Salve
a tutti, voi che siete rimasti esterrefatti col finale dello scorso
capitolo...
Quanto
adoro quando i miei obiettivi nello scrivere una scena vengono
centrati, e quanto adoro quando i lettori mi fanno i complimenti
proprio su tali scene, che sono quelle che più mi hanno impegnato e
più mi sono divertito a scrivere! *__* Grazie a tutti voi che
commentate e mi fate sentire ancora più felice di essere uno
scrittore! ^__^
Ma
bando alla smancerie: questa è una storia truculenta, ed è tempo
che prosegua sulla sua scia, e che vi immergiate di nuovo nella sua
oscurità!
Buona lettura... E attenti a non tagliarvi con i
cocci...
Italia
stringeva i pugni così forte che le unghie affondavano nei palmi
tracciando dolorosi solchi.
Maledizione,
stava succedendo di nuovo: nuovamente costretti a dividersi per
andare avanti, ma per quanto ancora? Che ne era stato del loro gruppo
ora che quasi non c'era più nessun altro da lasciare indietro? E che
ne sarebbe stato della loro missione allora?
Tormentato
da quei pensieri, proseguiva al fianco di Germania, accollatosi il
fardello del congegno che rappresentava la loro salvezza, nascosto
nella tasca della giacca che teneva legata per le maniche alla
cintola: aveva l'aria di voler raggiungere il tetto direttamente di
corsa e senza altre soste, nonostante fosse prossimo allo sfinimento,
come anche lui.
Italia
però non riusciva a guardare fisso dinanzi a sé, a puntare la meta
con ogni residua energia mentale e fisica rimastagli: i suoi piedi
erano pesanti, non per la stanchezza, ma per il pensiero di America,
l'ultimo di una lunga serie di eroici quanto dolorosi saluti... Era
come se meno spalle rimanessero al Team dell'Apocalisse, più i
membri residui soffrissero del peso immane che dal giorno prima
avevano dovuto trasportare. Germania stringeva i denti e si ripeteva
“avanti”, lui non riusciva a non guardarsi indietro, a non
sentirsi rallentare e tirare indietro dai chi era rimasto alle loro
spalle, roso dal rimorso di non aver fatto abbastanza perché
potessero essere ancora lì a lottare con loro.
“Non
ti preoccupare, America sa il fatto suo, no?”
“Speriamo
non ci raggiunga alla stessa maniera di come ci ha raggiunti
Giappone...” -ribatté caustico...
“Che
ti succede?” -si accigliò Germania.
“Cosa?”
Germania
rallentò fino a fermarsi, dando modo a entrambi di riprendere fiato.
“Non
è da te...”
Non
riuscì a formulare il resto della frase, interrompendosi per
drizzare le orecchie a un suono forte e sordo, simile a un rombo, a
una mandria di belve che caricano, si scontrano, rovinano al suolo.
“Cos'è
stato?” -chiese Italia.
“Non
lo so... E neanche ci cambierebbe nulla saperlo: dobbiamo andare
avanti.”
“Poteva
essere America!”
“Probabilmente...”
“Dobbiamo
andare ad aiutarlo!”
“No!
Lui se la caverà! Il modo migliore per aiutarlo è cavarcela anche
noi!” -sbraitò al pensiero che l'orda potesse già esser loro alle
costole, alla faccia, ancora una volta, della proverbiale lentezza
degli zombi- “Non devono raggiungerci, sbrigati!”
“Che
razza di team va avanti abbandonando i propri compagni?!” -gli
gridò in risposta.
“Se non arrivi a capirlo allora puoi pure
restartene qui!”
“......”
Ludwid,
non appena resosi conto delle sue parole, ruppe il silenzio venuto a
calare con un sospiro.
“Scusami...
Sei quel che rimane del mio team, Italia, e ho ancora bisogno di te
per farcela.”
Dopo
lo sfogo, Italia si sentì rinsavire a sua volta: “Scusami tu, sto
solo facendo perdere altro tempo... Andiamo!”
Benedissero
entrambi di essersi ripresi prima di darsi da soli il colpo di
grazia. America aveva un piano, lo aveva detto, e anche loro erano
parte di quel piano, e se si fossero pure messi a bisticciare, senza
dubbio presto non ci sarebbe stato più nessuno a portarlo a
compimento.
