Rune
lunari
Su Amon
Ereb, una collina del Beleriand orientale, si erano ritirati i
rimanenti figli di Fëanor dopo la Battaglia delle Innumerevoli
Lacrime.
Dimoravano
in un’ampia fortezza con molte stanze, i cui
corridoi e scalinate erano rischiarati da lampade azzurrine.
C’era anche una sala di lettura, che ospitava qualche tavolo
ed alcuni scaffali. A dire il vero, non conteneva moltissimi libri,
poiché gran parte dei volumi appartenuti ai
Fëanoriani era andata perduta.
Elrond
pensava fosse comprensibile, ma lo trovava comunque un
po’ avvilente. Da quando Maglor aveva insegnato a lui e ad
Elros a leggere e scrivere in Quenya e in Sindarin, infatti, il
ragazzino si era trovato a fare i conti con una sete insaziabile di
nuove letture.
Purtroppo,
tanti tomi trattavano di argomenti troppo complicati
– o troppo noiosi – per i suoi gusti, ed Elrond era
alla continua ricerca di qualcosa che fosse alla sua portata e potesse
soddisfarlo.
Quel
giorno, era salito su una sedia per raggiungere i ripiani
più alti. Le sue dita si stavano tendendo verso un volume,
quando la sua attenzione venne catturata da un plico di fogli infilato
tra due libri.
Incuriosito,
Elrond si spinse in punta di piedi, la lingua tra i denti,
e riuscì ad afferrarlo, per poi scendere con attenzione
dalla sedia e rigirarselo tra le mani. I fogli erano di diverse
dimensioni e spessore, ed erano tenuti insieme da un nastro di
stoffa… ma il dettaglio strano era un altro.
Elrond
li voltò da una parte e dall’altra per
assicurarsi di non essersi ingannato, e il suo cipiglio si
approfondì.
Avrebbe
voluto correre subito da Maglor, che era sempre disponibile a
spiegargli i passaggi dei libri che erano troppo difficili per lui.
Purtroppo, al momento, Maglor era a caccia con un paio di soldati, e
probabilmente sarebbe rientrato solo quella sera.
Elros
si trovava nelle scuderie, sicuramente intento a viziare i
cavalli con qualche bocconcino… E in ogni caso, Elrond
dubitava che il fratello ne avrebbe saputo più di lui.
In
effetti, era probabile che solo una persona, tra coloro che al
momento si trovavano in Amon Ereb, avrebbe saputo dargli una risposta
soddisfacente.
Iniziando
a mordicchiarsi il labbro inferiore, Elrond si strinse i
fogli al petto e si sporse da dietro gli scaffali.
Maedhros,
il fratello maggiore di Maglor, sedeva ad uno dei tavoli,
intento a leggere chissà quale trattato. Un ciuffo di
capelli ramati gli ricadeva sul volto pallido, ma lui non ne sembrava
infastidito. O forse non lo ricacciava indietro per il semplice fatto
che la sua mano sinistra, la sola che avesse, era impegnata a voltar
pagina e a tenere aperto il libro.
Elrond
esitò. Di solito era Maglor che si occupava di lui ed
Elros; con Maedhros aveva avuto ben poche interazioni.
Non
che avesse paura di lui – ne aveva avuta, certo,
così come aveva avuto paura di Maglor, ma pensava che quel tempo fosse
ormai passato. Si erano spesso trovati nella stessa stanza, o
incrociati lungo i corridoi, e in nessuna di quelle occasioni Maedhros
si era mostrato incline a fargli del male. Anzi, una volta aveva
impedito ad Elros di fare un bel capitombolo giù dalle
scale, afferrandolo per il colletto e frenandolo dal cadere.
In
ogni caso, però, era difficile non sentirsi in soggezione
di fronte ad una persona tanto alta ed autorevole, capace di mettere a
tacere i suoi soldati con una singola occhiata.
Elrond
indugiò ancora per qualche istante, ma alla fine la
curiosità ebbe la meglio sul suo timore.
