’ingenua ragazza spagnola era aveva certamente una
strega e l’aveva
mandata al rogo.
Senza
di lei la duchessa era rimasta sola in quel
paese straniero, aveva dovuto imparare a fidarsi delle altre dame di
corte ma
Sibilla dubitava che ci fosse mai
riuscita realmente. Helena era stata fedele alla duchessa prima di
tutto, la
loro priorità era invece il ducato.
L’arrivo
di una persona che condivideva i suoi
valori e che era cresciuta nel suo stesso ambiente doveva portarle
grande
conforto: di lui avrebbe potuto fidarsi ciecamente.
Quello
che ben presto sarebbe diventato il suo
uomo di fiducia era appena stato presentato dal valletto di corte e si
stava
inchinando al centro della sala.
«Helena
aveva ragione» mormorò Caterina
sottovoce, osservandolo.
«Ambasciatore
Lozano» lo salutò il duca,
invitandolo a sollevarsi. «Voi e il vostro seguito siete i
benvenuti nel Ducato
di Grifo. Mi auguro che con questa vicinanza l’alleanza tra i
nostri paesi si
possa rafforzare e il nostro legame diventare più solido e
duraturo.»
«In
qualità di rappresentante del Regno di
Spagna, vi posso assicurare che questo desiderio è
reciproco. Sua Maestà tiene
molto a quest’alleanza e mi ha mandato a voi per preservare i
vostri interessi
comuni.» La sua voce era roca, forse per via del forte vento
che aveva dovuto
sopportare durante la cavalcata, e possedeva un timbro particolare,
l’accento
tipicamente spagnolo che Sibilla non sentiva da molto tempo. La
duchessa aveva
appreso a parlare la loro lingua in modo impeccabile e nessuno,
udendola,
avrebbe potuto dire che non fosse originaria del Ducato stesso.
«Sono
certo che ricordiate mia moglie» disse
allora il duca, accennando alla donna seduta al suo fianco. Giacinta si
sollevò
e scese i gradini, allungando il braccio in modo che
l’ambasciatore potesse
baciarle la mano.
«Nessuno
potrebbe dimenticare il fiore di Ribera»
rispose, posando le sue labbra sul dorso della sua mano e sfiorandole
con le
dita il polso. «È una gioia rivedervi,
duchessa.»
«Sono
lieta che siate giunto da noi, Lozano. La
vostra presenza mi ricorda la mia felice giovinezza in Spagna e questo
mi rende
grata dello splendore che la vita continua a offrirmi anche
ora.» Pronunciò le
ultime parole voltandosi verso il marito con un sorriso convincente e
apparentemente sincero.
«Dovete
essere assetato» s’intromise l’uomo.
«Seguitemi nel mio gabinetto, potrete godere di un piccolo
rinfresco e avremo
la possibilità di discutere delle incombenze più
urgenti.»
Giacinta
si fece da parte con un cenno del capo,
senza far notare al marito che avrebbe potuto rimandare le discussioni
almeno
al giorno successivo e lasciare al loro ospite il tempo di riposare.
Con ogni
probabilità le avrebbe risposto che lei, essendo una donna,
non poteva capire
l’urgenza di quelle faccende e non aveva la costituzione
adatta a un lavoro
continuo e impegnativo. Sarebbe stata umiliata davanti alla corte e
questo non
poteva sopportarlo.
Così
sorrise e accennò un inchino, un piccolo e
aggraziato movimento del corpo per congedarsi in modo appropriato al
proprio
rango.
Si
diresse ai propri appartamenti, seguita dalle
sue dame, per quello che a tutti sarebbe apparso un banale pomeriggio
passato a
ricamare e a leggere le Sacre Scritture, le attività
più adatte a una signora
rispettabile.
*
* *
Sibilla
si fermò nel corridoio che portava alla
sala dove si tenevano solitamente i banchetti e si ritirò in
un angolo, attendendo
che suo padre la raggiungesse. Aveva sentito il suo sguardo insistente
posarsi
su di lei mentre camminava con le altre dame e aveva capito che voleva
parlarle.