Ripresero
a correre, tra i lontani e sinistri rumori che proseguivano intorno a
loro: lugubri versi e grida smorzate dalle dure e fredde mura,
giungevano alle loro orecchie, senza potervi leggere ciò che
accadeva, senza portar notizia di alcunché, con l'unico scopo di
indurre paura e fretta ai loro cuori.
Ansanti,
rivolgevano i loro occhi alle pareti insensibili che li circondavano,
come a pregarle di mostrar loro la via il più presto possibile.
“Germania!
Lo senti?”
“Italia, non pensarci! Dobbiamo...”
“No,
fermati!”
Con
uno scatto lo afferrò per la stoffa della camicia al braccio,
costringendolo a fermarsi. Germania fece per parlare, ma il compagno,
imperterrito, lo zittì con un gesto.
“Ascolta...”
Fu
allora che Germania si rese conto di quello strano rumore. Sulle
prime non seppe identificarlo, era come un fruscio, uno sfregare...
Quel che di certo si capiva, era che qualunque cosa facesse quel
rumore si stava avvicinando.
I
due infine indirizzarono la loro attenzione alla loro sinistra. Il
rumore era più chiaro, per quanto ancora indecifrabile: sembrava che
qualcuno stesse camminando dall'altra parte sfregando un qualche
oggetto, probabilmente metallico proprio contro quella stessa parete.
La
seguirono con gli occhi e videro il punto in cui, ad alcuni passi
dinanzi a loro, si apriva nel muro un accesso. Germania sollevò il
tubo, preparandosi.
Il
rumore cessò e l'istante dopo, da oltre l'angolo, sbucò infine una
padella.
Anticipati
da una risatina minacciosa, due stivali di cuoio e una giacca verde
scuro la seguirono. Zombi-Ungheria sbarrò loro il passo, posando su
di essi uno sguardo folle e passandosi la lingua sulle labbra di un
cadaverico color violaceo; la sua temibile arma dondolava lenta e
minacciosa dal suo penzolante braccio destro, di sicuro solo in
apparenza rachitico e privo di forze.
A
Germania, ancora terrorizzato dall'idea che la marea potesse
raggiungerli da un momento all'altro, premeva, più di ogni altra
cosa, non perdere dell'altro tempo e indietreggiò di un passo,
meditando di ritirarsi dallo scontro e cercare un'altra via. Fu
allora che Italia lo scosse con uno strattone, costringendolo a
guardarsi alle loro spalle.
La
via di fuga era anch'essa bloccata. Zombi-Turchia, sbucato da qualche
porta, esibiva, sullo sfondo della classica pelle macilenta da morto
vivente, un volto viceversa livido e sfatto, con il naso gonfio e
visibilmente rotto. Al di là dell'aspetto indecente, che per nulla
faceva onore all'elegante e affascinante nazione orientale, ciò di
cui più dovevano aver timore era senz'altro la ricurva scimitarra
che brandiva nella mano destra, chiusa in un guanto strappato.
Germania
deglutì: erano entrambi nemici temibili, e tutto quello che era
rimasto loro per difendersi era un tubo di ferro, valente si, ma la
spada tra le mani di Sadiq, tra l'altro abilissimo spadaccino,
sembrava farsi beffe di lui. Ad Elizaveta poi la trasformazione aveva
decisamente fatto un brutto effetto, e sprizzava cattiveria e ferocia
da ogni poro, senza contare i tanti aneddoti che suo fratello Prussia
gli aveva raccontato riguardo le imprese da lei compiute con la sua
padella...
Germania
non sapeva verso chi dei due rivolgersi, cercando al contempo di fare
da scudo ad Italia col proprio corpo.
“Sta
indietro, Feli... Cercherò di...”
Ma
Italia lo stupì quando, con una spintarella, lo mise faccia a faccia
con zombi-Turchia, per poi non cercare rifugio dietro la sua schiena,
come avrebbe voluto Germania, ma poggiandovi la propria contro di
essa, rivolgendosi battagliero contro zombi-Ungheria.
Non
credeva avrebbe mai visto il momento in cui lui e Italia, alleati e
amici di lunga data, si sarebbero ritrovati, nel momento più
disperato, a combattere spalla a spalla, e si diede dello stupido per
averne dubitato.
