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Autore: TonyCocchi    12/09/2015    3 recensioni
Preparatevi a tremare di paura! A causa di un tragico errore le nostre adorate nazioni si sono trasformate in un'orda di orrendi, mordaci e pericolosissimi zombi! Sono ben pochi gli scampati a questo disastro! Ci sarà speranza per loro di farsi largo in mezzo a questo incubo e riuscire a salvare i loro amici? Riuscirà un piccolo, disastrato gruppetto di sopravvissuti a trasformarsi negli eroi che salveranno il mondo e non in barcollanti mostri in via di decomposizione? Leggete e scoprite!
Genere: Avventura, Commedia, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Allied Forces/Forze Alleate, America/Alfred F. Jones, Axis Powers/Potenze dell'Asse, Nord Italia/Feliciano Vargas, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Salve a tutti, voi che siete rimasti esterrefatti col finale dello scorso capitolo...

Quanto adoro quando i miei obiettivi nello scrivere una scena vengono centrati, e quanto adoro quando i lettori mi fanno i complimenti proprio su tali scene, che sono quelle che più mi hanno impegnato e più mi sono divertito a scrivere! *__* Grazie a tutti voi che commentate e mi fate sentire ancora più felice di essere uno scrittore! ^__^

Ma bando alla smancerie: questa è una storia truculenta, ed è tempo che prosegua sulla sua scia, e che vi immergiate di nuovo nella sua oscurità!
Buona lettura... E attenti a non tagliarvi con i cocci...




Italia stringeva i pugni così forte che le unghie affondavano nei palmi tracciando dolorosi solchi.

Maledizione, stava succedendo di nuovo: nuovamente costretti a dividersi per andare avanti, ma per quanto ancora? Che ne era stato del loro gruppo ora che quasi non c'era più nessun altro da lasciare indietro? E che ne sarebbe stato della loro missione allora?

Tormentato da quei pensieri, proseguiva al fianco di Germania, accollatosi il fardello del congegno che rappresentava la loro salvezza, nascosto nella tasca della giacca che teneva legata per le maniche alla cintola: aveva l'aria di voler raggiungere il tetto direttamente di corsa e senza altre soste, nonostante fosse prossimo allo sfinimento, come anche lui.

Italia però non riusciva a guardare fisso dinanzi a sé, a puntare la meta con ogni residua energia mentale e fisica rimastagli: i suoi piedi erano pesanti, non per la stanchezza, ma per il pensiero di America, l'ultimo di una lunga serie di eroici quanto dolorosi saluti... Era come se meno spalle rimanessero al Team dell'Apocalisse, più i membri residui soffrissero del peso immane che dal giorno prima avevano dovuto trasportare. Germania stringeva i denti e si ripeteva “avanti”, lui non riusciva a non guardarsi indietro, a non sentirsi rallentare e tirare indietro dai chi era rimasto alle loro spalle, roso dal rimorso di non aver fatto abbastanza perché potessero essere ancora lì a lottare con loro.

“Non ti preoccupare, America sa il fatto suo, no?”

“Speriamo non ci raggiunga alla stessa maniera di come ci ha raggiunti Giappone...” -ribatté caustico...

“Che ti succede?” -si accigliò Germania.

“Cosa?”

Germania rallentò fino a fermarsi, dando modo a entrambi di riprendere fiato.

“Non è da te...”

Non riuscì a formulare il resto della frase, interrompendosi per drizzare le orecchie a un suono forte e sordo, simile a un rombo, a una mandria di belve che caricano, si scontrano, rovinano al suolo.

“Cos'è stato?” -chiese Italia.

“Non lo so... E neanche ci cambierebbe nulla saperlo: dobbiamo andare avanti.”

“Poteva essere America!”
“Probabilmente...”

“Dobbiamo andare ad aiutarlo!”

“No! Lui se la caverà! Il modo migliore per aiutarlo è cavarcela anche noi!” -sbraitò al pensiero che l'orda potesse già esser loro alle costole, alla faccia, ancora una volta, della proverbiale lentezza degli zombi- “Non devono raggiungerci, sbrigati!”

“Che razza di team va avanti abbandonando i propri compagni?!” -gli gridò in risposta.
“Se non arrivi a capirlo allora puoi pure restartene qui!”