Anche
se con passi un po’ titubanti, si diresse verso il
tavolo al quale sedeva Maedhros. Quest’ultimo lo
sentì avvicinarsi e sollevò lo sguardo dal libro,
aggrottando la fronte.
«Elrond?»
domandò. «Che
succede?»
Il
ragazzino si bloccò, perdendo all’istante
l’uso della lingua. Forse non era stata una buona idea. Forse
avrebbe dovuto aspettare che Maglor rientrasse.
«Ebbene?»
incalzò Maedhros, inarcando un
sopracciglio.
Elrond
raccolse il proprio coraggio e si fece avanti, depositando il
plico davanti all’Elfo. «Perché su
queste lettere non c’è scritto niente?»
Maedhros
non rispose subito, fissando quei fogli come se fosse sorpreso
di vederli. O almeno, Elrond supponeva che potesse essere sorpreso
– a dirla tutta, sembrava solo più accigliato del
solito.
Poi
Maedhros alzò repentinamente gli occhi su di lui.
«Dove le hai trovate?» lo interrogò.
Elrond
si sentì bruciare le guance, anche se non aveva fatto
niente di male. «Erano… erano su uno
scaffale» borbottò, torcendosi le mani.
«Ah»
disse soltanto Maedhros, e per un momento non
parlò. Poi infilò la mano sotto le lettere ed
affermò: «Te lo mostrerò più
tardi».
«Uhm…
d’accordo» rispose
Elrond, smarrito. Non capiva cosa intendesse mostrargli né
perché si dovesse aspettare. Lui voleva soltanto una
risposta semplice alla propria domanda.
Maedhros
si alzò di colpo, e il ragazzino fece
istintivamente un passo indietro, fissando ad occhi sgranati
l’Elfo che torreggiava su di lui.
«Se
vuoi scusarmi…» disse Maedhros, e se
ne andò senza attendere una risposta.
Elrond
rimase fermo a fissare la porta, cercando di dare un senso a
quanto era appena accaduto. La sola cosa che riuscì a
pensare, però, fu che Maedhros aveva preso con sé
il plico di lettere.
Nella
settimana che seguì, non gli capitò
più di parlare col primogenito di Fëanor, anche se
lo vide durante i pasti e lo incontrò lungo le scalinate e
nel cortile.
Da
parte sua, Maedhros non lo avvicinò, ed Elrond concluse
che doveva essersi dimenticato della loro conversazione.
La
sera dell’ottavo giorno, però,
scoprì che non era così.
Si
trovavano nella sala dei banchetti, seduti al tavolo centrale,
decisamente troppo lungo per sole quattro persone. Una fila di candele
illuminava i loro piatti ormai vuoti, gettando ombre tremolanti sugli
altri tavoli deserti.
In
occasione di anniversari e festività, quei posti venivano
riempiti dai soldati, che altrimenti cenavano in cucina o nelle loro
baracche. Del resto, quando i padroni di casa erano troppo indaffarati
per un lungo pasto, poteva succedere che Elrond ed Elros mangiassero in
solitudine nella propria stanza.
Elrond
iniziò a tormentare con la lingua un filo di carne
che gli era rimasto incastrato tra i denti, mentre Maglor –
come d’abitudine – s’informava sul
pomeriggio suo e di suo fratello.
Elrond
ed Elros iniziarono a raccontargli del bruco che avevano trovato
in cortile, e Maedhros si alzò ed uscì in
silenzio dalla sala.
Elrond
non se ne sarebbe neanche accorto, se Maglor non avesse distolto
per un momento la sua attenzione da loro per seguire il fratello con lo
sguardo.
Per
un istante, il ragazzino pensò che i loro due ospiti
erano davvero diversi d’aspetto, nonostante lo stretto legame
di sangue… ma poi si disse che probabilmente era
un’impressione dettata per lo più dal fatto che
Maedhros aveva i capelli rossi mentre quelli di Maglor erano scuri.