“Non
ti preoccupare Germania, penso io a Ungheria!”
“Come?”
“Mi
inventerò qualcosa!”
“Molto
alla America...”
Il suono della risatina di Italia parve
rinvigorirlo. Germania guardò le proprie due mani strette intorno al
tubo di Russia: forse poteva farcela, forse ce l'avrebbero fatta
davvero! Si ricordò del coltello che aveva raccolto dalla
caffetteria e che aveva usato per difendersi mentre stavano usando il
tubo a mò di rampino, e, con un rapido gesto, glielo porse: poco, ma
sempre meglio di niente.
Feliciano
aveva il cuore in gola quando Ungheria iniziò a fare dei lenti passi
verso di lui. Sapeva bene che se avesse finito per soccombere, come
poteva sembrar scontato, Germania non avrebbe avuto speranza contro
entrambi; se d'altro canto il suo amico fosse stato sconfitto,
sarebbe finito in un lampo a fettine a sua volta.
Non
potevano fare altro che contare l'uno sull'altro, e battersi come
prede in trappola contro i leoni affamati.
Turchia
fece due ampi passi in avanti, guardando il suo avversario con lo
scherno di chi si sente superiore, per poi partire improvviso, senza
alcun grido battagliero, silenzioso e letale come il sibilo della
sua spada che fendette l'aria. Fu allora Ludwig a darsi coraggio con
un grido mentre balzava in avanti contro di lui, facendo cozzare
rumorosamente metallo e metallo.
Ungheria
attaccò più o meno nello stesso istante, mulinando la pesante
padella nell'aria dinanzi il naso di Feliciano, che intuì tutta la
forza e la pericolosità di quell'insolita arma solo dallo
spostamento d'aria. Dinanzi alla sua ferocia, il ragazzo si limitò a
scansare, non senza incertezza.
“Oh,
Italia, sei sempre così carino!” -lo schernì lei- “Mi ricorda
quando giocavamo ad acchiapparello, ricordi? Fatti acchiappare, su!”
Di
riflesso strinse le dita attorno al coltello: gli dava coraggio, ma
il suo raggio d'azione era limitato, e non aveva modo di avvicinarsi
a lei senza rischiare di farsi prendere in pieno... Se né la sua
forza né le sue armi potevano competere con lei, la sua unica
possibilità era davvero quella di farsi venire un'idea, una buona
idea... Altrimenti...
Intanto
il possente Germania faticava non poco con l'agilità e la fluidità
dei movimenti di zombi-Turchia, più abile e veloce: era già
riuscito a ferirlo ben due volte di striscio alle braccia, lì dove
la camicia si era tinta di rosso.
Lo
zombi, incoraggiato dai risultati, proseguì a menar fendenti, che
Germania riusciva sempre a deviare col suo tubo quel che bastava per
salvarsi. Quando però la scimitarra tracciò un arco verso l'alto
per poi discendere veloce su di lui, non riuscì ad essere abbastanza
rapido da riuscire a non opporsi direttamente al filo della lama:
Germania ebbe come l'impressione che tutto si congelasse per un
attimo, e l'attimo dopo, il suo tubo era dimezzato, e l'estremità a
rubinetto cadeva sonoramente sul pavimento davanti i suoi piedi.
Guardò sconsolato il taglio netto sul corto pezzo di metallo
rimastogli, dimenticandosi di dover esser grato che per terra non ci
fossero anche le sue mani... Alzò gli occhi su zombi-Turchia,
fermatosi apposta per schernirlo silenziosamente con uno di quegli
eloquenti sogghigni.
<<
E adesso? >> -gli domandava senza parlare.
Lungi
dall'essersi arreso o dal mostrarsi demoralizzato, Germania riuscì a
rendere onore alla sua fama, conservando la sua razionalità e
realizzando l'unica cosa rimastagli da fare.
Tirare
a tradimento il tubo rimastogli tra le mani dritto sulla sua faccia.
All'urlo
sofferente fecero seguito un imprecazione in turco e alcune
biascicate parole: “Perché sempre il naso?!”
Germania
non le ascoltò neanche, si era già dato lo slancio per gettarglisi
addosso mentre si copriva la faccia con ambo le mani: il dolore
immane e improvviso gli aveva fatto cadere a terra la spada, era il
momento migliore per contrattaccare.