“......”

Ludwid, non appena resosi conto delle sue parole, ruppe il silenzio venuto a calare con un sospiro.

“Scusami... Sei quel che rimane del mio team, Italia, e ho ancora bisogno di te per farcela.”

Dopo lo sfogo, Italia si sentì rinsavire a sua volta: “Scusami tu, sto solo facendo perdere altro tempo... Andiamo!”

Benedissero entrambi di essersi ripresi prima di darsi da soli il colpo di grazia. America aveva un piano, lo aveva detto, e anche loro erano parte di quel piano, e se si fossero pure messi a bisticciare, senza dubbio presto non ci sarebbe stato più nessuno a portarlo a compimento.

Ripresero a correre, tra i lontani e sinistri rumori che proseguivano intorno a loro: lugubri versi e grida smorzate dalle dure e fredde mura, giungevano alle loro orecchie, senza potervi leggere ciò che accadeva, senza portar notizia di alcunché, con l'unico scopo di indurre paura e fretta ai loro cuori.

Ansanti, rivolgevano i loro occhi alle pareti insensibili che li circondavano, come a pregarle di mostrar loro la via il più presto possibile.

“Germania! Lo senti?”
“Italia, non pensarci! Dobbiamo...”
“No, fermati!”

Con uno scatto lo afferrò per la stoffa della camicia al braccio, costringendolo a fermarsi. Germania fece per parlare, ma il compagno, imperterrito, lo zittì con un gesto.

“Ascolta...”

Fu allora che Germania si rese conto di quello strano rumore. Sulle prime non seppe identificarlo, era come un fruscio, uno sfregare... Quel che di certo si capiva, era che qualunque cosa facesse quel rumore si stava avvicinando.

I due infine indirizzarono la loro attenzione alla loro sinistra. Il rumore era più chiaro, per quanto ancora indecifrabile: sembrava che qualcuno stesse camminando dall'altra parte sfregando un qualche oggetto, probabilmente metallico proprio contro quella stessa parete.

La seguirono con gli occhi e videro il punto in cui, ad alcuni passi dinanzi a loro, si apriva nel muro un accesso. Germania sollevò il tubo, preparandosi.

Il rumore cessò e l'istante dopo, da oltre l'angolo, sbucò infine una padella.

Anticipati da una risatina minacciosa, due stivali di cuoio e una giacca verde scuro la seguirono. Zombi-Ungheria sbarrò loro il passo, posando su di essi uno sguardo folle e passandosi la lingua sulle labbra di un cadaverico color violaceo; la sua temibile arma dondolava lenta e minacciosa dal suo penzolante braccio destro, di sicuro solo in apparenza rachitico e privo di forze.

A Germania, ancora terrorizzato dall'idea che la marea potesse raggiungerli da un momento all'altro, premeva, più di ogni altra cosa, non perdere dell'altro tempo e indietreggiò di un passo, meditando di ritirarsi dallo scontro e cercare un'altra via. Fu allora che Italia lo scosse con uno strattone, costringendolo a guardarsi alle loro spalle.

La via di fuga era anch'essa bloccata. Zombi-Turchia, sbucato da qualche porta, esibiva, sullo sfondo della classica pelle macilenta da morto vivente, un volto viceversa livido e sfatto, con il naso gonfio e visibilmente rotto. Al di là dell'aspetto indecente, che per nulla faceva onore all'elegante e affascinante nazione orientale, ciò di cui più dovevano aver timore era senz'altro la ricurva scimitarra che brandiva nella mano destra, chiusa in un guanto strappato.

Germania deglutì: erano entrambi nemici temibili, e tutto quello che era rimasto loro per difendersi era un tubo di ferro, valente si, ma la spada tra le mani di Sadiq, tra l'altro abilissimo spadaccino, sembrava farsi beffe di lui. Ad Elizaveta poi la trasformazione aveva decisamente fatto un brutto effetto, e sprizzava cattiveria e ferocia da ogni poro, senza contare i tanti aneddoti che suo fratello Prussia gli aveva raccontato riguardo le imprese da lei compiute con la sua padella...

Germania non sapeva verso chi dei due rivolgersi, cercando al contempo di fare da scudo ad Italia col proprio corpo.

