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Autore: Lisa_Pan    15/09/2015    3 recensioni
Il-bisogno-pulsante-di-dover-provare-sulla-propria-pelle-la-profonda-delusione-di-un-rifiuto-consapevole.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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di che cosa parla veramente una canzone

Di che cosa parla veramente una canzone

 

A chi ho perso per strada

A chi sapeva leggermi in faccia

A chi ha bisogno di se stesso

A te (voi) a cui mordo le dita

 

Prima regola: prudenza

 

 

Era bello sentirti cantare giù per le scale.

Gli scalini freddi del cortile interno, un quadrato di luce intermittente, il neon del quinto piano e il caldo umido. La sensazione di sentirmi persa come mai prima di allora.

La fredda consapevolezza di sapere esattamente che gusto hanno i miei casini e non avere idea di come uscirne e forse non avere la minima voglia di uscirne. La rabbia che m’intasa lo stomaco e la totale mancanza di istinto.

Era bello sentirti cantare giù per le scale, come se il mondo ti fosse finito in bocca e tentassi di liberartene sputandolo sulle pareti grigio cemento.

Mi arrivavi dritto in camera, non come vento in faccia, come respiro dentro le scapole, mano calda che mi si poggia sulle labbra e m’infila due dita in gola. La lenta e devastante agonia di una voce, che non è la tua voce, che racconta i tuoi casini alle scale di un condominio del centro di Roma.

Una Roma che dorme, rumore che non è rumore ma compagno insonne che alle cinque di mattina ti bussa alla porta e ti tiene sveglia con gli occhi puntati su un’alba bagnata e antenne che bucano il cielo. Me ne stavo lì, con i piedi sulle tegole e le scarpe sporche di catrame, a disegnare gli angoli retti delle mie paure e a morderti le dita che continuavi per ore a lasciarmi in gola.

Prudente, senza paura di cadere e senza la voglia di lasciarmi andare, aspettavo l’ultima parola dell’ultimo verso e mi chiudevo l’alba alle spalle per entrare nelle lenzuola e lasciare che Roma si svegliasse e che il rumore tornasse ad essere solo rumore.

Non so nemmeno che faccia avessi, ricordo solo un braccio e la t-shirt nera che al buio era solo una macchia indistinta spalmata a terra. Non ho assolutamente idea di che faccia avessi io, in quei momenti, non riuscivo a guardarmi le labbra e capire se tremassi, non riuscivo a vedermi gli occhi e accorgermi se in realtà non stessi già ridendo di quella cazzo di situazione assurda.

Il-bisogno-pulsante-di-dover-provare-sulla-propria-pelle-la-profonda-delusione-di-un-rifiuto-consapevole.

La voglia immensa di prendere a pugni uno specchio incapace di riflettermi; infilarmi una mano in gola e stringere i polmoni congestionati e strozzare un respiro affannato; tirar fuori lo stomaco, lavarlo della rabbia e dell’ansia e del fottuto schifo che io non ci ho messo, non ricordo di averlo fatto e non sopporto che qualcuno possa esserci riuscito.

Riuscito ad arrivare fin lì, dico; riuscito a schivare le promesse, la prudenza, le ferme decisioni ed essersi piazzato lì. Un lì che non è lo stesso posto dove finisce tutto l’amore represso che mi nascondo nelle tasche manco fossero monetine. E’ un lì meschino, dove nascondo l’amaro, l’acido e dove il sangue corrode e non riscalda.

Era bello sentirti cantare per le scale, sentirsi adatti a dare il giusto peso ai nostri sentimenti, come se realmente fossi pronta ad abituarmi a qualcosa che non riuscivo nemmeno a comprendere. Prudente, come sempre, a non dire nulla di più del dovuto, di quelle due o tre parole mirate a compiacere e a distogliere l’attenzione dagli occhi che non riuscivo a vedermi e che quindi nessuno avrebbe potuto e dovuto vedere. Prudente a non dirti che nello stomaco avevo già troppo e che non saresti riuscito ad entrarci e starci comodo. Prudente nel sentirmi leggera per evitare di sentirmi pesante.

Prudente nell’ammettere di aver chiuso un barattolo di marmellata di ciliegie e di averne aperto un altro, miele.

E c’è una cosa che mi fa ridere più di quanto mi faccia stare male ed è sempre lei, prepotente come al solito, testarda e permalosa: la consapevolezza di me stessa. Mi ricorda costantemente che ho bisogno solo di rumore, rumore e caos, e non della tranquilla agonia di un amore non corrisposto.

E vaffanculo, corrispondere di cosa? Ti ho chiesto di tenermi la mano se la luce si fosse abbassata non perché avessi bisogno della tua mano, fisicamente, ma perché dovevo condividermi, perché avevo una voglia immensa di condividermi. Come se mi fossi stancata di raccontare la storia di un tizio che canta in un cortile condominiale e volessi raccontare la noiosissima storia di una ragazza, che sarei io, seduta sul davanzale di una finestra a raccogliere pioggia in un bicchiere il giorno del suo compleanno.

Che poi tutta questa lunga storia di te, che era bello sentirti cantare per le scale, della tua voce calda e le crepe nelle pareti, non credo nemmeno parli poi tanto di te perché sei talmente casino che quasi mi sono davvero abituata alle due dita in gola, come se mordertele mi rendesse completa. Come se mi trovassi per la prima volta in totale sintonia con lo stomaco di un’altra persona, di cui condivido il gusto acido del necessario bisogno di sentirsi soli.

E siamo bravi, io e te, chiusi nei nostri pensieri, persi nella voglia di raccontarci e di non sapere come fare, abituati al rumoroso silenzio di un pensiero che ti gira in testa e che non s’inceppa mai.

Barattolo di miele, secondo ripiano, di fianco alla pasta, dietro alla farina.

Era bello.

Era bello. (Punto)

E adesso esco, mi chiudo la tua voce alle spalle e mi prendo la pioggia, diversa, sporca, appiccicosa, ma mia.


…e la seconda? Audacia!

 

A chi cammina sotto la pioggia

Perché fa così autunno

Ed è bello cadere d’autunno sopra le foglie come le foglie

   
 
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