di che cosa parla veramente una canzone
Di che cosa parla veramente una canzone
A chi ho perso per strada
A chi sapeva leggermi in faccia
A chi ha bisogno di se stesso
A te (voi) a cui mordo le dita
Prima regola: prudenza
Era bello sentirti
cantare giù per le scale.
Gli scalini freddi del cortile interno, un quadrato di luce
intermittente, il neon del quinto piano e il caldo umido. La sensazione di
sentirmi persa come mai prima di allora.
La fredda consapevolezza di sapere esattamente che gusto
hanno i miei casini e non avere idea di come uscirne e forse non avere la
minima voglia di uscirne. La rabbia che m’intasa lo stomaco e la totale
mancanza di istinto.
Era bello sentirti cantare giù per le scale, come se il
mondo ti fosse finito in bocca e tentassi di liberartene sputandolo sulle pareti
grigio cemento.
Mi arrivavi dritto in camera, non come vento in faccia, come
respiro dentro le scapole, mano calda che mi si poggia sulle labbra e m’infila
due dita in gola. La lenta e devastante agonia di una voce, che non è la tua
voce, che racconta i tuoi casini alle scale di un condominio del centro di
Roma.
Una Roma che dorme, rumore che non è rumore ma compagno
insonne che alle cinque di mattina ti bussa alla porta e ti tiene sveglia con
gli occhi puntati su un’alba bagnata e antenne che bucano il cielo. Me ne stavo
lì, con i piedi sulle tegole e le scarpe sporche di catrame, a disegnare gli
angoli retti delle mie paure e a morderti le dita che continuavi per ore a
lasciarmi in gola.
Prudente, senza paura di cadere e senza la voglia di
lasciarmi andare, aspettavo l’ultima parola dell’ultimo verso e mi chiudevo
l’alba alle spalle per entrare nelle lenzuola e lasciare che Roma si svegliasse
e che il rumore tornasse ad essere solo rumore.
Non so nemmeno che faccia avessi, ricordo solo un braccio e
la t-shirt nera che al buio era solo una macchia indistinta spalmata a terra. Non
ho assolutamente idea di che faccia avessi io, in quei momenti, non riuscivo a
guardarmi le labbra e capire se tremassi, non riuscivo a vedermi gli occhi e
accorgermi se in realtà non stessi già ridendo di quella cazzo di situazione
assurda.
Il-bisogno-pulsante-di-dover-provare-sulla-propria-pelle-la-profonda-delusione-di-un-rifiuto-consapevole.
La voglia immensa di prendere a pugni uno specchio incapace
di riflettermi; infilarmi una mano in gola e stringere i polmoni congestionati
e strozzare un respiro affannato; tirar fuori lo stomaco, lavarlo della rabbia
e dell’ansia e del fottuto schifo che io non ci ho messo, non ricordo di averlo
fatto e non sopporto che qualcuno possa esserci riuscito.
Riuscito ad arrivare fin lì, dico; riuscito a schivare le
promesse, la prudenza, le ferme decisioni ed essersi piazzato lì. Un lì che non
è lo stesso posto dove finisce tutto l’amore represso che mi nascondo nelle
tasche manco fossero monetine. E’ un lì meschino, dove nascondo l’amaro,
l’acido e dove il sangue corrode e non riscalda.
Era bello sentirti cantare per le scale, sentirsi adatti a dare il giusto peso ai nostri
sentimenti, come se realmente fossi pronta ad abituarmi a qualcosa che non
riuscivo nemmeno a comprendere. Prudente, come sempre, a non dire nulla di più
del dovuto, di quelle due o tre parole mirate a compiacere e a distogliere
l’attenzione dagli occhi che non riuscivo a vedermi e che quindi nessuno
avrebbe potuto e dovuto vedere. Prudente a non dirti che nello stomaco avevo
già troppo e che non saresti riuscito ad entrarci e starci comodo. Prudente nel
sentirmi leggera per evitare di sentirmi pesante.
Prudente nell’ammettere di aver chiuso un barattolo di marmellata di ciliegie e di averne
aperto un altro, miele.
E c’è una cosa che mi fa ridere più di quanto mi faccia
stare male ed è sempre lei, prepotente come al solito, testarda e permalosa: la
consapevolezza di me stessa. Mi ricorda costantemente che ho bisogno solo di
rumore, rumore e caos, e non della tranquilla agonia di un amore non
corrisposto.
E vaffanculo, corrispondere di cosa? Ti ho chiesto di
tenermi la mano se la luce si fosse abbassata non perché avessi bisogno della
tua mano, fisicamente, ma perché dovevo condividermi, perché avevo una voglia
immensa di condividermi. Come se mi fossi stancata di raccontare la storia di
un tizio che canta in un cortile condominiale e volessi raccontare la
noiosissima storia di una ragazza, che sarei io, seduta sul davanzale di una
finestra a raccogliere pioggia in un bicchiere il giorno del suo compleanno.
Che poi tutta questa lunga storia di te, che era bello
sentirti cantare per le scale, della tua voce calda e le crepe nelle pareti,
non credo nemmeno parli poi tanto di te perché sei talmente casino che quasi mi
sono davvero abituata alle due dita in gola, come se mordertele mi rendesse
completa. Come se mi trovassi per la prima volta in totale sintonia con lo
stomaco di un’altra persona, di cui condivido il gusto acido del necessario bisogno
di sentirsi soli.
E siamo bravi, io e te, chiusi nei nostri pensieri, persi
nella voglia di raccontarci e di non sapere come fare, abituati al rumoroso
silenzio di un pensiero che ti gira in testa e che non s’inceppa mai.
Barattolo di miele, secondo ripiano, di fianco alla pasta,
dietro alla farina.
Era bello.
Era bello. (Punto)
E adesso esco, mi chiudo la tua voce alle spalle e mi prendo
la pioggia, diversa, sporca, appiccicosa, ma mia.
…e la seconda? Audacia!
A chi cammina sotto la
pioggia
Perché fa così autunno
Ed è bello cadere d’autunno sopra le foglie come le foglie
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