“Sta indietro, Feli... Cercherò di...”

Ma Italia lo stupì quando, con una spintarella, lo mise faccia a faccia con zombi-Turchia, per poi non cercare rifugio dietro la sua schiena, come avrebbe voluto Germania, ma poggiandovi la propria contro di essa, rivolgendosi battagliero contro zombi-Ungheria.

Non credeva avrebbe mai visto il momento in cui lui e Italia, alleati e amici di lunga data, si sarebbero ritrovati, nel momento più disperato, a combattere spalla a spalla, e si diede dello stupido per averne dubitato.

“Non ti preoccupare Germania, penso io a Ungheria!”
“Come?”
“Mi inventerò qualcosa!”

“Molto alla America...”
Il suono della risatina di Italia parve rinvigorirlo. Germania guardò le proprie due mani strette intorno al tubo di Russia: forse poteva farcela, forse ce l'avrebbero fatta davvero! Si ricordò del coltello che aveva raccolto dalla caffetteria e che aveva usato per difendersi mentre stavano usando il tubo a mò di rampino, e, con un rapido gesto, glielo porse: poco, ma sempre meglio di niente.

Feliciano aveva il cuore in gola quando Ungheria iniziò a fare dei lenti passi verso di lui. Sapeva bene che se avesse finito per soccombere, come poteva sembrar scontato, Germania non avrebbe avuto speranza contro entrambi; se d'altro canto il suo amico fosse stato sconfitto, sarebbe finito in un lampo a fettine a sua volta.

Non potevano fare altro che contare l'uno sull'altro, e battersi come prede in trappola contro i leoni affamati.

Turchia fece due ampi passi in avanti, guardando il suo avversario con lo scherno di chi si sente superiore, per poi partire improvviso, senza alcun grido battagliero, silenzioso e letale come il sibilo della sua spada che fendette l'aria. Fu allora Ludwig a darsi coraggio con un grido mentre balzava in avanti contro di lui, facendo cozzare rumorosamente metallo e metallo.

Ungheria attaccò più o meno nello stesso istante, mulinando la pesante padella nell'aria dinanzi il naso di Feliciano, che intuì tutta la forza e la pericolosità di quell'insolita arma solo dallo spostamento d'aria. Dinanzi alla sua ferocia, il ragazzo si limitò a scansare, non senza incertezza.

“Oh, Italia, sei sempre così carino!” -lo schernì lei- “Mi ricorda quando giocavamo ad acchiapparello, ricordi? Fatti acchiappare, su!”

Di riflesso strinse le dita attorno al coltello: gli dava coraggio, ma il suo raggio d'azione era limitato, e non aveva modo di avvicinarsi a lei senza rischiare di farsi prendere in pieno... Se né la sua forza né le sue armi potevano competere con lei, la sua unica possibilità era davvero quella di farsi venire un'idea, una buona idea... Altrimenti...

Intanto il possente Germania faticava non poco con l'agilità e la fluidità dei movimenti di zombi-Turchia, più abile e veloce: era già riuscito a ferirlo ben due volte di striscio alle braccia, lì dove la camicia si era tinta di rosso.

Lo zombi, incoraggiato dai risultati, proseguì a menar fendenti, che Germania riusciva sempre a deviare col suo tubo quel che bastava per salvarsi. Quando però la scimitarra tracciò un arco verso l'alto per poi discendere veloce su di lui, non riuscì ad essere abbastanza rapido da riuscire a non opporsi direttamente al filo della lama: Germania ebbe come l'impressione che tutto si congelasse per un attimo, e l'attimo dopo, il suo tubo era dimezzato, e l'estremità a rubinetto cadeva sonoramente sul pavimento davanti i suoi piedi. Guardò sconsolato il taglio netto sul corto pezzo di metallo rimastogli, dimenticandosi di dover esser grato che per terra non ci fossero anche le sue mani... Alzò gli occhi su zombi-Turchia, fermatosi apposta per schernirlo silenziosamente con uno di quegli eloquenti sogghigni.

<< E adesso? >> -gli domandava senza parlare.

Lungi dall'essersi arreso o dal mostrarsi demoralizzato, Germania riuscì a rendere onore alla sua fama, conservando la sua razionalità e realizzando l'unica cosa rimastagli da fare.