Di
certo, però, non si somigliavano quanto lui e il suo
gemello. A Elros piaceva sostenere che loro due non erano poi
così identici, ma talvolta Elrond lo guardava e gli sembrava
di vedersi riflesso in uno specchio.
Avevano
lo stesso viso dai tratti regolari, gli stessi occhi, le stesse
sopracciglia decise, gli stessi capelli lucidi e scuri.
Del
tutto ignaro di quei pensieri, Elros assunse un’aria
supplice, ed Elrond seppe in anticipo cosa stava per dire. Era da
qualche giorno, infatti, che suo fratello assillava Maglor
affinché desse loro delle lezioni di equitazione.
«È
il nostro sogno di sempre»
affermò adesso, con fervore.
«Di
sempre?» non poté fare a meno di
ripetere Elrond. «Veramente non sapevo fosse anche il mio
sogno… sino ad adesso».
Elros
lo guardò storto, e in quel momento Maedhros fu di
ritorno. Teneva un foglio tra il petto e il braccio destro, e
camminò sino al tavolo per rivolgersi ad Elrond.
«Se
sei ancora interessato a quelle lettere» disse,
senza troppi preamboli, «vieni con me».
Il
ragazzino ebbe un sussulto sorpreso e lo guardò sbattendo
le palpebre. Vagamente, notò che Elros li stava fissando a
bocca aperta.
Suo
fratello era stato il primo a passare dalla paura
all’affetto per i figli di Fëanor, ma persino lui
era ancora cauto nell’avvicinare Maedhros.
Rendendosi
conto che il silenzio si stava prolungando, Elrond si
affrettò a rispondere: «Sì, certo.
Sì, mi interessano ancora».
Era
vero, ma per qualche ragione l’invito di Maedhros lo
intimoriva. Alzandosi in piedi, guardò verso Maglor in cerca
di aiuto, e l’uomo si schiarì la gola.
«È
tutto a posto, Russandol?»
Maedhros
annuì senza batter ciglio. «Elrond mi ha
soltanto posto una domanda riguardante alcune lettere». Poi,
siccome suo fratello continuava a fissarlo, aggiunse: «Le
lettere di Azaghâl, Makalaurë».
“Azaghâl?”
si chiese Elrond, confuso, ma
la comprensione passò sul volto di Maglor.
«Capisco»
affermò lui, e rivolse ad
Elrond un gentile cenno del capo.
In
qualche modo rassicurato da quel gesto, il ragazzino
seguì Maedhros fuori dalla sala e lungo il corridoio. Il suo
accompagnatore aveva gambe molto più lunghe delle sue, ed
Elrond doveva quasi saltellare sulle mattonelle di pietra scura, ma
dopo un istante Maedhros rallentò e parve adattarsi alle sue
falcate con la massima naturalezza.
In
quel momento, Elrond non poté fare a meno di ricordare
che un tempo Maedhros era stato il maggiore di sette fratelli.
Poi
l’Elfo uscì su un balcone, ed Elrond lo
seguì. Fuori era già buio, e il ragazzino ebbe un
brivido istintivo. Si tenne lontano dal parapetto, poiché il
giorno dell’attacco alle bocche del Sirion era nata in lui
una certa avversione per le altezze. Di recente aveva iniziato ad
affievolirsi, ma non era ancora svanita del tutto. Così
Elrond si limitò a strizzare gli occhi davanti al paesaggio
piatto, cercando di individuare il fiume Gelion.
Da
parte sua, Maedhros prese con la mano sinistra il foglio che teneva
sotto braccio, e lo sollevò con sicurezza verso la falce
perlacea che illuminava il cielo bluastro. «Guarda».
Elrond
obbedì, e i suoi occhi grigi si colmarono di
meraviglia quando vide che la luce della luna, filtrando attraverso la
carta, faceva brillare una rete di caratteri che sino ad un momento
prima era stata invisibile.
«Ma
come…?» boccheggiò,
avanzando di un passo.
Maedhros
lo guardò con la coda dell’occhio.