Gli
piombò addosso a tutta velocità, cercando di stordirlo già solo
con la forza dell'impatto, rovesciandolo a terra e afferrandogli le
braccia per iniziare una furiosa lotta.
Italia
intanto aveva realizzato con piacere di avere degli ottimi riflessi:
non era molto portato a darle, ma la sua paura di prenderle e farsi
male, oltre che il suo fisico leggero, lo rendevano un avversario
agile e sgusciante. Non voleva più essere una palla al piede per gli
altri, e la sua determinazione era più forte che mai, nonostante ciò
non sperava certo di vincere continuando a schivare fino ad esaurire
le energie, e allo stesso modo aveva rimesso in tasca il coltello, al
momento inutile. Non doveva lasciarsi paralizzare dall'ansia e doveva
ragionare su ciò che aveva intorno a sé: una pericolosissima zombi,
un corridoio, un amico alle spalle che gli impediva di indietreggiare
troppo, e, a ridosso del muro, un cesto per le cartacce ancora non
svuotato e un vaso di terra con una bella pianta di gerani.
Aspettò
che zombi-Ungheria gli scagliasse un'altra padellata per abbassarsi e
allontanarsi da lei con una capriola (uno dei tanti esercizi che
Germania aveva insistito a fargli imparare a suon di rimproveri e
tirate di orecchie...). Afferrò di colpo il cesto dei rifiuti e,
sollevatolo senza sforzo, lo capovolse sulla sua testa,
imprigionandola fino ai gomiti! Come colto da un improvvisa
ispirazione, Italia non si fermò lì, ma rifilò al cesto, in
contemporanea, due schiaffoni, producendo un sordo rimbombo.
Zombi-Ungheria
gemette e barcollò, dando prova di aver accusato, ma il suo
stordimento non sarebbe durato tanto con così poco. Senza neanche
pensarci, Italia si avventò sulla padella, cercando di
strappargliela ora che non poteva né vedere, né soprattutto
mordere. Tuttavia l'avversario era una vera dura: non mollò affatto
la presa, malgrado quanta forza ci mettesse, anzi, provò comunque a
difendersi scuotendo il corpo e menando calci alla cieca sulle povere
ginocchia di Feliciano.
Il
dolore lo abbagliò per un attimo, ma poi si impose di riscuotersi:
distrarsi un attimo poteva essere fatale. Era più forte di lei per
disarmarla in quel modo, ma ce n'era un altro per cui avrebbe sicuro
mollato la presa: morderle il polso. Il sapore di carne marcia era
orribile, eppure, aiutandosi immaginando un filetto, un po' come
aveva fatto con i baltici, serrò le mandibole fino a sentire le
fragili ossa del polso rompersi e la presa cedere. Si stupì di sé
stesso: più che la ragione, era in realtà l'istinto a fare da
padrone, il suo istinto di preda “facile” ma pronta a tutto pur
di sopravvivere che finalmente si destava.
Posseduta
dall'ira, zombi-Ungheria lo scagliò via con una spallata e poi si
tolse dalla testa il cesto, gridando e digrignando i denti più
spaventosa di una gorgone, con cartacce tra i capelli al posto dei
serpenti. Feliciano era mezzo inginocchiato dal dolore quando se la
vide piombare addosso: era il momento della seconda buona idea.
Allungò il braccio fino al vaso, ne trasse una manciata di terra e,
memore delle tecniche di suo fratello, glielo tirò negli occhi
strabuzzati dall'istinto omicida.
Zombi-Ungheria
gemette, coprendosi il volto con ambo le mani per pulirsi. Ancora più
arrabbiata, con gli occhi arrossati accecati dalle lacrime, si lanciò
verso la sagoma sfocata di Feliciano. Quest'ultimo si abbassò
temendo fosse giunta la fine, ma il suo corpo si mosse di fatto da
solo quando si rese conto che sarebbe bastato allungare un po' la
caviglia per farle lo sgambetto.
Cadde
di faccia sul pavimento e Italia sentì che doveva muoversi, non ci
sarebbero state occasioni migliori! La zombi dolorante stava cercando
di trascinarsi a fatica verso la fida padella rimasta a terra:
atterrito dalla sola idea, tirò fuori il coltello e con una fredda
crudeltà che mai gli sarebbe uscita in altro frangente, lo pianto
nel dorso della sua mano protesa, inchiodandola letteralmente a
terra.