Tirare a tradimento il tubo rimastogli tra le mani dritto sulla sua faccia.

All'urlo sofferente fecero seguito un imprecazione in turco e alcune biascicate parole: “Perché sempre il naso?!”

Germania non le ascoltò neanche, si era già dato lo slancio per gettarglisi addosso mentre si copriva la faccia con ambo le mani: il dolore immane e improvviso gli aveva fatto cadere a terra la spada, era il momento migliore per contrattaccare.

Gli piombò addosso a tutta velocità, cercando di stordirlo già solo con la forza dell'impatto, rovesciandolo a terra e afferrandogli le braccia per iniziare una furiosa lotta.

Italia intanto aveva realizzato con piacere di avere degli ottimi riflessi: non era molto portato a darle, ma la sua paura di prenderle e farsi male, oltre che il suo fisico leggero, lo rendevano un avversario agile e sgusciante. Non voleva più essere una palla al piede per gli altri, e la sua determinazione era più forte che mai, nonostante ciò non sperava certo di vincere continuando a schivare fino ad esaurire le energie, e allo stesso modo aveva rimesso in tasca il coltello, al momento inutile. Non doveva lasciarsi paralizzare dall'ansia e doveva ragionare su ciò che aveva intorno a sé: una pericolosissima zombi, un corridoio, un amico alle spalle che gli impediva di indietreggiare troppo, e, a ridosso del muro, un cesto per le cartacce ancora non svuotato e un vaso di terra con una bella pianta di gerani.

Aspettò che zombi-Ungheria gli scagliasse un'altra padellata per abbassarsi e allontanarsi da lei con una capriola (uno dei tanti esercizi che Germania aveva insistito a fargli imparare a suon di rimproveri e tirate di orecchie...). Afferrò di colpo il cesto dei rifiuti e, sollevatolo senza sforzo, lo capovolse sulla sua testa, imprigionandola fino ai gomiti! Come colto da un improvvisa ispirazione, Italia non si fermò lì, ma rifilò al cesto, in contemporanea, due schiaffoni, producendo un sordo rimbombo.

Zombi-Ungheria gemette e barcollò, dando prova di aver accusato, ma il suo stordimento non sarebbe durato tanto con così poco. Senza neanche pensarci, Italia si avventò sulla padella, cercando di strappargliela ora che non poteva né vedere, né soprattutto mordere. Tuttavia l'avversario era una vera dura: non mollò affatto la presa, malgrado quanta forza ci mettesse, anzi, provò comunque a difendersi scuotendo il corpo e menando calci alla cieca sulle povere ginocchia di Feliciano.

Il dolore lo abbagliò per un attimo, ma poi si impose di riscuotersi: distrarsi un attimo poteva essere fatale. Era più forte di lei per disarmarla in quel modo, ma ce n'era un altro per cui avrebbe sicuro mollato la presa: morderle il polso. Il sapore di carne marcia era orribile, eppure, aiutandosi immaginando un filetto, un po' come aveva fatto con i baltici, serrò le mandibole fino a sentire le fragili ossa del polso rompersi e la presa cedere. Si stupì di sé stesso: più che la ragione, era in realtà l'istinto a fare da padrone, il suo istinto di preda “facile” ma pronta a tutto pur di sopravvivere che finalmente si destava.

Posseduta dall'ira, zombi-Ungheria lo scagliò via con una spallata e poi si tolse dalla testa il cesto, gridando e digrignando i denti più spaventosa di una gorgone, con cartacce tra i capelli al posto dei serpenti. Feliciano era mezzo inginocchiato dal dolore quando se la vide piombare addosso: era il momento della seconda buona idea. Allungò il braccio fino al vaso, ne trasse una manciata di terra e, memore delle tecniche di suo fratello, glielo tirò negli occhi strabuzzati dall'istinto omicida.

Zombi-Ungheria gemette, coprendosi il volto con ambo le mani per pulirsi. Ancora più arrabbiata, con gli occhi arrossati accecati dalle lacrime, si lanciò verso la sagoma sfocata di Feliciano. Quest'ultimo si abbassò temendo fosse giunta la fine, ma il suo corpo si mosse di fatto da solo quando si rese conto che sarebbe bastato allungare un po' la caviglia per farle lo sgambetto.