«Rune lunari» spiegò, sempre tenendo
alto il foglio. «Visibili solo quando la luna brilla dietro
di esse… a patto che si trovi nella stessa stagione e nella
stessa fase di quando furono scritte».
La
meraviglia di Elrond si fece quasi reverenziale. Avrebbe dovuto
raccontarlo ad Elros, non appena fosse rientrato.
«Grandioso»
esalò, allungando una mano
verso la lettera.
Maedhros
gliela cedette, e il ragazzino rimase a contemplarla a lungo.
Con un certo disappunto, scoprì di non essere in grado di
decifrare nemmeno una parola.
«Hai
detto a Maglor che queste sono le lettere di
Azaghâl» ricordò improvvisamente, senza
distogliere gli occhi dai caratteri luminosi. «Chi
è Azaghâl?»
«Era»
lo corresse Maedhros, in tono brusco.
Elrond
lo fissò, lasciando ricedere il proprio braccio.
«Io…» Aveva le orecchie in fiamme.
«Mi dispiace».
Maedhros
scosse il capo, ed una ciocca dei capelli ramati gli
scivolò davanti al volto. «Non devi
scusarti» disse, e sospirò.
Udendo
quel sospiro, Elrond non poté che pensare alla
stanchezza che tanto spesso si poteva leggere
nell’espressione e nella postura di Maglor.
«Azaghâl
era un Nano» disse Maedhros.
«Sono stati loro ad inventare queste lettere. Sono scritte in
ithildin, una sostanza derivata dal mithril, e con penne
d’argento. Azaghâl me ne svelò il
segreto, così che potessimo pianificare insieme senza che la
nostra corrispondenza venisse intercettata dagli Orchi».
Elrond
strinse la mano sul foglio, ma allentò subito la
presa nel rendersi conto che lo stava stropicciando. «Ma
allora… queste lettere…»
«Contengono
parte dei nostri piani
d’attacco» confermò Maedhros.
«Su alcune dovrebbero esserci delle mappe».
Il
ragazzino tornò a guardare la lettera che aveva in mano.
La capovolse, cercando nuovamente – e fallendo – di
interpretare quelle rune brillanti. «Che lingua
è?»
«Nanico»
fu la laconica risposta.
Elrond
alzò lo sguardo e lo posò sul profilo di
Maedhros. Per un istante, alla luce della luna, gli parve di vedere un
reticolo di cicatrici che gli attraversava il volto, lunghe e sottili
come i fili di una ragnatela.
Poi
Maedhros si girò del tutto verso di lui, e quel momento
passò. «Fu Azaghâl ad insegnarmi anche
il suo linguaggio».
D’impulso,
Elrond domandò: «Tu puoi
insegnarlo a me?»
Stavolta,
la sorpresa di Maedhros fu trasparente. Il suo volto,
solitamente cupo e impenetrabile, si distese per una frazione di
secondo, e le sue labbra si schiusero.
«Se
non è un disturbo» aggiunse
precipitosamente il ragazzino, avvampando per l’audacia
appena dimostrata.
Maedhros
lo guardò, ricomponendosi. «Va
bene» disse, con voce quasi rude. «Ma prima
dovrò parlarne con Makalaurë».
Nonostante
il nervosismo, Elrond non poté fare a meno di
sorridere, speranzoso. Non vedeva, infatti, alcun motivo per cui Maglor
avrebbe dovuto rifiutare.
«Grazie»
sussurrò, senza pensare che
sino a qualche tempo prima gli si sarebbero strette le viscere a
ringraziare un Fëanoriano.
Maedhros
gli rivolse uno sguardo accigliato, quindi appoggiò
i gomiti sul parapetto e si voltò per scrutare il nero della
notte.
Come
aveva previsto Elrond, Maglor non ebbe nulla da ridire.
L’unica condizione che pose fu che quelle nuove lezioni non
interferissero con quelle che lui già dava ai gemelli.
Oltretutto,
Elros era finalmente riuscito a spuntarla, e uno stalliere
fu incaricato di insegnar loro a cavalcare.