Ungheria
gemette e urlò ancora, per nulla disposta a cedere nemmeno a quello,
anzi, scalciava, si dibatteva, e cercava con l'altra mano di
afferrargli il pantalone, in modo da tirarlo giù per terra ed averlo
a portata di morso. Italia si irrigidì tutto, facendo resistenza nel
mentre che riusciva a raggiungere con le punte delle dita il manico
della sua padella.
Piantò
i piedi, la sollevò e la abbatté con forza sulla sua testa.
Aveva
smesso di sbraitare e si udiva solo il suo minaccioso gemere, ma non
aveva cessato del tutto di muoversi. Feli la colpì di nuovo, e poi
ancora, e poi ancora, con violenza, finché sul metallo ormai
ammaccato non rimasero tracce del sangue schizzato fuori dal suo
cranio fracassato.
“Anf...
Anf... Anf...”
Ce
l'aveva fatta! L'aveva battuta! Un avversario di quelli che America
avrebbe definito “belli tosti”, e lui l'aveva sconfitta tutta da
solo! Il “sensibile” del gruppo, la palla al piede, non era più
tale!
Si
spensero così gli ultimi rumori di scontro in quel corridoio.
Italia
era pervaso da uno strano senso di eccitazione che pareva aver
cancellato ogni traccia di fatica all'infuori del suo fiato grosso.
Dimenticò persino di dispiacersi per la povera Ungheria, impegnato
com'era a gioire della sua vittoria: ecco cosa voleva dire combattere
e battere il tuo avversario, rendersi utili, essere un vincente, un
ammazza-zombi!
“Stai
bene?” -si sentì chiedere.
Si girò di scatto: lo zombi-Turchia
era a terra privo di sensi, riverso contro il muro.
“Si!
Ce l'ho fatta, Germania, hai visto? Ce l'ho fatta!”
“Sei stato
bravissimo, Italia... Bravissimo...” -fece l'altro con voce stanca.
Quando
lo vide meglio, il suo rumoroso affanno divenne una sgomenta apnea.
Le
sue palpebre cadevano stanche come le sue membra senza forza, il suo
respiro era irregolare, la sua mano destra si teneva tra la spalla
sinistra e il collo, dove si allargava una macchia di sangue sulla
stoffa lacerata.
Capì,
senza che dovesse dir nulla, e mai un sorriso rivoltogli fece più
male.
“Complimenti,
Italia, ti sei dimostrato per quel che vali.”
“No...
No...” -balbettò.
Con
passo pesante gli si avvicinò, e quando lo ebbe dinanzi, tirò fuori
dalla tasca della giacca il macchinario di Giappone.
“Prendi,
ora sta a te.”
“No...
No, aspetta, Germania, tu puoi resistere... Possiamo...” -trasecolò
lui, per nulla desideroso di raccogliere il testimone.
Germania
ebbe un tremito, come una fitta di dolore: “Lascia stare, Italia,
ormai è andata così... Ma tu puoi ancora farci qualcosa.”
“A-aspetta...”
Ebbe
un'altra fitta e qualcosa di diverso balenò attraverso i suoi occhi,
venendo subito rispedito indietro dalla sua volontà: “Ascoltami,
Italia, devi essere tu... Devi farcela! E ce la farai... Ne sono
sicuro!”
Le
sue mani tremanti si mossero da sole, mentre il resto di lui restava
come inchiodato immobile in quel punto del pavimento in cui,
incoraggiante fino all'ultimo, Germania stava mettendo il suo destino
e i destini di tutti nelle mani dell'ultimo, in tutti i sensi, del
loro gruppetto.
“Io...
Sono da solo...” - gemette.
“Da
solo hai sconfitto Ungheria, no? Tranquillo, io... Mi fido di te... E
del tuo coraggio.”
“Perché...
Perché proprio ora che... Proprio ora che...”
“Non
ha importanza, Italia...”
Un
forte rumore provenne dalla direzione da cui erano venuti. Italia si
guardò intorno confuso, mentre Germania intuì subito.
Strinse
la ferita, mentre i suoi occhi aveva già un che di infossato:
“Arrivano... Devi andare... Io li tratterrò ancora un po',
sbrigati.”