Cadde di faccia sul pavimento e Italia sentì che doveva muoversi, non ci sarebbero state occasioni migliori! La zombi dolorante stava cercando di trascinarsi a fatica verso la fida padella rimasta a terra: atterrito dalla sola idea, tirò fuori il coltello e con una fredda crudeltà che mai gli sarebbe uscita in altro frangente, lo pianto nel dorso della sua mano protesa, inchiodandola letteralmente a terra.

Ungheria gemette e urlò ancora, per nulla disposta a cedere nemmeno a quello, anzi, scalciava, si dibatteva, e cercava con l'altra mano di afferrargli il pantalone, in modo da tirarlo giù per terra ed averlo a portata di morso. Italia si irrigidì tutto, facendo resistenza nel mentre che riusciva a raggiungere con le punte delle dita il manico della sua padella.

Piantò i piedi, la sollevò e la abbatté con forza sulla sua testa.

Aveva smesso di sbraitare e si udiva solo il suo minaccioso gemere, ma non aveva cessato del tutto di muoversi. Feli la colpì di nuovo, e poi ancora, e poi ancora, con violenza, finché sul metallo ormai ammaccato non rimasero tracce del sangue schizzato fuori dal suo cranio fracassato.

“Anf... Anf... Anf...”

Ce l'aveva fatta! L'aveva battuta! Un avversario di quelli che America avrebbe definito “belli tosti”, e lui l'aveva sconfitta tutta da solo! Il “sensibile” del gruppo, la palla al piede, non era più tale!

Si spensero così gli ultimi rumori di scontro in quel corridoio.

Italia era pervaso da uno strano senso di eccitazione che pareva aver cancellato ogni traccia di fatica all'infuori del suo fiato grosso. Dimenticò persino di dispiacersi per la povera Ungheria, impegnato com'era a gioire della sua vittoria: ecco cosa voleva dire combattere e battere il tuo avversario, rendersi utili, essere un vincente, un ammazza-zombi!

“Stai bene?” -si sentì chiedere.
Si girò di scatto: lo zombi-Turchia era a terra privo di sensi, riverso contro il muro.

“Si! Ce l'ho fatta, Germania, hai visto? Ce l'ho fatta!”
“Sei stato bravissimo, Italia... Bravissimo...” -fece l'altro con voce stanca.

Quando lo vide meglio, il suo rumoroso affanno divenne una sgomenta apnea.

Le sue palpebre cadevano stanche come le sue membra senza forza, il suo respiro era irregolare, la sua mano destra si teneva tra la spalla sinistra e il collo, dove si allargava una macchia di sangue sulla stoffa lacerata.

Capì, senza che dovesse dir nulla, e mai un sorriso rivoltogli fece più male.

“Complimenti, Italia, ti sei dimostrato per quel che vali.”

“No... No...” -balbettò.

Con passo pesante gli si avvicinò, e quando lo ebbe dinanzi, tirò fuori dalla tasca della giacca il macchinario di Giappone.

“Prendi, ora sta a te.”

“No... No, aspetta, Germania, tu puoi resistere... Possiamo...” -trasecolò lui, per nulla desideroso di raccogliere il testimone.
Germania ebbe un tremito, come una fitta di dolore: “Lascia stare, Italia, ormai è andata così... Ma tu puoi ancora farci qualcosa.”

“A-aspetta...”

Ebbe un'altra fitta e qualcosa di diverso balenò attraverso i suoi occhi, venendo subito rispedito indietro dalla sua volontà: “Ascoltami, Italia, devi essere tu... Devi farcela! E ce la farai... Ne sono sicuro!”

Le sue mani tremanti si mossero da sole, mentre il resto di lui restava come inchiodato immobile in quel punto del pavimento in cui, incoraggiante fino all'ultimo, Germania stava mettendo il suo destino e i destini di tutti nelle mani dell'ultimo, in tutti i sensi, del loro gruppetto.

“Io... Sono da solo...” - gemette.

“Da solo hai sconfitto Ungheria, no? Tranquillo, io... Mi fido di te... E del tuo coraggio.”

“Perché... Perché proprio ora che... Proprio ora che...”

“Non ha importanza, Italia...”