«Padre»
lo salutò, abbassando il capo in segno di
rispetto.
«Domenico
Busti mi ha riferito che la duchessa ha
dato segni di apprezzamento nei vostri confronti mentre danzavate. Ha
mai
parlato di lui nelle sue stanze? È forse uno dei suoi
favoriti?» chiese lui,
senza soffermarsi in convenevoli.
Da
qualche mese era diventato particolarmente diretto
e pragmatico. Forse perché iniziava a sentire il peso degli
anni sulle sue
spalle e non credeva di avere ancora molto tempo a sua disposizione.
Aveva
fretta di sistemare tutti gli affari ancora aperti e Sibilla era uno di
questi.
«Non
è uno dei suoi favoriti. Sapete che non ha
favoriti tra gli uomini del duca.»
«Non
ne ha di ufficiali. Deve pur avere qualche
preferenza, non può disprezzare tutti gli uomini della corte
allo stesso modo.
Pensaci bene. Sai che è tuo dovere tenerla
d’occhio e riferirmi ogni
comportamento o commento fuori luogo. Il duca fa affidamento sulla
nostra
famiglia e non possiamo permetterci di deluderlo.»
«Ne
sono consapevole, padre. L’unico motivo per
cui non ho riferito nulla è che la duchessa non ha mai detto
o fatto niente di
equivoco. Se davvero, come ritenete, non è fedele al ducato,
è un’abile
simulatrice.»
«È
una straniera» le ricordò l’uomo, con
tono
disgustato. «Non sarà mai fedele ai
Grifo.»
Sibilla
abbassò lo sguardo, consapevole oramai
che contraddirlo non era una buona idea.
«Se
Busti non è tra i suoi preferiti, non posso
ancora scegliere lui come mio erede. Vedi di danzare con Giuliano
Crespi questa
sera; e sii amabile.»
«È
davvero
necessario?» sospirò lei, quasi senza
accorgersene. Si morse la lingua per
quella sua esclamazione, preannunciando la reazione di suo padre.
«Hai
ricevuto un titolo nobiliare senza che io lo sapessi,
ragazza?» sibilò lui con
voce bassa ma tagliente. «La nostra ricchezza non ha valore
senza un titolo. Se
dovessimo per sventura uscire dalle grazie del duca, potremmo rimanere
senza un
soldo e un tetto per ripararci la notte. Abbiamo bisogno di unirci a
qualcuno
che abbia un nome e tu sei il mezzo per farlo. Quindi, sì:
è necessario,
assolutamente necessario!»
Sibilla
non riuscì a rialzare gli occhi per incontrare quelli
dell’uomo ormai
visibilmente alterato che aveva davanti.
«Scusami,
papà» mormorò, sperando di calmare la
sua ira con un tono docile e parole più
intime del «Perdonatemi, padre» che avrebbe
utilizzato di solito.
«Entra»
le
rispose lui, indicandole la sala del banchetto. Sibilla
obbedì immediatamente,
congedandosi con un rapido inchino e sforzandosi per mantenere un
sorriso sul
volto per non far vedere a nessuno che avevano avuto una discussione.
Le sue
scuse non erano servite a nulla, suo padre era ancora alterato e questo
l’avrebbe reso più vigile che mai sul
comportamento che lei avrebbe avuto
quella sera. Si accomodò al tavolo riservato alle dame di
corte, dove
l’ambasciatore spagnolo rimaneva il principale argomento di
conversazione.
«Quanto
credete che resterà?»
«Mio
fratello ha detto che al duca sembra piacere molto.»
«Secondo
voi sta cercando una moglie?»
«Siete
sicure che non sia già sposato e non abbia una famiglia in
Spagna?»
Domande
veloci e curiose si sovrastarono in una lotta di sussurri e occhiatine
all’uomo
seduto accanto al duca al tavolo d’onore. Anche Sibilla
s’intromise nella
conversazione, improvvisando risposte che portavano a ulteriori punti
interrogativi.