“...
Germania...”
“Va...”
“......”
“VA
VIA, ITALIA!” -urlò lui, spaventoso quanto una supplica.
Non
fu facile, con le gambe che tremavano, ma alla fine, si rassegnò a
voltarsi, mentre Germania faceva lo stesso, pronto a fronteggiare ciò
che sarebbe stato.
Di nuovo spalla contro spalla.
Per
la seconda e già ultima volta.
I
suoi piedi si schiodarono di colpo, e Italia schizzò via, rapido
come un fulmine, sparendo ben presto lontano nel corridoio.
“Vai...”
L'ansante
Germania si sentiva il corpo a pezzi e la mente attanagliata da
malsani propositi che era sempre più difficile mettere a tacere ogni
secondo che passava...
Gli
sembrò l'edificio tremasse, come un terremoto, una calamità che
aspettava solo di passare l'angolo a qualche decina di metri da lui.
Ed
eccoli, una torma confusa, spintonante, brulicante come uno sciame di
locuste, e lui si sentì la penultima spiga di grano nel campo.
C'erano
suo fratello Prussia, l'aristocratico Austria, la gentile Ucraina, e
tanti altri, e tutti erano mostruosi, e si stavano lanciando su di
lui come un onda che non lascia alcuna via di scampo.
Tolse
la mano dalla ferita e li attese sul posto, raccogliendo le ultime
forze nelle punte dei piedi. Aspettò che fossero abbastanza vicini.
Poi
riempì un'ultima volta i suoi polmoni finché avrebbe avuto bisogno
di respirare, e si svuotò in un urlo da rivaleggiare, coprire e
zittire tutti i loro, mentre si lanciava in avanti per combatterli.
Si lanciò su di loro come una mosca su un incendio, come un pazzo
contro un muro, un muro che nell'urto gli crollò addosso,
seppellendolo in un istante.
Cosa,
o chi, ancora concedeva forze a quelle gambe per correre?
Italia
non si guardò indietro nemmeno una volta, ripetendosi come un mantra
che ora stava a lui. Glielo aveva detto Romano. Glielo aveva ripetuto
Germania. Adesso se lo sarebbe ripetuto anche lui ogni istante.
Adesso
stava a lui.
Solo a lui.
Smise
di ripeterselo solo quando vide la sagoma squadrata della porta
d'emergenza stagliarsi grigia sulla destra, sotto il cartello verde
luminoso ad indicarla. Diede una brusca spinta al maniglione e ci si
infilò dentro, trovandosi in una profonda oscurità che lo accecò
finché i suoi occhi non si abituarono; solo allora vide la rampa di
scale alla sua sinistra.
Salì
una rampa saltando i gradini a due a due, e quello fu il suo ultimo
sforzo prima di crollare: non ne aveva veramente più. Arrivato su un
piccolissimo pianerottolo quadrato le ginocchia ripresero a tremare,
e quando alzò gli occhi sulla nuova rampa, alta e buia, che si
stagliava davanti a sé, cedettero del tutto.
Italia
si sedette a ridosso del muro, e decise che adesso poteva concedersi
il lusso di piangere copiosamente. I suoi singhiozzi si perdevano
senza riecheggiare in quell'oscurità. Con la mano destra si copriva
il volto contrito dai lamenti, la mano sinistra stringeva, disperata
più che ostinata, il congegno, ritrovatosi nelle mani di una
quantomai improbabile ultima speranza. Chi l'avrebbe mai detto
sarebbe stata lui?
Tutto
era andato in frantumi.
Il
loro gruppo, i loro piani, le loro speranze i loro eroici propositi,
la voglia con cui si erano messi in gioco per il bene di tutti.
Ogni
cosa.
Il
tanto decantato team non era stato altro che una fragile scultura
che, un colpo di maglio dopo l'altro, si era lasciata dietro sé
stessa pezzo per pezzo.
Nulla
era servito: non la loro forza né il forte legame che li aveva
uniti, non il loro ardore né il loro ingegno, non il desiderio di
riabbracciare i loro cari né la rabbia che cresceva a ogni vittima.
E,
da ultimo, non era servito lui.