Un forte rumore provenne dalla direzione da cui erano venuti. Italia si guardò intorno confuso, mentre Germania intuì subito.

Strinse la ferita, mentre i suoi occhi aveva già un che di infossato: “Arrivano... Devi andare... Io li tratterrò ancora un po', sbrigati.”

“... Germania...”
“Va...”

“......”
“VA VIA, ITALIA!” -urlò lui, spaventoso quanto una supplica.

Non fu facile, con le gambe che tremavano, ma alla fine, si rassegnò a voltarsi, mentre Germania faceva lo stesso, pronto a fronteggiare ciò che sarebbe stato.
Di nuovo spalla contro spalla.

Per la seconda e già ultima volta.

I suoi piedi si schiodarono di colpo, e Italia schizzò via, rapido come un fulmine, sparendo ben presto lontano nel corridoio.

“Vai...”

L'ansante Germania si sentiva il corpo a pezzi e la mente attanagliata da malsani propositi che era sempre più difficile mettere a tacere ogni secondo che passava...

Gli sembrò l'edificio tremasse, come un terremoto, una calamità che aspettava solo di passare l'angolo a qualche decina di metri da lui.

Ed eccoli, una torma confusa, spintonante, brulicante come uno sciame di locuste, e lui si sentì la penultima spiga di grano nel campo.

C'erano suo fratello Prussia, l'aristocratico Austria, la gentile Ucraina, e tanti altri, e tutti erano mostruosi, e si stavano lanciando su di lui come un onda che non lascia alcuna via di scampo.

Tolse la mano dalla ferita e li attese sul posto, raccogliendo le ultime forze nelle punte dei piedi. Aspettò che fossero abbastanza vicini.

Poi riempì un'ultima volta i suoi polmoni finché avrebbe avuto bisogno di respirare, e si svuotò in un urlo da rivaleggiare, coprire e zittire tutti i loro, mentre si lanciava in avanti per combatterli. Si lanciò su di loro come una mosca su un incendio, come un pazzo contro un muro, un muro che nell'urto gli crollò addosso, seppellendolo in un istante.


Cosa, o chi, ancora concedeva forze a quelle gambe per correre?

Italia non si guardò indietro nemmeno una volta, ripetendosi come un mantra che ora stava a lui. Glielo aveva detto Romano. Glielo aveva ripetuto Germania. Adesso se lo sarebbe ripetuto anche lui ogni istante.

Adesso stava a lui.
Solo a lui.

Smise di ripeterselo solo quando vide la sagoma squadrata della porta d'emergenza stagliarsi grigia sulla destra, sotto il cartello verde luminoso ad indicarla. Diede una brusca spinta al maniglione e ci si infilò dentro, trovandosi in una profonda oscurità che lo accecò finché i suoi occhi non si abituarono; solo allora vide la rampa di scale alla sua sinistra.

Salì una rampa saltando i gradini a due a due, e quello fu il suo ultimo sforzo prima di crollare: non ne aveva veramente più. Arrivato su un piccolissimo pianerottolo quadrato le ginocchia ripresero a tremare, e quando alzò gli occhi sulla nuova rampa, alta e buia, che si stagliava davanti a sé, cedettero del tutto.

Italia si sedette a ridosso del muro, e decise che adesso poteva concedersi il lusso di piangere copiosamente. I suoi singhiozzi si perdevano senza riecheggiare in quell'oscurità. Con la mano destra si copriva il volto contrito dai lamenti, la mano sinistra stringeva, disperata più che ostinata, il congegno, ritrovatosi nelle mani di una quantomai improbabile ultima speranza. Chi l'avrebbe mai detto sarebbe stata lui?


Tutto era andato in frantumi.

Il loro gruppo, i loro piani, le loro speranze i loro eroici propositi, la voglia con cui si erano messi in gioco per il bene di tutti.

Ogni cosa.

Il tanto decantato team non era stato altro che una fragile scultura che, un colpo di maglio dopo l'altro, si era lasciata dietro sé stessa pezzo per pezzo.

Nulla era servito: non la loro forza né il forte legame che li aveva uniti, non il loro ardore né il loro ingegno, non il desiderio di riabbracciare i loro cari né la rabbia che cresceva a ogni vittima.

E, da ultimo, non era servito lui.