«La
duchessa non ha parlato affatto del suo arrivo, oggi. Non trovate che
sia
strano? Credevo che le avesse fatto piacere rivedere un volto familiare
della
sua infanzia!»
Sibilla
si
concentrò su quelle parole, attendendo una replica, a
disagio. Aveva il dovere
di ascoltare, ma non aveva mai avuto il desiderio di scoprire qualcosa
che
potesse mettere la sua signora nei problemi. Era una straniera,
sì, ma rimaneva
pur sempre una donna in balia di un mondo governato da uomini. Vederla
lottare
per mantenere la sua indipendenza, nei primi mesi dopo il suo arrivo a
Grifo,
l’aveva riempita di pena e simpatia nei suoi confronti
perché nonostante fosse
la prima donna del ducato non aveva diritto a nessun potere.
Solo
quando si era ritrovata divisa tra due pretendenti che ricercavano solo
l’approvazione di suo padre e non la sua, però,
aveva compreso davvero cosa
aveva dovuto subire. L’idea di riportare i suoi segreti a suo
padre e tradirla
le doleva fisicamente. Le sembrava di tradire anche se stessa. Le era
infinitamente grata per non averla ancora dato nulla da riferire.
Quando
i
servitori portarono i vassoi ricchi di pietanze prelibate, Sibilla se
ne servì
senza appetito. Il fagiano ai carciofi, uno dei suoi piatti preferii,
non le
riportò la fame che aveva perso durante la conversazione
avuta con suo padre.
Sentiva una morsa allo stomaco che le rendeva estremamente difficile
finire il
piccolo piatto che aveva composto, ma sapeva che se non avesse mangiato
nulla
qualcuno l’avrebbe notato e si sarebbe chiesto cosa la
tenesse così sulle
spine. Aveva una brutta sensazione, un presentimento che le diceva che
qualcosa
sarebbe andato storto, che sarebbe sorto un problema. Non aveva idea di
cosa si
trattasse, ma era certa che la sua non era una sciocca paranoia. Da
alcuni mesi
le capitava di provare talvolta una confusione simile e solitamente
questa era
seguita da sogni strani e indecifrabili. Si svegliava nel cuore della
notte,
spaventata da ciò che aveva visto e che non riusciva a
dimenticare. Immagini di
cui non comprendeva il significato e che la facevano tremare. Non ne
aveva mai
parlato con nessuno, per qualche motivo non riusciva a confidare quel
segreto
che le sembrava pericoloso, come se fosse colpa sua. Anche in quel
momento,
mentre beveva e sorrideva tanto da avere dolore ai muscoli del viso, il
pensiero di passare un’altra notte d’inferno la
terrorizzava. L’unica cosa che
riusciva a calmarla un po’ era la consapevolezza che la sua
compagna di stanza
aveva il sonno pesane e che non si era mai svegliata a causa sua.
Quando
sentì le prime note dello Spagnoletto diffondersi nella sala
sollevò lo sguardo
dal suo piatto finalmente vuoto e cercò tra le decine di
volti maschili quelli
dei due giovani uomini di cui doveva occuparsi. Vide Domenico Busti
avvicinarsi
a lei ma fermarsi a metà strada quando suo padre lo
chiamò a sé, sicuramente
per permetterle di passare del tempo con Giuliano Crespi e mantenere
interessati entrambi. Si alzò e cominciò a
passeggiare con aria noncurante
intorno alla sala, osservando coloro che ballavano al centro della
stanza e
dirigendosi nel frattempo verso il tavolo di Crespi, che stava ancora
ridendo
con i suoi commensali. Salutò una donna intenta alla stessa
attività, sebbene
il suo obbiettivo fosse un altro uomo, in modo da attirare con il suono
della
sua voce l’attenzione del suo pretendente. Ci
riuscì, perché nel giro di un
paio di minuti egli era al suo fianco e, con una mano poggiata sulla
sua
schiena, la stava accompagnando verso le danze.