Maedhros
era spesso impegnato; trascorreva molto tempo nel proprio
studio, o nella sala di lettura, o in compagnia dei soldati, o fuori a
caccia, ma almeno una volta alla settimana riusciva a trovare
un’ora da dedicare ad Elrond.
Era
un insegnante piuttosto diverso da suo fratello. Durante le proprie
lezioni, Maglor trovava sempre qualche attimo per rilassarsi e fare
un’osservazione leggera. Maedhros, invece, era più
esigente e distaccato, come se volesse mantenere una certa distanza tra
sé e il suo giovane allievo.
Elrond
trovò difficile imparare quel nuovo linguaggio,
così diverso dal Quenya e dal Sindarin, ma non si perse
d’animo e memorizzò avidamente le regole che gli
venivano insegnate.
Gli
piaceva imparare cose nuove. Gli piaceva per il gusto del sapere, e
forse anche per soddisfare il bisogno di riempirsi la mente, di
lasciare sempre meno spazio per il ricordo dell’attacco alle
bocche del Sirion.
Maedhros
era parco di lodi, un’altra cosa che lo distingueva
dal fratello, ma un giorno Elrond lo sentì parlare con
Maglor ed ammettere di essere stato sorpreso
dall’intelligenza del ragazzino.
«E
non c’è alcun bisogno di sorridere in
quel modo, Makalaurë» aggiunse subito dopo, in una
rara manifestazione di irritabilità.
Maglor
replicò prontamente, ma Elrond stava già
sgattaiolando via con un sorriso, e non riuscì a distinguere
le sue parole.
Nei
pomeriggi che seguirono, mostrò ad Elros quel che aveva
imparato. Era la prima volta che rivestiva così il ruolo di
insegnante, ma gli piacque, e provò un’enorme
soddisfazione nel vedere i progressi del fratello.
I
due ragazzini non avevano ithildin a loro disposizione, ma per
divertirsi iniziarono a scambiarsi dei biglietti nel linguaggio dei
Nani, ridendo dei rispettivi errori.
Un
giorno che Maglor assegnò loro un testo in Quenya da
tradurre in Sindarin, Elrond ed Elros aggiunsero anche la traduzione in
Khuzdul.
Maglor
elogiò la loro grammatica, quindi chiamò
Maedhros per mostrargli il lavoro dei gemelli. L’Elfo dai
capelli ramati si stava massaggiando il moncherino destro con fare
assente – tra loro, Elrond ed Elros pensavano fosse il segno
di dolori fantasma – ma mentre leggeva la sua mano si
fermò.
Elrond
non ne era sicuro, ma per un istante gli parve di vedere un
sorriso, per quanto breve, sottile, e appena accennato, che gli
increspava le labbra.
Note:
Prima fanfiction sul Silmarillion, e sono terrorizzata
e non poteva che
essere sulla famiglia disfunzionale del mio cuore.
Grazie mille a leila91
per l’incoraggiamento (senza di lei,
è probabile che avrei pubblicato questa one-shot il mese del
poi dell’anno del mai).
Per quanto riguarda il fatto che i Fëanoriani si siano
rifugiati su Amon Ereb dopo la Battaglia delle Innumerevoli
Lacrime… non ricordavo più se fosse un mio
headcanon o meno, ma sul Silmarillion non ho trovato niente in
proposito, quindi suppongo che lo sia (e spero non contraddica alcuna
informazione canonica). Comunque, visto che mi immagino che siano
lì ormai da tempo (senza contare che Caranthir e i
gemelli/il gemello rimasto vi avevano già stabilito una
guarnigione dopo la Battaglia della Fiamma Improvvisa) ne consegue che
tendo a pensare che vi abbiano radunato un seguito abbastanza
numeroso (relativamente parlando),
non solo soldati, ma anche una manciata di servitori. Mi auguro che
abbia almeno un minimo senso come ragionamento.
Confesso di non essere del tutto soddisfatta del risultato, spero
soltanto
non sia una grande offesa all’opera di Tolkien ._.
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