Proprio quando era riuscito a sbloccarsi, ridestarsi dal torpore e sentirsi realmente partecipe, quando aveva assaporato la battaglia e la vittoria, tutto della sua piccola grande gloria sembrava divenuto vano; nemmeno essere riuscito a non essere il solito Italia era bastato, e Germania, il suo migliore amico, era stato portato via, come l'ennesima vela della loro nave, in balia di quella tempesta sovrannaturale che non faceva altro che inghiottire nel suo gorgo tutto ciò che amavano, senza accennare a placarsi. Ripensava alle energie e all'abilità che era stato capace di tirar fuori, e neppure quella aveva fatto la differenza; e ora, intorno a sé, ora che finalmente c'era riuscito, non aveva più nessuno a cui dimostrare chi era il piccolo, spaventato Italia.

Non c'era più nessuno. Nessuno da stupire, nessuno da salvare, nessuno per cui sacrificarsi.

Volle rivederli tutti uno per uno, malgrado il dolore.

Russia, la cui rassicurante invincibilità, solo apparente, era crollata come un castello di carte dinanzi un avversario che non aveva avuto nemmeno il bisogno di sfiorarlo; Inghilterra, colto di sorpresa nel pieno della gioia di quando è tutto finito, un modo oltremodo crudele di cadere; Giappone, salutato come amico leale e ritrovato ostile e sfigurato, insulto a tutto ciò che era stato; America, quel buffo leader che neanche una volta aveva mancato nell'indicar loro la giusta via da seguire; Germania, mille volte più grande, forte e affidabile di quanto lui avrebbe mai potuto essere, e che eppure non ce l'aveva fatta a salvarsi, e lui invece si.

E poi Romano. Trascinato suo malgrado in quella disperata missione, eppure per loro, e per il suo fratellino, aveva dato tutto e ci aveva rimesso ogni cosa.

Riascoltò le parole che gli aveva rivolto, guardandolo negli occhi, un attimo prima di lasciarsi cadere.

Tra un singhiozzo e l'altro, cominciò a sbattere forte il pugno per terra.

Non voleva finisse così! Con lui rannicchiato al buio, solo e vinto, a mormorarsi frasi del tipo “Mi spiace fratellone, ho fatto del mio meglio ma non è bastato”, senza opporsi al finale già scritto a una pagina da quel triste angolino.

Il congegno di Giappone era ancora in mano sua, e, a giudicare dalla luce verde accesa, perfettamente funzionante; e finché c'era, con qualcuno disposto a portarselo dietro, allora voleva dire che tutto poteva ancora aggiustarsi, che non era già finita!

Si passò la manica sugli occhi.

Glielo aveva detto Romano, e glielo aveva ripetuto Germania: adesso stava a lui! Se ci ripensava adesso gli veniva voglia di prendersi a schiaffi per i suoi pensieri di poco prima!

Gli avevano detto di far vedere a tutti chi era, ebbene, se pure non c'era più un pubblico intorno, quello spettacolo lo doveva almeno a sé stesso.

Ricacciò altre lacrime, dicendosi che poteva finire in quel momento solo se lo voleva lui, e lui non voleva.


Sentì un rumore provenire dal basso.

Era la porta d'emergenza da cui era entrato che finiva di spalancarsi, dopo che incautamente aveva dimenticato di chiuderla dietro di sé. La luce dipinse per un attimo il muro di fronte, finché su di essa non si stagliò una grossa ombra.

L'ombra restò ferma il tempo di un'occhiata, poi la porta si richiuse piano, ed essa scomparve, fondendosi nell'oscurità.

Feli tremava fino alla punta dei capelli, mentre seguiva, senza muovere un muscolo, il rumore di passi che risalivano i gradini. Questione di secondi, e sarebbe apparsa oltre l'angolo e l'avrebbe trovato.

Stanco, abbandonato e terrorizzato.

Così finiva dunque?

Tutte le lotte, tutte le corse, tutti gli inseguimenti, tutte le paure, tutte le emozioni, tutti i suoi cari...

Tutto finito?




Solo due paroline: per via di motivi familiari, l'aggiornamento di questa fic potrebbe (non è sicuro) rallentarsi, ma non vi spaventate (più di quanto non lo siate già ora...)...

Continua...

  
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