«Siete
splendida stasera» si complimentò quando i passi
li portarono vicini. Sibilla
chinò il capo con un sorriso di ringraziamento e
posò la mano sopra la sua,
prendendo a ruotare a ritmo di musica insieme agli altri ballerini. Il
corpetto
dell’abito si stava facendo troppo stretto e
l’ansia che provava non l’aiutava
di certo a respirare meglio. Quando dovette fermarsi per lasciar spazio
all’altra coppia, inspirò a fondo, mantenendo il
mento alto e il viso più
rilassato che poté. A un paio di metri da lei, il suo
compagno non smetteva di
fissarla con interesse. Sollevò leggermente le gonne e si
spostò con grazia
indietro, per poi scivolare nuovamente in avanti, a pochi centimetri da
lui.
«Avete
le
mani fredde» le fece notare quando le afferrò le
dita per muoversi in sincrono
con lei.
«Davvero?»
domandò, sinceramente sorpresa. Si sentiva accaldata e
spossata per
l’agitazione, avrebbe giurato di essere febbricitante.
«Che strano,» mormorò,
fingendo indifferenza, «non capisco cosa possa averlo
causato. Mi sento
perfettamente in salute.»
«Sembrate
perfettamente in salute» replicò lui prima di
allontanarsi di nuovo. Sibilla si
chiese se davvero il suo stato d’animo non si notasse o se
l’uomo con cui stava
danzando non la osservasse con interesse sincero e la vedesse quindi
nel modo
in cui desiderava.
Quando
il
ballo finì, Crespi non ebbe il tempo di chiederle di fargli
compagnia per una
seconda danza. Non appena gli strumenti tacquero, la duchessa si
alzò dalla sua
poltrona e si ritirò ufficialmente dalla sala, inchinandosi
al marito. Sibilla
si scusò brevemente e si aggiunse al seguito della sua
signora, mentre le donne
che non facevano parte di quel gruppo ristretto di fidate persone
ripresero a
ballare.
«Perché
se
ne va così presto?» domandò a Caterina,
affiancandosi a lei.
«Non
lo
so, stava parlando con Lozano quando ha improvvisamente annunciato che
si stava
facendo tardi ed era venuto il momento di lasciarli per la
notte» rispose lei,
affrettando il passo.
Sibilla
si
zittì, confusa. Sebbene la duchessa avesse moderato molto il
suo comportamento
da quando aveva ceduto alla volontà del duca, danzando
raramente e mantenendo
un contegno impeccabile, non aveva mai abbandonato in anticipo i
festeggiamenti. Doveva avere in mente qualcosa e l’idea la
spaventava.
Non
appena
giunsero alle sue stanze, la donna volle che le venissero tolti i
pesanti abiti
di velluto che indossava e che i capelli venissero sciolti.
«Potete
andare, sono stanca e voglio riposare» disse, una volta che
ebbe infilato la
camicia da notte. «Sibilla, rimani un momento»
aggiunse poi.
Attese
che
le altre dame fossero uscite prima di parlare. Erano solo in tre: la
duchessa,
Sibilla e la ragazza che era solita dormire nell’anticamera
per essere a
disposizione della sua signora anche nel mezzo della notte, in caso di
necessità.
«Sibilla,
da domani prenderai il posto di Anna» la avvisò
improvvisamente. «È giunto il
momento che Anna possa riposare liberamente e sono certa che tu e tuo
padre
apprezzerete quest’onore.»
«Come
desiderate, mia signora» si affrettò a rispondere,
chiedendosi a cosa fosse
dovuta l’allusione a suo padre. Certamente, se fosse stata a
conoscenza del suo
dovere di tenerla sotto controllo non le avrebbe offerto quel posto. Un
dubbio
la assalì: la voleva forse mettere alla prova?
Vi ringrazio per
essere arrivati fino a qui, se vorrete lasciarmi un
parere onesto ve ne sarò immensamente grata.
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