Proprio
quando era riuscito a sbloccarsi, ridestarsi dal torpore e sentirsi
realmente partecipe, quando aveva assaporato la battaglia e la
vittoria, tutto della sua piccola grande gloria sembrava divenuto
vano; nemmeno essere riuscito a non essere il solito Italia era
bastato, e Germania, il suo migliore amico, era stato portato via,
come l'ennesima vela della loro nave, in balia di quella tempesta
sovrannaturale che non faceva altro che inghiottire nel suo gorgo
tutto ciò che amavano, senza accennare a placarsi. Ripensava alle
energie e all'abilità che era stato capace di tirar fuori, e neppure
quella aveva fatto la differenza; e ora, intorno a sé, ora che
finalmente c'era riuscito, non aveva più nessuno a cui dimostrare
chi era il piccolo, spaventato Italia.
Non
c'era più nessuno. Nessuno da stupire, nessuno da salvare, nessuno
per cui sacrificarsi.
Volle
rivederli tutti uno per uno, malgrado il dolore.
Russia,
la cui rassicurante invincibilità, solo apparente, era crollata come
un castello di carte dinanzi un avversario che non aveva avuto
nemmeno il bisogno di sfiorarlo; Inghilterra, colto di sorpresa nel
pieno della gioia di quando è tutto finito, un modo oltremodo
crudele di cadere; Giappone, salutato come amico leale e ritrovato
ostile e sfigurato, insulto a tutto ciò che era stato; America, quel
buffo leader che neanche una volta aveva mancato nell'indicar loro la
giusta via da seguire; Germania, mille volte più grande, forte e
affidabile di quanto lui avrebbe mai potuto essere, e che eppure non
ce l'aveva fatta a salvarsi, e lui invece si.
E
poi Romano. Trascinato suo malgrado in quella disperata missione,
eppure per loro, e per il suo fratellino, aveva dato tutto e ci aveva
rimesso ogni cosa.
Riascoltò
le parole che gli aveva rivolto, guardandolo negli occhi, un attimo
prima di lasciarsi cadere.
Tra
un singhiozzo e l'altro, cominciò a sbattere forte il pugno per
terra.
Non
voleva finisse così! Con lui rannicchiato al buio, solo e vinto, a
mormorarsi frasi del tipo “Mi spiace fratellone, ho fatto del
mio meglio ma non è bastato”, senza opporsi al finale già
scritto a una pagina da quel triste angolino.
Il
congegno di Giappone era ancora in mano sua, e, a giudicare dalla
luce verde accesa, perfettamente funzionante; e finché c'era, con
qualcuno disposto a portarselo dietro, allora voleva dire che tutto
poteva ancora aggiustarsi, che non era già finita!
Si
passò la manica sugli occhi.
Glielo
aveva detto Romano, e glielo aveva ripetuto Germania: adesso stava a
lui! Se ci ripensava adesso gli veniva voglia di prendersi a schiaffi
per i suoi pensieri di poco prima!
Gli
avevano detto di far vedere a tutti chi era, ebbene, se pure non
c'era più un pubblico intorno, quello spettacolo lo doveva almeno a
sé stesso.
Ricacciò
altre lacrime, dicendosi che poteva finire in quel momento solo se lo
voleva lui, e lui non voleva.
Sentì
un rumore provenire dal basso.
Era
la porta d'emergenza da cui era entrato che finiva di spalancarsi,
dopo che incautamente aveva dimenticato di chiuderla dietro di sé.
La luce dipinse per un attimo il muro di fronte, finché su di essa
non si stagliò una grossa ombra.
L'ombra
restò ferma il tempo di un'occhiata, poi la porta si richiuse piano,
ed essa scomparve, fondendosi nell'oscurità.
Feli
tremava fino alla punta dei capelli, mentre seguiva, senza muovere un
muscolo, il rumore di passi che risalivano i gradini. Questione di
secondi, e sarebbe apparsa oltre l'angolo e l'avrebbe trovato.
Stanco,
abbandonato e terrorizzato.
Così
finiva dunque?
Tutte
le lotte, tutte le corse, tutti gli inseguimenti, tutte le paure,
tutte le emozioni, tutti i suoi cari...
Tutto
finito?
Solo
due paroline: per via di motivi familiari, l'aggiornamento di questa
fic potrebbe (non è sicuro) rallentarsi, ma non vi spaventate (più
di quanto non lo siate già ora...)...
Continua...
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